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Alfredo de Palchi (altre poesie da "Paradigm")

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da COSTELLAZIONE ANONIMA
1953–1973


4

e più oltre,
vedo me, uomo

la sua agonia di animale
di sentore mortale
di mente s-centrata

che in una stretta si uncina e sulla sabbia
fiotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla voragine
desolata della terra promessa.

Milano 1961



**

Ritenendo che una vita vale un’altra
nel mio laboratorio combino alchimie contro
leggi della scienza e natura:
asserita visione delle inssolente legge
del vano aguzzino vistoso
soggiogato alla propria alienazione;
se mi lascio fare e parlare
riesco a pormi al muro
e annullarmi / bianco delitto
prendimi a calci, buttami nel fondo
della vampa e staziona il presente
incolume alle origini.

*

Sono
— questo il punto / idea connettivo —
l’unto dell’acqua l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale, l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile alimento
e grossezza — coriaceo predatore, secco
rogo di pinne dorsali e pettorali
su peduncoli o trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non estinto.


**


L’insettivoro incendio allo zero
compila un miasma—afrore di cadute
nel pugno visibile mette insetti
—io
l’incendio che brulica la specie
spermatozoi
come la mantide predatrice
che progenita divorando.

*

Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno
su me un cadere continuo di polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie dalle pareti
che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa
polvere che rassodata nello spazio gira su sé stessa
e intorno il sistema termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me stesso:
costellazione anonima.



da LE VIZIOSE AVVERSIONI
1951–1996


Preliminare:

Carica arrivi di felina
antichità e ti accosci nel sofà;
anche a me apri
la dimora in cui già qualcuno
vi sbatté dentro un figlio
a me simile.

Parigi 1952


**

6

e come nella Bibbia impalmo
nella sinistra
la mammella sinistra,
nella destra la carezzevole concisione;
nella bocca inghiotto la mammella destra
e tu dici che lo sperma ti nutre,
esatto.
“come carne e uova”—


12

voglio inserirti nel sistema circolare
della mia origine arborizzata ma ancora
auspicante d’intemperanze,
come io esigo includermi nel tuo
usurpando nel triangolo il sole che a ruota
gira illuminando—


**

Il vento sibila tra lo steccato e sbatte
il bucato appeso sul cortile, i vetri sporchi.
Non so cosa fare; chiudo gli occhi e fumo;
vorrei telefonare alla ragazza; voglio
mettere il capo dentro il vaso di terracotta e urlare
il fallimento della mia divisione di uomo o denudarmi
sulla scala del fuoco e lasciare che il vento
a bocca di lupo geli
questo corpo martirizzato—
ogni oggetto animato o inanimato è donna,
la fogna luminosa dove sta in agguato il mio sesso
di topo ossessionato.


**

Non è il bruco che per corte altitudini buca
il bozzolo che m’importa—è la seta
che le fascia i fianchi
il reggiseno sganciato: rogo di seta
crepitante nel colmo della camera
il giradischi urla sul letto, il tavolo
(col mio resoconto)
sbarra la porta
e secco nudo
sul linoleum non so decidermi . . .

*

Seguo quelle che
entrano nelle auto:
queste ambulanti
gettano una lenza che di preciso acchiappa
lungo i marciapiedi, o di profilo sostano
accese dalle vetrine.
L’insistenza dello sguardo sapiente di soldi
un ondare di natiche
il bisbiglio che non intendo sono
l’invito. Non ne usufruisco; ho moglie
e altro, mi dico—ma ecco
ce ne è sempre una che mi mette in panico.



da PARADIGMA
1950–2000


L’assenza

Dall’oltresuolo
viene mio nonno, il grande assente
che mi fu padre e visse anarchico
numerosi anni tra la iuta
colma di cereali per un’oncia alla settimana
di olio e riso—dolorosamente giganti
i diti contorti all’insù sbucano dalle scarpe
con ciuffi di bambagia per conservarli nel male;
incarnato nel cancro
si scheggia le nocche per abbattere al muro
la bieca lingua che gli raschia la cornea

(il cranio lucido ghigna
alla cancerosa che ancora lecca l’assito
spruzzato di canfora
. . . l’afrore mi pizzica le narici)

Tramite la mente patita e l’orto
lasciato alle gramigne del mio essere
ritorna a casa—questa
è dovunque un ridotto di mutati oggetti
senza fiato, e di quest’uomo forte
sento le ascelle acute di tabacco stringermi
nella mai riscattata sicurezza.

1954


**

1

La finestra incornicia la torre
carnivora di poiane—
dietro la casa cresce l’orzo e la faina
in cucina con la collana d’aglio, il ciuffo di spighe
e il lunario, questa sonda d’imprecisi giorni
della giovinezza.
Un compagno mi striscia di verde la blusa
mi schiaffa nel letame, concime per il pensiero fertile;
guardo con interrogazione i compagni e gli anziani
sorpresi e vili.
La lesciva non cancella il verde d’erba,
la sentina guasta la mente che si abbuia, e mi sigilla
fossile.


**

Sul fiume Delaware il temporale
rotola dalle crepature, capovolge
melma dalle colline
violenta le mezze-vive
piante che arsicciano di carne
e gli scoscesi razzolati dal tedioso bollire
della pioggia; il canale
intenso di fiamma precipita il castoro
zampa nella trappola
allo stagno d’alluvione sotto
il bosco di muschi
e nidi allagati; poi uno strisciare
nelle frasche e la faccia cupa al vetro . . .

questo, l’avvento del già autunno che sfolla
la mente ormai usa alla violenza
degli atti—non parola
o mano che ascolti il polso di chi si spegne
ora—e delle scaltre azioni
che gigante mi assurgono agli occhi
di chi, come il castoro
che non sa e non può presentire alla diga,
soggiace alla bufera che brama potenza,
non amore ragione o senso,

così l’insistenza dell’acqua
con involuto fine svuota il bosco.

1961


Fungo amletico

1

Addomesticarti
imperfetto discendente dell’atroce
sbaglio che ci persegue

2

è un bulbo
il cuore non ancora
artificiale—un giorno, così fuori luogo,
unicamente migliorerà

3

niente nessuno riesce a calcolare la mente
disturbata
da ciò che il sangue vi filtra dentro

4

la lumaca quanto la testuggine
è lento orgasmo

5

la dimora contenente la nascita
è la stessa—ottusa fissa
intrisa di ripetizioni
in cui da sempre si vive

20

tutto si decompone
— fungo
amletico
uomo spostato: ogni azione
risulta in fallimento

21

il mare accoglie le ossa
ma il neutro me stesso
sciama in cubicoli
di sonno grave

32

per la tua negligenza d’un tratto
termina la mia storia—
perché mai una fine così ebete.

1960–1970


**

Cara Sonia Raiziss,
sabato 19 marzo 1994, nella melma
di pozze, di sedimenti e di arbitrii
il miasma ammorba la serata quanto la colma
quietamente macera, quanto il turbare dell’io
schianta la faccia e stempera la memoria.
Il marchio che certifichi mentre dormi nei sogni
della giovinezza è il marasma
in te moribonda che cedi alle radici masticate,
morte—mort—muerte—death:
exactly a year ago in the morning you left life
while I was rushing to bring it back precisely
as you were turning it away
sbavando libidine a un bivacco acceso di rose.
Sai, il mese della neve si chiude
appena il gelo consolida la ghiacciata
per i territori dove mi sollievo
da un luogo all’altro, cercando qualcosa
usurpando persino il mio posto, perché è così
che il gelo del tuo sabato si abbina alla fanghiglia
perché è così che si ghiaccia ogni cosa.
Ormai indosso la fatica come un abito—
è la pratica dei giorni svegli
con te defunta alerta minacciante
se dopo dodici ore al giorno dall’alba al tramonto
sono stanco, sventagliato dagli alberi e allucinato
di afflizioni senza rimorsi,
dopo la colpa e dopo la sera
quando sono il corpo che sprofonda
per risalire con il mattino.

19 marzo 1995, un anno dopo


**


Salgo all’intaglio dell’altura che scende
e sale a scalinate verso il marmo circolare del sepolcro
circolante di venti mortuari, e da qui balzo da un salto
all’altro seguendo ramaglie, ciottoli, piedi di donne
scarpe avvilite tra ciuffi d’erba
e piante lacustri di sottobosco attorno la collina
con la prora spaccata del monumento al mare—
è così che inciampando nello sterco d’uno zotico
proseguo arrogante, fingendo il nulla
per non menomarmi come superstite
della perfidia delle tribù infime.

Vittoriale degli italiani, 1996


**

a Luigi Fontanella

Nota — la mente stermina
nell’atmosfera desertica dell’asfalto
con il vapore, il bollore in sospensione
all’altezza della fronte; vedi—l’acqua persevera
e penetra da uno strato
all’altro nel penetrale del sottosuolo
così compatto e così capace di purificarla goccia
per goccia lentissima a salire alla fonte
di pietra; dovrei riflettere il perché.

Come definirti ora
che defluisci con le onde della sera innestata
ancora alla vampa del sole che adagio
si abbassa sulle piante stese tra le case
e le rocce,
come esclamare aspramente la vergogna
intanata come l’embrione del male
perenne nelle corsie del sangue;

ti hanno declamata “dolce”
io ti chiamo “sublime,” il chiasso della terra
il mostro del vivere in mezzo
al verde brutale, acido
il silenzio nel silenzio del silenzio.

1997


**

Fedeli alla stessa privazione
con la testa che smemora tra la folla
si attende l’imprevisto;
la centralità dello sguardo si narcotizza
nello spacco magnetico della tua figura
la sola imprevedibile solidità
d’un mondo ignoto—seguimi
per dedicarti alle stagioni
che oltrepassano senza modificarti
ed insieme ritroveremo la ruota dei sensi,
dimenticati, perché già previsti.

15 febbraio 2000


**

Ascolta—
questo uccello antico ancora sboccia di piume
e con mutezza nella gola efficace ti arrossa
le guance su quel terreno d’erba
rasa al sole che ci bolle le ossa quasi liquefatte
addosso lo sfondo drammatico di biacca calcarea
frastagliato a guizzi
nel rettangolo d’acqua acidula di vespe;

so come aprirti il sangue a sgocciolare purissimo
dal mensile ferimento alla mia bocca,
come violarti
propizia al mistero di voler essere violata
e come esaltarti per l’uccello che t’impazza nel profondo,
so quanto vuoi l’urto
il bruciare che ti stravolge le viscere e nella mente;

che io capisca la perfetta lineare denudazione,
che io con fervore ami
la serenità e le offerte dell’adolescenza prolungata
senza inquinarti l’acqua salina
la saliva
la densità del fiotto albugineo che ustiona
e il sangue che splende oscuramente e profuma
del fiore compatto dalle cosce a perpendicolo.

8 giugno 2000



da ULTIME
(2000–2005)


**

a Giovanni Raboni

In rue de l’Arbre Sec ti osservo
a seccare il becco di merlo felice
slavato dall’acquata recente
a rantolare “frères humains” dallo splendore
della gola che ti prosciuga e che soltanto io ascolto
strozzarsi di paura testarda

ti cercavo nei secoli di vicoli viscidi
della tua città che derubi a coltellate
e t’incontro finalmente sulla forca d’antan
in questa via, al Caveau François Villon,
che ospita il tuo gradito compagno di sventure
alfredo de palchi.

Parigi, 29 giugno 2003


**

Spinto al calvario che si compie
nella signoria medievale del palazzo
su per le scale
tu nel resoconto di donna intuisci
che in me rivisito
il cielo torrenziale che sbianca di schiuma
il macero dell’infossato vivo
da “resistenti” ignobili nella fossa,
melma che a mano e vanga scavo
per esumarlo dalla coscienza di vomiti
e quel giugno 1945
incenerirmi in questa assise di musi storti
che a centinaia salgono sanguinari le scale –
è possibile
che questi figuri di ingiurie
indemoniati dal mio “sarcasmo, risolino insolente
e sguardo bieco” quando mi si vuole fucilare
si impersonino dei loro clichés perfidi dentro l’animo
mio di “rozzo” ragazzo travolgente.

Verona, 13 dicembre 2003


da FOEMINA TELLUS
2005–2009



**

Younger than springtime, am I?
a ottanta
la mia giovinezza che ha il florido
colore del cadavere ripristinato
a te che sei eterna
grida la gioia
non l’orgoglio di trascinarsi
alla caverna che abbaglia
per il bagliore della tua presenza
maligna malevola malefica.

11 dicembre 2006


**

per il mio compleanno di errori
Martedì 10 dicembre 1926
l’anagrafe è un deposito di ceneri
dove venerdì 13
per la seconda volta
io, carta da bollo o da gioco,
urlo al mondo la truffa
fino alla fine della finalità
là che aspetta di segregarmi
al reticolato di denti sgretolati.

13 dicembre 2006


**

Ti ricevo a schiaffi
per stanarti i denti marci dalle mandibole
a calci sugli stinchi per crollarti
in mucchio di ossi
nel tritume che si apre in una voragine

domini la rissa
alla concezione che benedice
in nulla d’ogni gesù
e che abbaia quello d’ogni cane
condannati alla brutalità
non prima di beffeggiarti
sputarti nelle occhiaie il veleno
e per sempre rinnegarti per sempre.

24 dicembre 2006

**

l’obeso pezzente in cui ti spacci
con tavolino a drappo rosso
sul marciapiede di casa mia
stridente scocci i passanti:
“un centesimo,
nessuno dev’essere affamato”
ed io che stravolto so cosa intendi
ti reputo un volgare
becchino
che sfido di correre
senza fissa dimora per deperire
come deperiscono i passanti
che pagano un obolo di dogana
per calarsi nella tua chiavica.

7 luglio 2008

**

a Roberto Bertoldo, alla sua onestà

Di sabato notte
scendi dall’ultimo piano
e controlli chi esce e chi rientra
sostando al piano appena sospetti
che un inquilino aspetta
la tua presenza

sdentato, biascica litanie
al crocifisso alla cabala alla mezzaluna
all’ultimo istante chiede perdono
per aver tradito tutti
e incassato ricchezze rovinando famiglie
e aziende in crisi

così alla domenica
il palazzo dorme di inquilini
reduci da Wall Street,
a mezzo giorno scendono in mutande
e salgono con il giornale per leggervi
gli annunci funerari e varie notizie
mai a corto di brutture

la sola giustizia che ho io
sei tu che lo spacci senza perdono
e senza aspettare una risposta—
te la dò io che nulla mi appartiene:
entra nei palazzi e
liberaci dal male.

20 luglio 2008

Le déluge

Nota dell’autore

**

La voce di questa breve silloge, dà concretezza all’aldilà (se
l’aldilà, con il suo inferno, esiste) e senza timori prorompe in
accuse definitive verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli
uomini grondanti malvagità, e le vicende grandi e piccole che
hanno fatto la mia storia.
Dopo oltre sessant’anni di angherie e di ingiustizie politico-legali
e politico-letterarie, il rigurgito mi è venuto spontaneo: un testo
al giorno, dodici testi del mio lascito. Senza rancore, senza
cattiveria, ma con una continua sete di giustizia.

**

Aggiusto la mira delle sassate alle finestre
alle teste disorientate dei carrettieri
e dei preti con il potere
della crudeltà
raccapriccio dell’esistenza
nei pagliai e nei tuguri,

la tua benedizione dal portale di cotto
Giuseppe Girelli prete Bepo zoticone
così tanto insozzi
che ti spaccio alla tua personale inquisizione
usando insulti da pulpito
corde al collo e chiavistelli ai testicoli
e sfoderarti la pancia all’ultimo urlo
che voglio udire
in questa immensità di silenzio
con la mira della sassata

eccoti a bocca spaccata tra gli ossami
a sentenziare le donne che mai
riposi di predicare veleno cristiano—
che il tizzo del tuo involucro di fanghiglia
sperperi urli atroci
per la mia sassata che fa giustizia
precipita nel baratro
che il cranio scoppi laggiú sulla pietra
del Bussé il canale
per sempre il tuo inferno.

23 giugno 2009

 **
Tu sei Sandrini Giovanni l’immondo Nanni —

usi il convincente potere sulla donna per fotterla
fisicamente e moralmente senza dannarti o danneggiarti
anzi la plebe mala carne da stritolare ti considera fortunato
e ti sostiene con ammirazione

soltanto lei colpevole la colpita e con questa sicurezza
morale sparisci mentre lei attende la nascita di tuo figlio
che per tutta la vita ti assomiglia

neghi la paternità ma rifiuti la prova del sangue

la negligenza documentata ti punisce nell’inferno terrestre:
beni immobiliari e fondi bancari di uomo e padre naturale
periscono nel buco nero della bancarotta purtroppo non
per mia intenzione

la certezza è che non mi manchi nemmeno in quest’altra
dimensione

e da qui mi concedo di infliggerti la giustizia delle donne
desiderate: di girare intorno alla mia eternità morsicandoti
continuamente il cazzo.

24 giugno 2009



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