Quantcast
Channel: blanc de ta nuque
Viewing all articles
Browse latest Browse all 366

Sulla poesia del Friuli Venezia Giulia

$
0
0


L'altro giorno discutevo con mia moglie sulla poetica di Pierluigi Cappello. Lei notava come somigliasse al verismo veneziano del secondo ottocento (Ciardi, Nono, Favretto, Milesi, Zandomeneghi): gli stessi occhi innamorati che raccontano il popolo nelle sue mansioni più umili, la stessa compassione, mi ha detto. Ha perfettamente ragione. E' come se il novecento delle avanguardie non avesse sfiorato non soltanto Cappello, ma una serie di poeti dell'entroterra friulano-isontino (l'area compresa tra le province di Udine, Pordenone e Gorizia) che sembrano disinteressarsi del problema della lingua, così come è stato posto dalla critica di sinistra (da Adorno a Sanguineti), per pensarla invece quale serbatoio etico di una comunità intergenerazionale. Quando leggo Francesco Tomada, Giacomo Vit, Giovanni Fierro, Maurizio Mattiuzza, Michele Obit, Ivan Crico, Antonella Bukovaz, sento che essi riconoscono, nella lingua parlata dai più e nelle minoranze linguistiche, il fondamento di una comunità degli animi, che la Storia ha tentato di dissolvere con due guerre mondiali, il fascismo nazionale, il comunismo titino, il tardo capitalismo degli ultimi decenni. Tutti tsunami che non sono riusciti, malgrado tutto, a distruggere l'identità friulano-isontina. Identità non monolitica e che ciascun autore ha poi coniugato a modo proprio, ma che si sente radicata nel medesimo ceppo preindustriale e che tiene in un dialogo fecondo giovani e anziani, memori tutti di un destino condiviso, fatto di famiglie profughe, di frontiera, di lavoro nei boschi e in campagna, di alcool, di povertà, di cultura partigiana. Questa condizione, nei poeti citati, si trasfigura in mito, anch'esso senza enfasi retorica, in una sacralità del quotidiano, dentro la quale le creature figlie della terra si muovono, mai sole, lungo un tempo circolare, in cui la ripetizione ciclica garantisce la fondazione dell'origine. Lo si coglie bene in questi versi di Cappello, tratti da Mandate a dire all'imperatore(Crocetti, 2010): «Uno, in piedi, conta gli spiccioli sul palmo / l'altro mette il portafoglio nero / nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro. // Una sarchia la terra magra di un orto in salita / la vestaglia a fiori tenui / la sottoveste che si vede quando si piega. //  Uno impugna la motosega / e sa di segatura e stelle. // Uno rompe l'aria con il suo grido / perché un tronco gli ha schiacciato il braccio / ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato / e io c'ero, ero piccolino» (parole povere).

Differente è la poesia triestina, la quale, come scrive Luigi Nacci, è stata una pratica essenzialmente borghese, «espressione di una classe media che di rado, anchenei suoi picchi più alti, ha contestato la realtà circostante, adagiandosi nel canto di un passato tramontato, o lanciandosi in gridi-sfoghi vagamentei qualunquisti. Questo qualunquismo, questa mancata presa di posizione o dicoscienza verso i fatti della storia, questo autobiografismo esasperato – Sabastesso non è esente – si nota anche nella scarsa riflessione fatta sulle formemetriche, accettate dal punto di vista teorico senza grandi riserve, anche sepoi con minor assiduità messe in pratica» (Trieste allo specchio, Battello stampatore, 2006, p32). Questo vale, mi sembra – salvo rare eccezioni (penso, in particolare, a Danilo Dolci, Fabio Doplicher, Ennio Emili e Roberto Dedenaro) – sino alla generazione dello stesso Nacci, a partire dalla quale autori come Christian Sinicco, Matteo Danieli, Mary Barbara Tolusso, Gaetano Longo, Umberto Mangani e Lisa Deiuri, hanno sviluppato una poetica della contaminazione, performativa, di provocazione, una poesia nomade, in cui si dice io a partire dalla sensazione – per citare un verso di Sinicco – che la realtà debba «frantumarsi del tutto» o il disastro, come scrive Nacci in Bewerber, sia già accaduto: «A giorni alterni qui crollano le case in tutte le stagioni / Nelle macerie si gioca a nascondino prima dei soccorsi / Liberatutti canticchiano le ruspe e arrivano i becchini / Scrivono i corvi con tremuli becchi la lista dei dispersi».

In comune con i poeti dell'entroterra, anche gli autori triestini nati negli anni Settanta (ma ci sono altre bellissime eccezioni generazionali, per esempio Gabriella Musetti, con il suo "residenze estive") ritengono che la poesia debba uscire dai luoghi deputati, biblioteche e librerie, per scendere in strada, nei bar, nelle periferie, nelle feste di piazza. Rispetto a quest'ultime, tuttavia, mi sembra che i friulani-isontini vivano con maggiore passione l'incontro con il proprio territorio. Mentre infatti i giovani triestini in ragione della loro indole antagonista e cosmopolita, agiscono in tutto l'ambito nazionale, gli altri dialogano costantemente con la loro terra: basti pensare alla festa di primavera a Cormons e al festival "Acque di acqua" con la sua tappa più ambita: "La Stazione di Topolò/Topolove", due settimane estive di arte, poesia e musica che quest'anno, in disgrazia dei tagli ai finanziamenti regionali, rischia di saltare (a questo proposito, chi volesse contribuire affinché questo progetto si possa realizzare ugualmente, visiti questo sito).

I poeti triestini sopra citati mi sembrano i primi, nel Friuli Venezia Giulia, a tentare uno sradicamento dalla tradizione, per misurarsi con una sperimentazione linguistica e metrica mai fine a se stessa, ma tesa ad agganciare il pubblico della poesia per inoculargli il veleno del pensiero critico e il farmaco contro l'omologazione culturale del tardo capitalismo, con l'idea che l'essere contemporanei non possa prescindere dai modi in cui il reale trova forma nella lingua; per i friulani-isontini, invece, l'universalità dolorosa eppure solidale dell'esistenza va cercata nelle cose sopravvissute a quella omologazione. Nessun antagonismo, in questi ultimi, se non genericamente verso l'inautenticità del moderno; con la certezza che sia il luogo a custodire la via d'uscita all'alienazione, luogo che si dà attraverso i visi, i gesti e le parole degli uomini che lo hanno vissuto. Questa onda, che ha lambito anche i confini veneti (Fabio Franzin, Piero Simon Ostan e Giacomo Sandron ne sono un esempio) confida nella metafisica dell'autenticità, laddove gli "Ammutinati" di Nacci auspicano una nuova rifondazione delle arti entro una Trieste, non più celebrativa, ma propositiva, capace di diventare di nuovo crocevia tra la cultura mediterranea e slavo-tedesca, come lo fu nei primi decenni del novecento, arricchendo i propri modelli con le letterature forti del secondo novecento: la francese, la spagnola, la sudamericana e la statunitense. Le due posizioni mi sembrano abbastanza inconciliabili, ma, proprio per questo, credo debbano dialogare con maggiore intensità, per arricchirsi vicendevolmente, senza perdere di vista la specificità della storia e della cultura del Friuli Venezia Giulia, per evitare tanto il rischio di una mimesi acritica con l'esistente sopravvissuto al moderno, quanto quello di un meticciato postmodernista, che potrebbe sembrare snobismo ai molti poeti passatisti. Io credo che non lo sia e che, anzi, la scrittura degli "Ammutinati" siano espressione forte del territorio; tuttavia dovrebbero cercare maggiori occasioni di dialogo e confronto, a Trieste e in provincia, non soltanto per ribadire la loro legittimità, ma anche per riconoscere, nella poesia resistenzialedella linea friulano-isontina (e in quella praticata dalle decine di poeti triestini nati tra gli anni trenta e cinquanta), una propria ragion d'essere, che non va cancellata, bensì, caso mai, messa in cortocircuito con i linguaggi della contemporaneità, come fa Gianmario Villalta, per esempio, misurandosi con l'esperienza antropico-paesaggistica di Zanzotto. Sottolineo "caso mai" perché è difficile dire che cosa manchi alla poetica di Cappello, dove biografia e parola, creatività e misura sono sorelle.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 366

Trending Articles