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Alfredo de Palchi

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Alfredo de Palchi (1926) è il poeta, bravo, più rimosso d'Italia. Forse per ragioni politiche, forse geografiche (vive negli Stati Uniti dal 1956), forse perché in Italia la sua voce "implacabile" non è facilmente ascrivibile a una linea poetica novecentesca. E questo disturba l'editoria.


Gradiva Pubblications, nel 2011, ha pubblicato una serie di interventi, curati da Luigi Fontanella, dal titolo Una vita scommessa in poesia. Da questo "Omaggio", riporto quanto serve per farsi un'idea della persona e della sua poetica che, mai come in questo caso, sono intrecciati.

L'arché


Scrive Fontanella: "Quanto poi al suo lavoro di collaboratore e/o corrispondente per alcune riviste italiane, vale la pena almeno ricordare - lo farò più avanti - come nacque la sua collaborazione a La Fiera Lettera­ria, indubbiamente uno dei periodici letterari più importanti del Nostro Novecento. Siamo all'altezza del 1950. Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L'accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto "il biondino", a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest'omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c'era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l'insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. [...] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all'ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Precida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un'esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell'esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni [...]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un'esperienza atroce che l'avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un'esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il '46 e il '47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena".


Sulla  poetica, Fontanella parte da Foemina Tellus trovandola coerente con gli scritti precedenti:
"De Palchi-poeta si pone come denudato di ogni inutile fronzo­lo - quasi a voler sottolineare ciclicamente il suo stato di mor­te/rinascita 'ab ovo' - di fronte al Creato, alla sua Bellezza e al suo Disfacimento. Il quale Creato è destinato a restare incomprensibile, nel suo evolversi, nel suo sfacelo e nel suo continuo rinno­varsi. Ma ecco che resta pur sempre la Parola dello scrivente; paro­la tesa, intransigente, essenziale, implacabile, che fungerà da testi­mone e saprà documentare quella incessante consunzione, quasi volendo - baudelairianamente - indicare una 'salvezza' o una stellare utopia dentro la carne del linguaggio.
Davvero al poeta forse non resta altro che documentare lo sfilacciamento di ciò che gli ruota incurantemente attorno: luoghi, circostanze, momenti fugaci, gesti e volti lampeggianti. Le parole del poeta diventano battiti d'ali che velocemente 'lapidano' faccia­te di palazzi e costruzioni a lui familiari. Questo sembra essere il destino della 'bestia umana'; questa la storia che va spurgando i suoi ultimi rantoli; ma questa, anche, l'eterna identificazione del sesso-ventre femminile rigenerante, che 'ingoia crescite e pianeti' senza interruzione. Al poeta resta il volare con le parole (significativamente 'volo', 'volare' e simili sono stilemi ricorrenti nella sezione Foemina Tellus, quasi a esprimere un desiderio fantastico (leonardesco), quasi bramando, lui, il poeta, d'essere rapito in volo, per ri-identifìcarsi, spoglio di membra e di arti, in altra creatura, purissima, come un lenzuolo al vento. È questo, in ultima analisi, il desiderio centrale del poeta che emerge in questa sezione: Angelo Sterminatore o Messaggero del Marcio Totale da una parte e, al contempo, Angelo Purificatore dall'altra, rimbaudiano aspirante alla Bellezza (simbolo di Eterna Giovinezza) e al candore di un Nuovo Incominciamento, categorie perseguite ostinatamente attraverso la parola espiatrice della quoti­diana peste. Da qui anche quell'afflato "religioso" cui accennavo prima: i versi si offrono nudamente a chi li legge come espressioni sacrifi­cali al Male, quando solo la vera Poesia, spoglia di ogni orpello, come questa di De Palchi, è in grado di fronteggiarlo (il Male) e sconfiggerlo. La tanto reietta Morte, "birichina famelica di novizi", sarà allora anche la livellatrice di tutto e di tutti, quando tutti e tutto non saranno che un mucchio di polvere.
[...] Il destino del poeta-De Palchi si conclude dunque, almeno per ora, con un significativo ritorno alle origini, con un'unica sostanziale differenza, e cioè che oggi, a distanza di oltre sessantenni, egli non esita a nominare luoghi, circostanze e personaggi della sua martoriata adolescenza, ma mantenendo inalterata - ieri come oggi - la sua dignità, il suo coraggio, il suo inossidabile orgoglio di vero quanto controverso Poeta, dantescamente ben tetragono ai colpi di ventura"

Scrive Gabriela Fantato, sempre nell'antologia di Gradiva:
"Alfredo, a mio avviso, si immette direttamente nella linea di una poetica realistica, proprio per l'uso di immagini e di termini concreti, per un continuo riferirsi alla vita vissuta, ma anche per i toni incalzanti, oltre che per i ritmi 'esplosivi' che il testo spesso assume. Tuttavia nei versi si coglie anche una carica spiri­tuale, quasi di una religiosità pagana che si fa a volte 'culto della Grande Madre', direi che è poi devozione al Femminino del Mon­do, come direbbe Alfredo: devozione corpo della Donna e al corpo della Natura. In una visione molto particolare, che però va connessa anche a una forte presenza di figure della religiosità cattolica, so­prattutto penso al Cristo, pascolianamente inteso come 'vittima innocente' dell'iniquità del mondo, collegata a quella della Maddalena, insieme donna carnale e simbolo di un amore unico e sublime... Per coglier la particolarità del poetare di de Palchi, ricordiamo che negli anni Cinquanta, quando il poeta Veneto ha iniziato a scrivere, dominava ancora in Italia un certo Ermetismo, spesso di maniera ed esangue [...] e per questo risulta ancora più originale ed 'eretica' la parola poetica di Alfredo, dove troviamo detta la vita, colta nei suoi aspetti concreti, persino bassi e carnali. [...] Pro­prio questo modo di sentire la parola poetica in modo corposo e mistico insieme rende la poesia di de Palchi prossima a una certa linea di ascendenza dantesca (peraltro più volte il poeta veneto cita nei suoi libri anche brevi versi del maestro fiorentino), con tutta la carica carnale e sperimentale che in essa è compresa. Si coglie anche nei versi di questo poeta un legame con certo acuto filone di poesia comico-realistica, e penso soprattutto al grande Cecco Angiolieri, a cui de Palchi è prossimo per lo spirito irridente e ironico, oltre che per la vis polemica."

Plinio Ferilli: "Il male di vivere di Alfredo de Pal­chi - poeta spontaneo e all'inizio di certo maldestro, istintivamente anti-ermetico - resta orribile maleficio privato, condanna pubblica prima ancora che intima. L'inconscio-ragazzo, in lui, ha sempre un nome proprio, quello suo, egocentrico ed egotista, il battesimo sprezzato e sprezzante del proprio Io"

De Palchi editore

Donatella Bisutti: "La figura di de Palchi, in quanto editore e, se vogliamo usare una parola oggi pur­troppo un po' desueta per mancanza di soggetti che la incarnino, e che a lui invece calza perfettamente, mecenate, è una figura assai ragguardevole, cui dovrebbe andare tutta la nostra riconoscenza. Come si sa, da anni de Palchi infatti amministra con grande genero­sità la Fondazione intitolata al nome della moglie defunta Sonia Raiziss per pubblicare a New York, nelle edizioni Chelsea, o anche sostenere in altre edizioni, prestigiose traduzioni di grandi poeti contemporanei italiani. Oltre a questo, sempre attraverso la Fonda­zione, finanzia anche un premio alla traduzione. La sua intensa attività per far conoscere la nostra poesia negli Stati Uniti supplisce alla scarsa attenzione della nostra amministrazione pubblica che, a differenza di quella della più parte dei Paesi europei, non mi risulta finanzi traduzioni ed edizioni all'estero"

Paolo Valesio: "Alfredo De Palchi è stato un editar, nel senso inglese, della rivista Chelsea, la cui esistenza abbraccia un arco di quasi mezzo secolo (1958-2007), e che ha un suo posto nella storia delle lettere americane e non solo. Poi Alfredo è divenuto editore nel senso italiano, con le già menzionate "Chelsea Publications," benemerite per la diffusione della poesia italiana in traduzione inglese (basti ricordare le pubblicazioni di Giorgio Caproni, Camillo Sbarbaro, Bartolo Cattafi, Carlo Betocchi, Amelia Rosselli). E la sua attività editoriale non si limita alla poesia italiana: è appena uscita per le edizioni Chelsea una scelta di poesie e prose di Philippe Jaccottet. [...] A proposito di strade e di poesie: debbo ad Alfredo l'ispirazio­ne e l'incoraggiamento a fondare una rivista di poesia italiana in contesto internazionale. Si tratta dell'organo che, nato presso l'università di Yale col titolo di Yale Italian Poetry (YIP) si è poi trasferito con me a Columbia sotto il nuovo titolo di Italian Poetry Review (IPR)."


da Alfredo de Palchi, Paradigm, selected and new poems 1947 - 2009

da LA BUIA DANZA DI SCORPIONE
1947–1951


Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

*

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido—ed amo il fiume
inevitabile
in cui l’intrigo del mio tempo
si accomoda
osservo nel fondo rotolare l’isola
verso il nulla
                              l’età muta calore
il vespaio del gorgo
e l’uno vuole il perché dell’altro:
tu sempre uguale, io
dissennato


**

Ad ogni sputo d’arma scatto
mi riparo dietro l’albero e rido
isterico
alla bocca che sbava
un’ossessione di mosche



da SESSIONI CON L’ANALISTA
1948–1966



4

A cenno del Capo
dai fianchi si sfilano cinghie grosse
cuoio del dio assassino
cuoio che cade, mani
accarezzano il cuoio grosso largo, odore
di animale seviziato di uomo odore
di assassino;
a labbra tirate di livore mi vengono
alle spalle il mondo alle spalle
il mondo cade

tremo paura o freddo
febbre di mota, pallore tratto al volto
e arsura in gola
roccia da cui l’acqua dei millenni non sgretola
il sale del mondo
il mondo sale;

parole suoni indistinti
nell’orecchio, lontano brusìo, vicinanza
di insetti e vermi
insetti
e vermi si domandano l’accaduto
domandano la provenienza il nome
— sono Meche, mi avete portato qui —
ridono mascelle d’osso bianco
chiedo acqua acqua
il Capo ride e porge la tazza
— bevi —
è acqua sapone e peli di barba.


9

Campane di mezzogiorno
erba matura piega
un parlottare piega:

i tre Tipi
siedono, ecco pane e mela a foma
di mondo a me

che piego
mangio silenzio il suo verme
alla riva bevo silenzio,
eco di sasso cade e cerchi si allargano
si espandono nell’universo d’acqua
il suo verme divora.

In piedi attendono—andiamo—
— son nato qui, mi ci avete portato
consegnato, era
notte della mia nascita che affievolisce —

laggiù case strade uomini
la deliquenza onorata, volumi di leggi
la città informe, verme che si divora.



**
(New York)

1

Mezzogiorno

lacerandomi i visceri per ricordi improvvisi
la sirena brutale mi sobbalza dal sopore
sulle carte burocratiche, sosta
uffici fabbriche
costruzioni accerchiate d’assiti:
nelle fondamenta martelli pneumatici
scavatrici chiudono il motore
e ingegneri muratori carpentieri in elmetto
impiegate segretarie agenti della borsa
sodomiti della pubblicità aprono il cartoccio
di panini o si arressano nei ristoranti

quest’ora è fretta —
eleganti scorie s’ammucchiano alle vetrine
di manichini antisettici             ognuno
studia come colpire, ingannare
(il vaccino migliore è lo scambio)
fiuta il passeggio senza fiore o colore
che allegri la vista
si fa largo a colpi di gomito
prende l’incerto per il colletto della camicia
e, affari combinati,
offre la sigaretta
un bicchiere
il pranzo —



2


sul pietrificato fra macchine autocarri
autobus (sudaticcio afrore
di crematorio) fumo di benzina
nera polvere granulosa
osservo
la elettro-
esecuzione
dei colombi che piovono dalle finestre
e cornici
sputi catarrosi
escrementi di cani
allineati alle gambe lustre delle signore
l’avvampo del catrame
uccelli avidi di verde rasentare
la desolazione piatta delle muraglie di vetro
tralicci impalcature
barboni con bottiglia all’ascella
stravaccati su carta di giornale
intossicati lesbiche ninfomani
ragazzi col rossetto baciarsi
nel parco della biblioteca
voluminose mulatte
l’imminente fornicare negli alberghi
l’appetito delle Nazioni Unite:

tutto è splendore che godo
— ma al bar
strepito la mia ostilità: doppio whisky,
prego —



New York 1961


1

. . . qui / esilio
migliore di quello vissuto al paese
con la sua crudeltà indecente
quotidiana, le prigioni e le mie impossibili
fughe /

è a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione

mi dicono, perché ricordi
— quello è tuo padre —

bene, non dimentico / però chi può dire
se non io, dell’ingiuria:
l’inquisitivo tono
ronzando all’orecchio mi svergogna
per ragioni diverse, ma non ho pena.
Da anni
aumentato di conoscenza con tanto sangue
riesco a considerare nella misura indifferentemente
cristiana quelle voci remote.
Che ne riparlino
mi ridicano
non importa, non mi toccano: le riconosco
nel disprezzo, nelle azioni —


**

a 12 anni
meschino nella tuta lurida di grassi
per motori a nafta
consegno 5 lire
(la settimana—domenica compresa)
nella busta troppo larga al nonno anarchico
mangiato dal cancro. Non sai che
dopo una sovente cena di aringa
mani tagliuzzate, nere di ruggine acidi unti
imparo il disegno industriale
il violino e l’altrui invidia per la borsa di studio;
non sai delle mie colluttazioni con i compagni
per l’esistenza animale—del gobbo Toni,
dal ponte, che mi getta nell’Adige
il cane a zampe legate
uno straccio nella bocca —


**

vivo quest’altri malefici: religione
scuola testi falsi
adunate nelle piazze
leggi ammirate col silenzio la fuga dei mitomani
della resistenza
(ultima ora)
che calati dalla Svizzera si avventano ora
irragionevolmente
su me adolescente forzato all’arma —


**

esempio: ragazzo timido, chiuso
colmo di vergogne concrete
— si tratta del paese —
considera le provocazioni morbose;
non chiederle a me, direi una reale
storia ma diversa
— e del coniglio —
sotto la tettoia di zinco
ondulata nel cortile:

lo tolsi dalla gabbia per le zampe
posteriori, il taglio
della mano (debole) colpì;
il suo lamento di bambino chiuso
— ancora mi è vivo —
evitò la mia fine indecisa;
e mollandolo a terra scappai
sugli argini dell’Adige
(di marzo ogni anno tra i ghiacci
del fiume St. Lawrence a migliaia le foche
sono suggellate a colpi di remo e il belare
delle spellate vive . . . )
per tre giorni, iniquo
con il coniglio (il suo lamento di bambino chiuso)
negli occhi, sotto la pelle
— è ancora vivo il lamento —
e ancora, non pace
      “perché”

              non so, o forse so
il perdono del lamento di bambino chiuso


**

—anni dopo il coniglio (dicembre 1944)
la notte è lucida; nel salone della mensa
si balla al giradischi
— il fornaio all’uscio, sulla piazza,
fuma la caporale—
le ragazze ci sono: Adele Clara Lucia: tutte —

nel chiuso dietro una porta picchiano oppure
usano una dinamo a manovella: le grida
d’un malmenato sconnettono la canzone
ma che tristezza in cor
mi sento stasera
e la Clara, grassa, “perché”
notte senza luna notte
senz’amore

sì, senza amore —
esce, corda al collo, il picchiato:
la faccia maciullata:
inosservato passa in mezzo al ballo
e poi dalla piazza
— a pochi passi dal fornaio —
al raschiare del giradischi
più non penso a te
si ode lo sparo
— capisci, non c’è “perché” —

ghigno che ride il capitano Carella della ferroviaria
dice divertito al comandante
— è caduto, si è fatto male —
una macchia stesa


**

— non capisci? —
mi rivelo in modo indiscutibile

sono fatto e mai riuscirò a cambiare
— l’intelligenza è corruzione della natura —
oppure capisci ma lasci a me il lavoro
di ricuperarmi, organizzare la mia confusione
mentale e psicologica

tutto si trasforma: io stesso:
circonciso: una libertà
una pulizia, un’apertura di pelle che sfoga
un filo di sangue—un testo febbrile
per un circolo di . . .

la sociologia del cuore
la grafica multeplice dei circoli
familiari enfatici con tanto
di mamma nel mezzo
—nessuna nostalgia mi rattiene
spingo la vita oltre dove
non mi occorrono radici per sapermi
sentirmi esistere:
una valigia di libri
un pacco di carta
macchina per scrivere e una donna
mi conchiudono

il resto non importa, basta
che la mia sofferenza sia pari a quella
dell’animale sul tavolo delle ricerche —


(la prossima settimana le poesie delle raccolte successive)

Qui il suo sito web. 
Ricordo anche il numero monografico su de Palchi uscito nel 2000 nei Quaderni di Hebenon, curato da Roberto Bertoldo.


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