In Casa di vetro. Poema in tre quadri (La Vita Felice, 2012), Corrado Bagnoli mette sullo sfondo l'Italia del boom economico e una Milano fredda eppure epifanica, dove s'impara un mestiere. Sceglie la via del racconto in versi e fa benissimo perché ciò gli permette di far circuitare il passo lirico con quello narrativo, l'immagine memorabile con le strutture discorsive, necessarie a organizzare, in primo piano, le sequenze di una vita che potrebbe diventare un modello antropologico, dove la virtù si combina con il talento; ma non si tratta di una favola edificante perché il protagonista dai capelli rossi, figlio di povera gente, esiste davvero. E' il pittore Pierantonio Verga, nella cui biografia Bagnoli ha letto la propria vita, la propria scrittura.
Casa di vetroè un libro sull'amicizia (tra il poeta e il pittore) e sulla solidarietà: c'è don Orione, "un prete piccolo, dentro / una tonaca nera più grande di lui", che ha fondato il Cottolengo a Milano; e c'è un architetto, che racconta a sua moglie di viaggi di lavoro interminabili, mentre invece va a intrattenere i degenti del Cottolengo, suonando sino a nove strumenti.
Casa di vetroè anche un libro sull'arte, sulla differenza tra essere pittori ed essere artisti. Il maestro è Lucio Fontana, personaggio anche lui, qui, che spiega a Pierantonio: "Il pittore è uno che fa il quadro, prende / i colori, i pennelli e fa il quadro. L'artista / invece li adopera, li fa diventare una lingua. / Bisogna smetterla di parlare di materia: / o c'è una lingua, o si scrive e riscrive il mondo, / oppure non c'è niente. La noia del quadro". E Casa di vetroè anche un libro sul guardare, sul guardare il mondo, anzitutto. Arte e poesia sono uno sguardo particolare sul mondo, ci dice Bagnoli: "Tutti i pittori cercano di aggiungere / qualcosa, di arrivare, attaccando qualcosa / a fare il quadro; l'artista mette subito quello / che viene dopo", ossia il mondo con le sue voci. "La città era un buco caldo" con le sue parole dentro e fuori dai bar, dalle gallerie, "un polmone, un respiro / fatto di fiati che s'incrociavano". E' lì che il poeta deve guardare per trovare la lingua. Una lingua plurale come plurale è la dimensione del vivere, che tuttavia converge nell'unica direzione possibile: il bisogno di accoglienza. Dice bene Davide Rondoni nella prefazione: la parola chiave di questo libro è "accogliere" proprio perché sempre, e qui in modo esplicito, la scrittura tesse un nido dove il mondo trova "ricovero e messa a fuoco, e dunque altra vita".
Pierantonio da giovane si muove in una Milano non troppo differente, nel tempo e nello spazio, da quella in cui agisce Carla Dondi, la ragazza di Pagliarani; ma differenti sono i loro caratteri: la seconda è rassegnata, il primo combatte invece per far vincere la bellezza che è in lui. In questo modo, per via esemplare, Bagnoli apre alla possibilità di vivere una pienezza esistenziale anche nel tardo capitalismo, conservando l'autenticità, per quanto minacciata; Pagliarani invece, negli anni cinquanta, portavoce dell'impegno neoavanguaristico, prelude a un futuro dove non c'è scampo per i vinti, se non omologandosi ai ritmi crudeli della città industriale. Difficile dire chi abbia ragione, se l'ottimismo di Bagnoli o il pessimismo di Pagliarani. Di fatto, ragazze come Carla Dondi se ne incontrano ancora in giro, ma molto più disilluse o integrate; e magari, uomini come Pierantonio ragazze come Carla le sposano. E infatti, nel Quadro due, Laila le assomiglia, lei che "è un soffio bianco di diciannove anni dentro / un vestito a fiori, dietro due occhi che hanno visto / solo libri e mare, dietro un naso dritto che taglia / il caldo del negozio e della pianura" e che, da Rimini, andrà con lui a Milano e ci vivrà insieme tutta una vita.
Vicino a Casa di vetro, per l'afflato corale e creaturale, metterei La forma della vita di Cesare Viviani: in entrambi i libri si costruisce un affresco della vita lombarda, letta attraverso esistenze ordinarie, ma tenaci nel confermare che la vita va vissuta, qualsiasi destino essa ci riservi. Dalla vita, direbbe Bagnoli, c'è da tiragli fuori il pane e il vino. In ciascun essere, ci insegnano i due poeti, c'è un nucleo che rimane intatto, che nessuna struttura economica riesce a conformare, un nucleo naturale, astorico, frutto di una stratificazione ancestrale, che ci fa simili all'uomo della pietra e artisti, tutti, nella misura in cui riusciamo a trasformare lo sguardo in voce. Per questo, come scrive Bagnoli, l'altra parola chiave è "offrire", dare al mondo le parole e la carne per comprendersi e ripartire.
Accogliere e offrire sono due verbi cristiani (in Casa di vetro, Dio è presente come padre carezzevole); Bagnoli ribadisce le proprie radici piantate nella croce, ma in una complessità dove, appunto, Dio non è presenza scontata, bensì – come egli riferisce nel saggio Il tempo, il linguaggio, il divino (in AA.VV., La poesia e la carne, La Vita Felice, 2009) – rivelazione carica di mistero, che tiene l'uomo nella sua dimensione interrogante, essenzialmente interrogante. Per quest'ultima ragione, di radice heideggeriana (scrivere è rispondere al Dire originario) e jabesiana (si pensi a Il libro delle interrogazioni), sono convinto che accoglieree offrire siano due verbi imprescindibili per chiunque voglia praticare la poesia nella profonda semplicità del proprio esser-caduco. Questo è il compito dei poeti, oggi, i quali, meglio di chiunque altro, sanno tramandare l'esperienza più intima dell'uomo: l'incontro sorgivo e destabilizzante con il mondo a partire dalla propria, irripetibile, finitezza.
dal Quadro uno
La bicicletta gialla gliela aveva regalata
suo padre, ci andava a scuola e nel campo
a giocare. Gli altri avevano in mente Rivera,
si tiravano giù i calzettoni e si lasciavano
andare a qualche dribbling di troppo; lui,
che non aveva nemmeno il fisico giusto,
si portava dei guanti e tirava col piede
una riga tra i due pali di legno, una specie
di tic che aveva imparato da quelli più grandi,
una magia per dire che non si passava,
forse qualcosa di più, una solitudine segnata
in terra, dentro il groviglio di gambe
che avevano solo l'idea di tirare la palla
oltre quella linea che lui custodiva,
una specie di confine del mondo, muro
che si alzava di mani e di scatti, di ginocchia
spellate la sera che sua madre, già piegata
della secca parola che l'asciugava dentro,
si piegava a lavare via, a guardare come
si guarda un sacrilegio: «Come, te che c'hai
le gambe buone te le massacri apposta?».
Poi gli chiedeva se aveva vinto, se almeno
quel sangue lì era servito a qualcosa,
se aveva portato la bicicletta nel portico,
se doveva fare ancora quel compito, che la scuola
non era mica meno del pallone. E di andare
a salutare suo padre, gli diceva, che stava
sui conti dei ricchi, che li faceva tornare.
Quella sera lì, però, lei non si era piegata
davanti alle sue gambe, che lui quasi, adesso,
ne provava anche vergogna, che era grande
e non era il caso che lei continuasse così.
Quella sera lì suo padre non c'era. Dov'era?
Lei sembrava ancora più piccola, la voce
non le usciva neanche. Lo prese lì, tenendo
le mani di polvere e sangue nelle sue, secche,
dure e ancora più nodose di sempre.
Non voleva, aveva pensato tutto il giorno
a come non tirargli quel tiro maligno
tra i pali, a come non lasciarsi andare
davanti al suo bambino che aveva ancora
bisogno di tutto, a come non buttargli
addosso una croce che era già troppo
pesante per lei. Ma gli occhi non obbedivano
mica, viaggiavano tra le parole allagati:
«L'ospedale, chissà se ritorna». Lui
rimase lì, tra quelle mani che si scioglievano
per la prima volta, sopra quel dolore
che la faceva ancora più piccola. Non aveva
vergogna, piangeva; non sapeva nemmeno
cosa avesse suo padre, piangeva con lei,
gli sembrava che questo bastasse.
dal Quadro due
Il primo giorno, quel primo giorno e poi tutti
i primi giorni della settimana, doveva passare
al colorificio Nord, in Carducci o Magenta,
a ritirare le tele e l’idropittura che il maestro
aveva scelto. Poi, con gli altri tre o quattro
che stavano in bottega con lui, preparava
il fondo dei quadri. Non provava la stessa cosa
quando, alla scuola dove il maestro lo aveva
mandato, prendeva in mano i suoi fogli.
Aveva caldo, e questo era bello, e le ragazze
anche erano belle. Ma lì, davanti a una tela
rossa o bianca di idropittura, sapeva che di lì
a poco qualcosa sarebbe accaduto. Accadere
era il verbo esatto per dire l’opera e l’istante
in cui il mondo intero ci finiva dentro,
dentro il taglio netto di Fontana e della sua
lama. Impeccabile sempre, controllava e finiva
la stesura del fondo. Guardava da lontano
la tela, come se ci vedesse già dentro la ferita
che le stava inchiodando. Si avvicinava
lentamente e poi lasciava partire il braccio
e la mano. E il mondo intero si squarciava,
come una gola, una terra che doveva dare
ancora risposte. Soltanto chi non era lì
poteva pensare che quell’uomo elegante
voleva andare oltre la pittura. Non lui,
non Pierantonio che quell’istante capiva
come un tempo e uno spazio convocati
insieme in un atto che era come una nascita,
un procreare, un diventare la terra come
un germoglio, una speranza. Un giorno
Fontana gli disse che era contento del verde
che aveva steso, che era già un prato,
un accogliere, una custodia segreta. E quando
ci sprofondò dentro la lama, disse che
il campo era suo, che lo poteva tenere.
Pierantonio lo guardò, come a chiedere se
era vero davvero. Sì. Ma non ebbe il coraggio
di portarselo via. E quando il maestro
si tolse il grembiule, per chissà quale mostra
lanciato tra le strade di Brera, Pierantonio
nascose il prato ferito sotto il mucchio
dei quadri. Scappò via, ancora quel tremore
lo prese, sempre, forse portò a casa qualcosa
di più, un regalo che nessuno gli poteva
portare via dalle mani, dalla testa, dal cuore.
i primi giorni della settimana, doveva passare
al colorificio Nord, in Carducci o Magenta,
a ritirare le tele e l’idropittura che il maestro
aveva scelto. Poi, con gli altri tre o quattro
che stavano in bottega con lui, preparava
il fondo dei quadri. Non provava la stessa cosa
quando, alla scuola dove il maestro lo aveva
mandato, prendeva in mano i suoi fogli.
Aveva caldo, e questo era bello, e le ragazze
anche erano belle. Ma lì, davanti a una tela
rossa o bianca di idropittura, sapeva che di lì
a poco qualcosa sarebbe accaduto. Accadere
era il verbo esatto per dire l’opera e l’istante
in cui il mondo intero ci finiva dentro,
dentro il taglio netto di Fontana e della sua
lama. Impeccabile sempre, controllava e finiva
la stesura del fondo. Guardava da lontano
la tela, come se ci vedesse già dentro la ferita
che le stava inchiodando. Si avvicinava
lentamente e poi lasciava partire il braccio
e la mano. E il mondo intero si squarciava,
come una gola, una terra che doveva dare
ancora risposte. Soltanto chi non era lì
poteva pensare che quell’uomo elegante
voleva andare oltre la pittura. Non lui,
non Pierantonio che quell’istante capiva
come un tempo e uno spazio convocati
insieme in un atto che era come una nascita,
un procreare, un diventare la terra come
un germoglio, una speranza. Un giorno
Fontana gli disse che era contento del verde
che aveva steso, che era già un prato,
un accogliere, una custodia segreta. E quando
ci sprofondò dentro la lama, disse che
il campo era suo, che lo poteva tenere.
Pierantonio lo guardò, come a chiedere se
era vero davvero. Sì. Ma non ebbe il coraggio
di portarselo via. E quando il maestro
si tolse il grembiule, per chissà quale mostra
lanciato tra le strade di Brera, Pierantonio
nascose il prato ferito sotto il mucchio
dei quadri. Scappò via, ancora quel tremore
lo prese, sempre, forse portò a casa qualcosa
di più, un regalo che nessuno gli poteva
portare via dalle mani, dalla testa, dal cuore.
dal Quadro tre
Così,ogni tanto, da qui, passa via un angelo.
Tra i campi di bianco e di nero, carte
sovrapposte tra loro o tenute insieme
da una frattura leggera, slabbrata, dentro
fogli monocromi, non ci sono più gli strappi,
le fenditure, le scorticature che segnavano
prima i suoi quadri. Arrivano invece
segni a matita che tagliano l'aria di luce;
o il silenzio del nero dopo averla bevuta
la luce della pagina bianca. Incanto,
accadimento, titoli che dicono dell'angelo
nascosto: sono segni di silenzio, fatti di cielo;
non l'angelo o la sua ala, invece il suo battito
che attraversa lo spazio del quadro; la scia
del suo passaggio o, anche, soltanto,
la sua premonizione. Ci sono tutti i quadri
di prima, qua dentro, sempre. Ma lo spazio
fatto di niente, di bianco e di nero, adesso
è abitato, quasi invaso, da questo poco
di segno, presenza discreta, sussurro,
aria che si sposta. Non è ancora una cosa,
o non lo è già più: dice soltanto una scia,
seguendo la quale si arriverà in un posto
dove qualcosa si farà incontrare. Epifania
di ciò verso cui la nostalgia ci spinge,
la luce non basta: è lasciare, insieme al buio,
che quello che accade accada davanti a noi,
preceduto dal vento del segno tracciato a matita.
Orizzonte dentro cui il dato, la cosa si fanno
strada: quelle forme che ancora non sono forme
è tutto quello che viene. Ci prende la tenerezza
di chi è portato a una casa che ancora non si vede,
ma di cui siamo certi per quel bisbiglio.
E' nel cielo e al tempo stesso nel mondo,
nell'aperta presenza di Dio, ma anche nella vita
reale dell'uomo che diventa preziosa, non semplice
o in pace: l'angelo non è pura luce, si manifesta
nella forma dell'uomo, nella carne, la sua ala
si scioglie nei giorni. La sua ala non è diversa
dal legno della pianta del primo quadro, è il braccio,
la croce che ci prende e che ci porta via.
Corrado Bagnoli, nato a Carate Brianza nel 1957, è laureato in filosofia ed è attualmente insegnante di lettere nella scuola media.
Dal 2004 è curatore della collana di libri d’arte “Fiori di Torchio” editi dal Circolo Culturale “Seregn de la Memoria”per il quale ha scritto e curato i libri fotograficidella collana Pomm Granà“Inventario quotidiano”, 2005; “Brianza, un paese in viaggio”, 2006; “Brianza, un paese in piazza. Tra memoria e desiderio” , 2007.
E’ redattore della rivista “La Mosca di Milano” e della collana di poesia, saggi e traduzioni “Sguardi” delle edizioni La Vita Felice.
E’ redattore della rivista “La Mosca di Milano” e della collana di poesia, saggi e traduzioni “Sguardi” delle edizioni La Vita Felice.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Uichendtuttoattaccato” (romanzo, Edizioni Joker, 2003); “Ti scriverò un paese” ( poesie, Il bosco d’acqua, 1998); “Terra bianca” ( poesie, Book Editore, 2000, premio Caput Gauri 2001); “Nel vero delle cose” (poesie, Book Editore, 2003, finalista Premio S. Domenichino 2003, finalista Premio Contini Bonacossi 2003); “Fuori i secondi” (poema con versione dialettale a fronte di Piero Marelli, La Vita Felice, 2005), pubblicato anche per i tipi di Arché in una nuova edizione scolastica; “La scatola dei chiodi” (poesie, La Vita Felice, 2008, selezionato premio Pascoli 2009); “In tasca e dentro gli occhi” ( poesie, Raffaelli Editore, premio Clandestino 2009); “Casa di vetro” (poema in tre quadri, La Vita Felice, 2012).
La rivista di poesia Aujourd’hui poeme ha pubblicato la traduzione in francese di alcuni suoi testi, a cura di Jean Portante. Sue poesie e suoi saggi compaiono in numerose riviste e in varie opere antologiche tra cui ricordiamo qui “La poesia e la carne”, a cura di Mario Fresa e Tiziano Salari, La Vita Felice, 2009.