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La "Chanson turca" di Cristina Annino

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Curata per LietoColle da Maurizio Cucchi, Chanson turca di Cristina Annino mette in opera quello che altrove Donato Di Stasi definisce "ragionamento emotivo" ossia quel cortocircuito prodotto "fra le pulsioni profonde e gli strambi sillogismi di superficie". In effetti, la poesia anniniana, così come la sua pittura, ricava il proprio oggetto da un magma imperscrutabile che, lungi dallo scomparire nella forma, chiede udienza per sporcarla, contaminandola con i suoi detriti. Il ragionamento, infatti, non perdendo il contatto con l'ipocentro tellurico, viene a galla con sintagmi luminosi quanto enigmatici, deliranti eppure perfetti nella loro persuasività: "Ognuno / conduce in terra le sue passioni, / è chiaro. Per questo l'hanno / aspettato sempre seduti / sulle panchine". Per converso l'emozione, carica di pulsione, si cristallizza in immagini debordanti, talvolta di matrice dadaista, come "Koko accende polmoni a spiovere con / le orecchie" talaltra nella decisione imponderabile degli a-capo, mai come ora asintattici, nervosamente slogati da preposizioni semplici e articoli.

Se la prima sezione della Chanson ci fa entrare nel laboratorio più affascinante della Annino, poetessa amata da differenti generazioni proprio per la sua capacità di comunicare lo scarto fra evidenza del reale e sua interrogazione, la seconda ci porta nel conflitto sociale, tra cronaca e storia, ma anche nel grande tema leopardiano del rapporto uomo-natura. Lo fa costruendo un'operetta morale in versi, in cui ironia e tenerezza verso i deboli, preoccupazione per il destino collettivo e affetti familiari –primo fra questi Koko, il gatto siamese – si combinano in un dettato più comunicativo, ma sempre alla maniera anniniana, con inserti vocativi, modi di dire, procedure analogiche e metafore sorprendenti. La novità stilistica più evidente, nel libro, è l'uso insistito del corsivo, che amplifica quel "senso tribale / dell'idea ritmica" che guida la voce inconfondibile dell'autrice, qui e altrove.

(uscita in "Caffè Michelangiolo. Rivista di Pensiero e Arte, Anno XVI - n.2 Maggio-Agosto 2011) 


Oltre Mosè

Koko accende polmoni a spiovere con
le orecchie. Quel suo fischio – non lo
nego –, le vibrazioni
smilze, le acca, l’esclamativo, spartiranno
onde nel corridoio. Eppure vorrei un
pensiero più grande, atomico, da Madonna
di strada, madonnaro; lo
dipingerei sull’impiantito coi piedi. E’
questa lentezza di cottura che
ci incatena, ci formalizza, ecco, la
valanga l’avvertiamo ma ancora non
ci tocca. Siamo pura
virtualità, anzi scolo di maniera direi, stipati
in bomboletta cadiamo tutti
insieme senz’ossigeno più, uccelli senza
gola né nubi, fusi già in volo. Neppure
la bellezza molecolare dei gay!



La griglia del dispiacere

Ha girato sui cardini: la mamma nel
ciclone dà i numeri e il
tempo ha le bende. Niente più
sudditi, doni, domani, son finite le gemme
sul serio. Eccoci! Ha sognato come
nessuno, la cenere. Che
tutto fosse lì, ormai da spazzarlo via col
pensiero oppure le mani.
Con gli animali, lei lotta anche in
sogno, tossisce fino al palco
dell’alba di quel granaio.
Ché, se togli libertà a una
persona, questa altrove se la
rifà e diventa più dolce
la marmellata! Ma uno schiavo
di meno conta, nel bilancio dello
spirito. (Lui fu
lasciato solo: non volle quel
dolore, quell’altro, né le sagome
del discorso che chiudono porte,
allacciano scarpe magistralmente.
Neppure
le carte scoperte, non volle l’odore
medico delle bocche; né il facchino di
quelle nuvole o il carico dei materassi. Lo
spazio e l’ozio non ebbero
limiti, e ogni eccesso.) Il resto finiscilo tu.



Destino del giovane Enrico

Sa che deve affrancarsi ed essere
svelto.  Disonorare i
capolavori che l’ hanno fatto. Sarà
anche fioco, perdiana, sarà
opaco in qualche prato senza
estasi. Proteggendo le mani com’un
pianista, suonerà a dovere con le
spalle magari, senza  niente in
vena, posate
le ali sul pezzo di sé rimasto
intero. Lento, se lo fissano, piano, poi
fingendo, poi ruberà giornalmente
se necessario, un  gradino intero; ché
salire appena di meno è tremendo.



.Ricordo, terribile maglio

Non sa pensare a quel ricordo, né
starci dentro; una gran fatica! Cielo
fatto in due di cotone umido. Sarebbe
posarsi sul sacrificio d’un santo, con
gli spini come si dice. Troppo alcol,
miseria e la tossina pesante
dell’aria quando
arrivi davanti alla fine. Ma
non può uscire da lì. Dice
mezzano è il pensiero, però non
c’entra e lo sa, dovrebbe passare il
fumo che la getta indietro! Non ha
niente perché lui l’ha
resa innocua: né amici, speranze, via
segreta. E’ cosciente al
massimo dell’allerta, ma ormai fatta per
il consumo.



Plagio, invasione, imitazione piccina

Ora l’ossessiona  la Cina, che si
mangia paese su paese come
fragole per merenda. Diventeremo 
lei! dice in
stile da scuole medie, piagnistei.
Chiacchiera, poi gira
pagina, e non
vede quel che dovrebbe: che
biada d’ogni Storia è il
plagio. Anche la
terra agli indiani ma anche
prima, pare strano è
così (pensaci, California!).
Anche l’invasione
tranviaria - dietro le spalle uno
ti becca quel che può. Lei
copia la scrittura di lui
staccandola dai rami, col
salto dello stesso
tramvai. Roba da Cina, mica
ruba le mele! La mente, le 
parole, l’ abc, se li mette nel
piatto titillando quei bottoni
del pigiama com’un malato
le flebo.

Qui e qui due interviste interessanti.
sul sito di Lietocolle la biobibliografia.

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