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La Vita in Prosa (bando di concorso)

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La Vita in Prosa 
Concorso Nazionale di Narrativa
Terza edizione (2012)


Con la partecipazione di puntoacapo Editrice

NORME DI PARTECIPAZIONE
Il Concorso riguarda scritti inediti in prosa.
La Giuria del Concorso è composta da:
– Ivano Mugnaini (scrittore, direttore della collana di narrativa di puntoacapo Editrice)
– Mauro Ferrari (poeta, critico, direttore editoriale di puntocapo Editrice)
– Valeria Serofilli (scrittrice, presidente del Premio Astrolabio)
– Adrian Bravi (scrittore)
– Alessandra Paganardi (scrittrice, collaboratrice di riviste letterarie nazionali)
– Roberta Lepri (scrittrice)
– Daniela Raimondi (poeta e scrittrice) .

I volumi dei Vincitori (da uno a tre) saranno pubblicati da puntoacapo Editrice in elegante edizione numerata. Tali volumi saranno inseriti nel Catalogo dell’Editore e godranno quindi di una valida promozione grazie alla mailing-list dell’Editrice e a tutti i canali di informazione, diffusione e distribuzione da questo utilizzati .

La Giuria si riserva inoltre di segnalare a puntoacapo Editrice un numero limitato di lavori ritenuti meritevoli per una possibile pubblicazione in volume singolo, o l’inserimento nel secondo volume collettaneo di DEDALUS: QUADERNO DI NARRATIVA CONTEMPORANEA, vero e proprio “Annuario” della prosa italiana.

Nel sito “Dedalus” sono presenti, preceduti da un commento introduttivo, liriche, prose e interventi critici di alcune delle voci più significative del panorama letterario contemporaneo. Sono stati pubblicati, tra gli altri, Antonella Anedda, Alberto Bertoni, Biagio Cepollaro, Maura Del Serra, Gabriela Fantato, Anna Maria Farabbi, Annamaria Ferramosca, Lucetta Frisa, Mauro Ferrari, Luigi Fontanella, Alessandra Paganardi, Alessandro Polcri, Daniela Raimondi, Maria Pia Quintavalla, Valeria Serofilli, Massimo Scrignoli, Antonio Spagnuolo, Adam Vaccaro, Paolo Valesio, Viola Amarelli, e molti altri. Per una visione completa degli autori pubblicati, tutti degni di una menzione che per ragioni di spazio non è possibile proporre qui, si consiglia di visionare direttamente il sito www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com.
Il sito ospita anche alcuni dei lavori più meritevoli delle passate edizioni del Concorso La vita in prosa.

Modalità d’invio
Gli autori interessati devono inviare i loro testi entro il 31 ottobre 2012.
I partecipanti potranno inviare da uno a tre racconti, lettere, pagine di diario o brani di prosa creativa di qualsiasi genere, a tema libero e di lunghezza compresa fra le due e le dieci cartelle per ciascun testo, tramite file in formato Word .doc oppure RTF (si prega di non inviare file .docx) allegato ad un messaggio e-mail al seguente indirizzo: ivmugnaini@libero.it , indicando come oggetto del messaggio: “Concorso La Vita in Prosa 2012”.
I dati personali dell’autore (nome, recapito postale, telefono, cellulare e indirizzo di posta elettronica) dovranno essere riportati esclusivamente nel corpo del messaggio, non nel file. All’interno del messaggio deve anche essere riportata la seguente dichiarazione: “I testi da me inviati sono inediti e di mia creazione personale. Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi del decreto numero 196/2003 nell’ambito del Concorso La vita in prosa”.
È gradito l’invio di un contributo spese in misura libera da inviarsi tramite assegno non trasferibile intestato a: Ivano Mugnaini. È possibile anche l’invio di contante con lettera (preferibilmente raccomandata) indirizzata a : Ivano Mugnaini – via delle Sezioni, 4348 Località Bargecchia – 55040 Corsanico (LU).
La partecipazione al Concorso implica l’accettazione del presente regolamento in tutti i suoi punti.
Il corretto ricevimento del messaggio e dei file, e la conseguente iscrizione al Concorso, saranno comunicati via e-mail a tutti i concorrenti.



Caterina Davinio

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In questi giorni l'esperienza poetica e artistica di Caterina Davinioè in primo piano in rete. Finalmente, visto i vent'anni e passa di ricerca nella poesia visiva e neomediale. Mi preme però qui parlare di Fenomenologie seriali (Campanotto 2010), un libro con versione inglese a fianco che, pur richiamando nel titolo un'operatività avanguardistica, è pienamente lineare, anzi talvolta persino conservatore nel trattenere espressioni attraversate dallo struggimento ("ho pianto di speranza", "Poi venne il pianto / disperato", "sciolse nodi di dolore") e da una timbrica che sfiora l'aulico e/o il sublime ("cresciuta in gemme turgide", "piango l'ora priva, / l'aria greve riarsa tra corteggi di vespe").

Con Fenomenologie seriali siamo di fronte una lingua poetica, nei suoi momenti meno convincenti, tutta immersa in un alone malinconico, introflesso, poco combattivo, che si lascia talvolta vincere da immagini deboli o già consumate dalla tradizione ("Volavo / come un angelo / dalle grandi ali / dolorose", "laghi come specchi", "le lacrime / diventarono sangue"). Lotta che invece si mostra ben più poderosa nei testi che danno il titolo al libro, più ispirati di Squeeze, la seconda sezione dalla quale ho tratto i versi sopracitati.

Le 20 poesie della prima sezione, più che serializzare– secondo la tecnica musicale della costruzione preordinata di una successione di fenomeni concreti ben riconoscibili – mettono in campo una drammaticità d'impianto espressionista, col taglio diagonale della scena e l'uso di verbi dal forte impatto emotivo, una drammaticità che si combina fecondamente con il bisogno di tenerezza, trasmettendo al lettore un empatia di grande effetto emotivo. La vera lotta messa in scena è quella tra Chronos e Kairos, tra il tempo indifferente dell'orologio cosmico e quello dei mortali, che pur fugge tuttavia. Niente di nuovo, ma raccontato con il grido che solo in novecento ha saputo realizzare: effetto di un naufragio ontologico a cui, anche la Davinio, contrappone la fenomenologia degli oggetti, arche o zattere a cui aggrapparsi verso un dove sconosciuto e che spaura.

L'amore di coppia, che fa da galleggiante alla deriva, diventa l'unico antro abitabile, per quanto buio e paradossale, tanto da essere il bene "che uccide dentro". L'ossimoro evidenzia la posizione non decisa dell'io lirico nei confronti del Tempo: a volte sembra propendere per l'ebbrezza che tutto brucia (sulla scorta anche delle poesie giovanili – assai intense nell'ispirazione – raccolte in parte ne Il libro dell'oppio, puntoacapo, 2012); talaltra soffre la mancanza di un "per sempre" che eternizzi la gioia. L'oscillazione tra Chronos e Kairos, disequilibria l'identità, ma – quando tutto funziona –  le permette di costruire versi efficaci, sintatticamente slogati, sincopati nel ritmo, capaci di aprire l'interiorità nel suo essere antro complesso di natura essenzialmente linguistica.



*

qui
confitta pianta tutta      
radici
memore del pianto come della linfa
e nel tronco imprevedibili, aride felicità
(e nelle pupille nidificano
uccelli)
nel sacco un'esistenza raschiata nuda
fino alle ossa
Da non poterla neppure pronunciare
Da non dirla invano
Da tenerla segreta come un sanguinoso
dio senza tempio.



*

Il bene camminava scalzo
Era nostro malgrado
E nonostante noi
Andava intorno vago
sole scappato alle orbite,
e le traiettorie del tuo spazio avevano
lunghe curve,
non misurabili parabole.
Mentre io ti giuravo che sempre.
E spergiuravo che
per
sempre.

La pensilina tagliava prospettive oblique tra cielo e terra
Si conficcava fra binari e nubi grigie
Con il nostro precario senso
Fendeva la retina passiva
Il cuore fermo.




*

Il giallo oro verdicante come
angoscia
Che fende il mio spazio - cielo il liquido
sole mio cielo -
Tuonava in alto, poco sopra l'orizzonte
E il verde grida nell'erba
E il piombo delle nubi chiude il
coperchio
E l'acqua diamantina conserva tutto del
mondo nei solchi di terra
e ancora un po' di mondo
e la luce tutta da bere, fredda
E il sangue di rampicanti avviticchiato
ai pini
E il verde nero dei pini
E il mio passo di sole tra i fili di grano
E la tua casa, prima del bosco
E la tua casa prima
le cose tue l'aria tua
il mondo tuo e il pensiero tuo
gli amati tuoi
E il tuo tempo
Il tuo tutto
Il tuo ferro la tua pietra.




*

Così forte, e mi chiedevo cosa fosse

Perché l'urlo di dicembre schianta
querce secolari
E io strappo le mie foglie i miei rami
E io pianta nuda non odo che stormire
di fronde
e rumore di
ali tra le non-foglie i non-rami
e il freddo del tronco rotto
e il fuoco
del non-tempo
non ho tempo
non ho più tempo

Conto secondi secolari
anelli nel tronco dei nostri alberi,
spezzo tutti i rami nostri e nulla
mi consola.

E scalza sul prato ferito (rosso-sangue)
non lascio tempo
niente al caso
a deserto, le gemme.



*

Tu
desiderio-respiro
te tutto     
tu senza sempre
senza mai
tu tutto respiro
ossigeno
e battiti di cuore
lacrime e cenere e grandissimi fiumi
e finissima
polvere
tu tutto odore
tocco sapore e lingua.




*

Cocaina

III.

E tu l'ami quella nostra morte
allineata sul vetro,
la sua carne di polvere ti fa fragile,
quel flusso di variazioni concave, malate, sorde,
ferventi,
assuefatte al fardello
di sensi tremuli,
di pupille molli,
di matrici allenate
a Vita in eccesso, dici,
candide di graffi
e luce feroce
a portata di passo, di cuore,
dissipata con una preghiera mattutina
e lo sguardo al cielo.


2004



*

Ballata dell’amore eterno

Che mi pensi.
Che sorridi pensandomi.

Ti crederò immerso nella tua fronte
Che non dimentica.

Dinanzi
Al tuo lieto fine
Al pietoso cuore
Con la musica amica.

Con la mano stretta
nel palmo stregato.

Con gli occhi che sanno
e carezzano da lontano.

Così (amerò)
- Voglio amarti per sempre -
in una ballata dell’amore eterno.



Qui altre poesie


Nata a Foggia nel 1957, Caterina Davinioè cresciuta a Roma, dove dopo la laurea in Lettere all'università Sapienza si è occupata d'arte contemporanea e nuovi media, come autrice, curatrice e teorica. Presente in antologie e riviste internazionali, ha pubblicato,
in poesia, Il libro dell'oppio, puntoacapo 2012; Fenomenologie seriali, Campanotto, 2010, menzione speciale nel Premio Nabokov 2011, con testo inglese a fronte, postfazione di Francesco Muzzioli e nota critica di David W. Seaman; il romanzo Còlor còlor, 1998; il saggio Tecno-Poesia e realtà virtuali, 2002, con prefazione di Eugenio Miccini; la raccolta di scritti sulla poesia elettronica Virtual Mercury House Planetary & Interplanetary Events, libro con dvd, 2012. Ha ottenuto riconoscimenti come finalista nei premi Lorenzo Montano, Franco Fortini 2011,Scriveredonna 2010 (Pescara), per l'inedito.
Tra i pionieri della poesia digitale e della computer arte nel 1990, ha esposto in oltre trecento mostre in molti paesi d'Europa, Asia, Americhe, Australia.
Dal 1997 ha partecipato e creato manifestazioni di poesia e arte multimediale in sette edizioni della Biennale di Venezia ed eventi collaterali.


Giovanni Borriero (due inediti)

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La voce che qui dice fiorepasseggia titubante sul fiore, perché è di carta e perché, se piove – dopo D'Annunzio e il modo in cui i suoi vestimenti leggeri, per retorica dei tempi, sono diventati divise d'Abissinia, Spagna e campagna di Russia – non c'è che l'ironia a salvarci. Già Montale, in Satura, fa il verso alla pioggia del Vate, ma con il piede sul pedale dell'impoetico, rimando "Gazzetta ufficiale " e "sciopero generale". Giovanni Borriero, filologo da sempre, ricama una ritmica tribale da quella decadente passeggiata in Versilia, pronunciandola con la lingua di strada, con qualche punta d'autismo o d'estrema timidezza, fragile come i petali di una voce che si vuole contemporanea, umile dunque, antiretorica. 

Mi ricorda Corrado Costa, ma non so se Borriero abbia mai letto una riga di questo nomade dell'area spatoliana. E se anche fosse, in Fioredicarta e in No/non c'è l'autentico di una poetica propria, matura, giocosa e profonda nel contempo, non separata dalla sua professione di studioso. La si avverte particolarmente, questa sua vocazione alla Lectio Magistralis, mascherata tuttavia, deformata in voce di superficie, autodidatta e irregolare, tra il Sanguineti post-neoavanguardia e le prose della letteratura selvaggia (l'autobiografia illetterata, come la chiama Algredo Giuliani ne Le droghe di Marsiglia) in No/non: balbettio d'amore verso i proprio luoghi di ristoro, il lago, i cachi, la parola prima che diventi concetto, potere. Averne di poeti così in Italia!


 Fioredicarta


se piove su un fiore che è fiore e basta se un fiore che è come un fiore e basta se allora viene un giorno che piove e piove su un fiore allora ci sono le gocce che sono sul fiore che sembra che il fiore piange ma poco allora se un fiore è fatto di fiore e basta

ascolta se la parola che dici leggera se piove su ogni sera il ciglio lo sbaglio se piove sulla parola che dici e non dici se piove sulle nostre mani taci se non dici per ogni goccia che cade per la lacrima nera per la sera amara che cade

piove se piove su un fiore che cade piove su ogni fiore allora allora che piove e se il fiore che sente il peso il fiore che colora di fiore e basta se oggi mi illudo se oggi io cado piove se oggi che il fiore che pesa che cade oggi che piove se

ascolta non trovo le mani che dici leggere non trovo le sere dimmi se dici non odo ascolta se taci e dimmi non trovo le mani le tue di mani che piove non sento cosa dici ascoltami che dico della sera che cade se dici leggera dimmi la favola bella fammi dormire se piove ninna nanna ninna è

il fiore è tutto azzurro il fiore è tutto calmo poi ci sono le ragazze moderne che non sono eterne poi c’è l’azzurro che le veste di blu e il poeta non sa più se a cesena piove solo di mercoledì io sono qui da solo sotto la pioggia cazzo qua da solo con un fiore in mano che ti aspetto sotto la pioggia

dimmi dammi i tuoi freschi pensieri quelli di oggi quelli di ieri ascolta le foglie che dici piove sui pini neri sui pensieri neri sui semi neri sui distributori di benzina blu piove mia stella stellina su ogni angolo buio piove sulla calce e la sabbia piove sulle teste chine sulle fronde sulle ronde le sponde le onde e su te

piove sul nostro fiore di ieri sul fiore di carta che ti dico piove sull’intrico di inchiostro ascolta se dico se ti dico del fiore che tace e che dice del fiore di carta e basta che piove e non trovo le tue mani ascolto se dici ma piove piove e basta

piove e basta piove e fiore e basta


questo omaggio a La pioggia nel pinetoè stato presentato il 2, 3 e 5 settembre 2008 dal gruppo teatrale Officine Orfeo nel corso della rassegna Notturni dannunziani 2 (Gardone Riviera, Vittoriale degli Italiani).



No / non


allora c’è il no e c’è il non tipo dire no fare no che è diverso da non fare e non dire ma poi c’è il se il se ma il ma forse poi c’è la piega tra le parole che diventa piaga la parola come la mollica di pane che se la guardi da vicino è piena di buchi e allora dentro ci trovi il pieno e il vuoto è come che mica puoi toccare le cose perché le cose non ci sono e se ci sono è come se non ci sono oppure è no semplicemente

ma se dico non non è mica come dire no se guardo un albero che non ci sono le foglie allora non dico le foglie no dico non ci sono le foglie dico non mica no dico perché se io vedo le foglie che non ci sono allora un po’ ci sono dico solo non mica no

l’albero di cachi si chiama caco perché è giusto così e io avevo o forse ce l’ho ancora un albero di cachi al lago non gli ho mai dato un nome no mica gliel’ho dato e lui mica me l’ha detto comunque è alla casa del lago che una volta era quella dei miei nonni o forse no ma albero senza un nome non è che ha un nome no

insomma quell’albero lì è un albero di cachi che è fatto proprio così è nudo coi rami secchi che sembra morto sembra vivo proprio no mica non vivo insomma piuttosto morto ma poi fa delle foglie che sembrano verdi e che sono proprio verdi

io parlo dell’albero ma dico potrei anche parlare di altro tipo di questo e di quello però volevo insomma partire proprio dall’albero che sta dentro a un’aiola tipo rialzata nella casa che era dei miei nonni credo

allora a un certo punto che sei al lago e piove e fa freddo ma l’albero sputa fuori tipo delle noci verdi con un bitorzolo sopra insomma è come se ti dice guarda che sono mica morto non muoio no cazzo ti ho fregato ti sembravo morto tutto secco e invece tiè sputo fuori è che mi nascondo e tu mica mi vedi è che mi vedi no

l’albero dice più o meno sei un coglione questo mi dice insomma perché io avevo pensato che no e lui continuava a dirmi che non ma pensavo sei morto ma mica lo dicevo io lo guardavo e basta ma il bastardo ascoltava

i cachi sono mica arancioni fanno un frutto tipo il colore della luna ma più forte ma più morbido ma più grasso ma meno rotondo ma più lucido ma solitario uguale dico insomma è un albero secco pieno di luna e pieno di lune che quasi sempre dice non

mica no



Giovanni Borrieroè nato a Schio nel 1968. Filologo romanzo, si occupa soprattutto di lirica medievale: insegna attualmente Lingua e letteratura galega all'Università di Padova. È' presente, con le Quartine di San Francesco, nel volume Il valore del tempo nella scrittura (Fara 2011).


Vincitori "Premio Giorgi" 2012

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COMUNICATO STAMPA


Vincitori premio nazionale di poesia
“Renato Giorgi” XVIII Edizione 2012

CITTÀ DI SASSO MARCONI
www.comune.sassomarconi.bologna.it
PROVINCIA DI BOLOGNA

Circolo Culturale “Le Voci della Luna”
Cerimonia di premiazione sabato 27 ottobre 2012, alle ore 16.00, presso la Sala “Renato Giorgi” di Sasso Marconi (BO), via del mercato 13.

Presidenza:
Gregorio Scalise (onorario),
Marinella Polidori (Presidente del premio, senza voto),
Fabrizio Bianchi


Giurati  sez. A:  Mara Cini, Ivan Fedeli, Loredana Magazzeni

I premio Sezione A - “Silloge inedita”

“Estensioni del Tempo” di Martina Campi
(verrà pubblicata dalle Edizioni Le Voci della Luna)


Giurati sez. B:   Anna Lombardo, Ivan Fedeli, Beatrice Niccolai

I premio Sezione B - “Cantiere”

Annamaria Ferramosca


La giuria del premio, alla presenza della Presidenza, si è riunita il giorno 22 settembre 2012 per la fase conclusiva della selezione delle opere in concorso e la proclamazione dei vincitori.
Il Premio, articolato su due sezioni - “Raccolta inedita di poesie” e “Cantiere”-, si richiama  alla sensibilità letteraria di Renato Giorgi, apprezzato autore di poesie, romanzi e racconti, oltre che uomo politico, Sindaco di Sasso Marconi e partigiano.
Delle due sezioni, la prima  è destinata a premiare intere raccolte inedite, mentre la seconda è riservata a chi desidera sottoporre un breve estratto della propria produzione poetica ad una giuria qualificata.
Quest’anno la palma per la migliore “silloge inedita di poesia” è andata a “Estensioni del tempo” opera di Martina Campi, una veronese che vive a Bologna e lavora a Milano. La raccolta, scelta tra le numerose opere in concorso, verrà pubblicata dalle Edizioni Le Voci della Luna.
In questa sezione il secondo e il terzo posto sono andati rispettivamente a Francesco Sassetto di Venezia e ad un'altra veronese, Antonella Taravella. Estratti delle loro raccolte verranno pubblicati, assieme  a quelle degli altri vincitori e segnalati, sul n. 54 della rivista “Le Voci della Luna”.
Per quanto riguarda la sezione Cantiere, il primo premio è stato assegnato ad Annamaria Ferramosca, poetessa pugliese di Tricase ormai romana d'adozione.
Seconda e terzo classificati rispettivamente Vera Lùcia De Oliveira, poetessa  italo brasiliana che vive da molti anni in Italia, e Roberto Cogo, poeta vicentino di Schio.
La giuria, constatata l'alta qualità di tutte le opere in concorso, si é soffermata a lungo nell'analisi degli aspetti che hanno reso le prescelte meritevoli di pubblicazione.
Confermato il dato riguardante la crescita della partecipazione femminile  e la presenza di interessanti innesti di nuove forme di espressività poetica, resta da segnalare la nutrita partecipazione di giovani poeti alla sezione A, sezione da sempre considerata molto impegnativa per l'alto numero di testi e la loro strutturazione che richiede.
Le giurie hanno inoltre voluto segnalare i seguenti poeti:

per la sez A (in ordine alfabetico):
Silvia Cassoli, Stefania Crozzoletti, Paolo Polvani, Patrizia Santi, Paolo Senni Guidotti Magnani 

per la sez B: Caterina Davinio, Valeria Ferraro, Zara Finzi, Debora Ricci, Meth [Simonetta] Sambiase.   

Alla cerimonia di premiazione saranno presenti il Sindaco di Sasso Marconi Stefano Mazzetti, l'Assessore alla Cultura del Comune di Sasso Marconi Adriano Dallea, Il Presidente de “Le Voci della Luna” Marinella Polidori, il Comitato d'onore, le giurie, la redazione e il Direttore della rivista Fabrizio Bianchi, i rappresentanti dei premiati della sezione “Scuole”.
Seguirà un ulteriore comunicato stampa per il programma relativo alla cerimonia di premiazione.
Per ulteriori informazioni, tel. 347 5124366 (vociluna@virgilio.it).
È possibile trovare notizie sul Circolo culturale “Le Voci della Luna” sul sito www.levocidellaluna.it

Albo d’oro del Premio
Premio di rilevanza nazionale, primo nato nella provincia di Bologna, il concorso di poesia “Renato Giorgi”  può vantare la presenza di poeti provenienti da tutto il territorio italiano. Se nel 2000 è stato premiato Ivan Fedeli di Ornago (MI) – ora stabile presenza nella giuria del “Giorgi” – con Abiti comuni, a succedergli sono arrivati Paolo Arzuffi di Zanica (BG – 2001) con Solitudini possibili e Paola F. Febbraro di Roma (2002) con La rivoluzione è solo della terra, ora ripubblicato in un libro che raccoglie il meglio di questa poetessa prematuramente scomparsa.
Il testimone è poi passato nel 2003 a un altro romano, Marco Giovenale, con Il segno meno, mentre successivamente il premio è andato al teramano Raymond André con Le vetrate di Saint Denis(2004) e alla catanese Maria Gabriella Canfarelli (2005) con Zona di ascolto. Solo nel 2006 il Premio arriva nel capoluogo emiliano con Elio Talon, poeta veneto da anni residente a Bologna, e la raccolta Sideralia. Ma già l’anno successivo torna in Sicilia. Ad aggiudicarselo è la ragusana Antonella Pizzo con In stasi irregolare, mentre nel 2008 il premio si sposta in provincia di Milano con Impronte sull’acqua, raccolta poetica di Francesco Marotta. Ad un poeta del Lazio, Antonio Bassano, con la sillogeL’imperfezione dei cardini, l'edizione 2009. E' Patrizia Dughero, trentina che vive a Bologna, la vincitrice dell'edizione 2010 con la raccolta Le stanze del sale seguita da Giorgio Bonacini che nel2011 si aggiudica il diritto di pubblicazione della sua“ Sequenze di vento”.

La raccolta premiata in questa edizione, Estensioni del tempo, verrà consegnata edita alla poeta Martina Campidurante la cerimonia di premiazione che si terrà il 27 Ottobre a Sasso Marconi (BO).

Sasso Marconi 23/09/2012

Klaus Kinski (poesie mai lette in Italia)

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Coprofilia e dinamismo futurista, visionarietà infetta dagli incubi che fanno eroico il pensiero maledetto, da Baudelaire a Dylan Thomas, l'idea che il corpo-universo sia piagato dalle stesse tabe del corpo-uomo, del corpo-donna, blasfemia dell'orfano che rimprovera il Padre impietoso e assente di "bruciare carne lardosa" lasciandolo solo, egocentrismo cristico senza tuttavia intenti catartici: nessuna croce, ci dice Klaus Kinski in queste poesie, salverà il mondo né la bellezza lo monderà dal dolore. Leggendole, attraversiamo tutte le ossessioni del moderno, l'ombra virulenta prodotta dall'ottimismo irresponsabile borghese, a cui si contrappone il delirio di Fitzcarraldo, nell'omonimo film di Herzog, che vuole portare il canto d'Apollo tra le braccia di Dioniso, non per annientarlo, bensì con l'intento nietzscheano di fonderli, trasformando così il mondo in opera d'arte. Sogno che naufraga nel film e nel progetto kinskiano, che del Cristo porta il candore ("io ero ricolmo di folle speranza") e di Satana le ferite purulente di chi è stato cacciato dall'Eden.
Come nella poesia dei mistici, anche qui luce e ombra si scannano l'una con l'altra, pur sapendosi complementari, in una lotta che sin da subito piega il corpo e la voce dell'orante; se nei mistici, tuttavia, questo dolore ciò serve a purgarlo dalle scorie del tempo mortale, in Kinski tutto ciò diventa una sfida estrema dell'identità che non vuole morire, similmente e con la medesima crudeltà che troviamo nel giovane Dorian Gray. In entrambi si respira l'aria decadente di un'arte votata al proprio annientamento.
Non credo siano estranei a questo sentire sia l'esperienza breve della guerra con la divisa nazista di Kinski (lui polacco, emigrato con la famiglia a Berlino) e sia i tentativi di suicidio alla fine degli anni quaranta. Per non dire dell'infanzia e dell'adolescenza, assai tormentate. Questa dinamite diventa poesia, parola dell'"animale sacrificale / che bacia i suoi eccitati assassini" e gode con loro nell'inferno della Storia, che è un'enorme Sodoma e Gomorra, non tanto differente dall'aldilà, se davvero egli crede a quanto scrive nell'incipit di Febbre, immaginandolo composto da "acido fenolico, ghiaccio e merda".


da Febbre – Diario di un lebbroso, trad. it. di Antonio Curcetti (inedito in Italia)



Febbre

Me lo raffiguro così l’altro mondo:
acido fenolico, ghiaccio e merda.

Quegli uomini che si scolano le proprie pisciate,
non avranno mai il dono della febbre.

Io porto negli occhi la febbre dell’intero mondo -
è come il fiotto purulento di sifilide l’oscura nuda
febbre che morde da dentro,  mai stanco è il mio cuore
che rantola tra le turgide lucide bacche.

Io brucio sbavando della mia stessa febbre,
la mia voluttuosa bocca straziata
sembra la pancia d’un animale braccato.
Io sono un neonato con la cenere ai fianchi -
al cordone ombelicale mia mamma m’ha trattenuto,
poi scagliato verso l’alto come un martello
fin dentro al culo scarnito del sole!

Io vado a testa alta come la più acerba delle madri e infurio
gridando attraverso la cenere fino alla bocca e i miei occhi
s’abbeverano della collera che riversa il cielo sprofondato -
luce, luce! nere fiamme io divoro!
io caco sulle vostre leggi! in me tutto è oscurato dal sole!
lui spruzza il suo fremente nucleo fin dentro
la selva schiumante del mio corpo! il mio sangue ribolle,
come se dei lucci impazziti fossero negli scoli della mia anima.

Una placenta io sono!

Con piacere io mi lascio dilaniare da una materna tigre,
piuttosto che agitarmi sempre ai suoi fianchi! dinamo! dinamo!

La mia pelle mi va stretta - lacrime esplodono
sotto di essa - e io sono come una rana in un bicchiere,
la luce mi colpisce alla testa e ancora una volta
io vengo respinto indietro da ciò che vedo - 

sole - sole - lui ha sputato sulle parti sensibili
del mio cervello - raggi raggi - nere minacciose oscurità -
sopra di me - sotto di me - in me come nell’urlante
petto d’una donna - come un pugnale nel mio cuore purulento -

dentro di me fremono globi infuocati -
come fossero grandi uccelli in gabbia,
dei soli divorano l’urlo che porto dentro,
intingono le loro ali ruggenti
nella mia anima ferita - avanti avanti avanti avanti avanti!
io non lascerò andar via il sole che bevve lo stesso
mio sangue di ragazza - e cenere cenere cenere.

Mi stanno spingendo ad uccidere -
io sono pieno di macchie -
io non posso più vedere se vi siano ancora dei fiori -
ridotto a brandelli è il cielo
e un pocodibuono potrebbe restarvi impiccato --------



Morendo io sono il preferito


I

Io sono finito oppure no!
siede spetazzante sul vaso la morte -
la sua bocca e il buco del culo soffia infetta lordante
pappetta sul calor bianco della mia terra a trifoglio -


II

Oh tu puzzo di Dio, canuta aureola
di lussuria eguale a quella dei vecchi tori!
tu sui miei occhi stai come ghiaccio rancido
e sbevazzi il mio sangue!!
tu proclami cosa buona e giusta bruciare carne lardosa!
io in questo secolo sono rimasto solo!! -


III

Imperla acceso sulla mia faccia
il Tau¹ della gestazione, come il catrame
del frutto che verrà - io vivendo con un peso addosso -
come una donna prima del parto -
morendo io sono il preferito!!
e se resto in vita, sono solo un puttaniere -
sebbene sia tu il mostro!!!


IV

Io non mi curo delle merdose vesti!
il tuo corpo ingiallito io lo calpesto!
di svaghi per morire io non ne ho bisogno!
non tutte quelle che tu riempi diverranno poi puttane!!!!



¹Tau (taw in ebraico) il cui simbolo, una Croce senza cima o a T , è simbolo di salvezza e di elezione.
S. Francesco adottò il Tau come sigillo personale, con esso firmando ogni suo scritto.



Prendete il mio bacio


Prendete il mio bacio! sanguigna schiuma del temporale
che scoppiando la rossa risata fende la terra -
nera è l’ombra della febbre, come un vello nel grano argenteo,
nel materno ventre delle rose - quando esse van leccando
l’amaro sale delle doglie, quando appesantite
da lacrime che hanno messo radici, le loro bende
sanguinano attraverso il cuore ribollente di passione -
il tormento, quel groppo dolente di sofferenza
che nell’esausto rugoso mondo piange come
un bambino ripulito dall’umore e tanto caldo,
e di nuovo reso cieco dall’ira del primo giorno
ch’egli stesso ha ridestato -
guardate! quello sono io!!
io sono la spada assassina dell’anima mia:
Idra dalle molte teste - saettante nel sottobosco -
dal frastornante marciume d’un intimo cratere
così io sbuco ed è spaventoso  il fulgore che tutto
frantuma, quel verde vaiolato dai livori d’una
mummiesca Baccante, ch’io provoco -
e quando i fiori m’abbagliano, dimentico d’ogni pena,
di nuovo io m’allargo dentro al nervo del sole  -

da qualche parte, dentro ad una selva, rabbrividisce di freddo
il mio polso, ancora avvinto ai calcagni della mia carnefice,
e che lei spezzò coi denti quando il mio raggio di sangue
la colpì come uno stiletto straziato -
al tempo in cui dormivo dentro alle nuvole color lillà,
disteso sulle rosee morbide stelle di giorno
e come Bacco, dopo aver munto il succo di lei,
andavo avanti  a dimenarmi nel suo letto infuocato -
poi si tese contro di me l’artiglio della troia di vostra madre, 
perché non riusciva più a carpire alcun nutrimento,
perché con l’immondo lei s’era alienata il respiro,
perché il suo crudele rancore le faceva odiare
la fanciullesca spensieratezza di quei seni,
che adesso penzolano come cadaveri impiccati -
perché fu dentro all’ombelico della figlia d’Iperione che io capii…

Io sono il mattino! io sono Apollo!
sono il butterato fauno in fuga che solo
tra le fauci del cielo placa le sue fiamme,
sono come un’ingovernabile zattera erosa di sudore,
rimbombante d’ispirazioni divenute così anguste,
e che non può confidare più in nessuno,
se non nelle zanne dell’aria radioattiva -

io sono l’azzurra febbrile bestia della terra!
sono le fiamme radenti, con cui marchio a fuoco nell’alvo d’ognuno!
sono il segnale d’allarme, la boa e la tempesta!
sono il verme che dimora nei seni!
io cado all’indietro come una merda e arrostisco nella sabbia!
io sono il sostegno degli alberi arroventati! 
sono il loro fungo! io ancora una volta li lascio al loro destino,
ed è con solennità che la mano vescicosa seppellisce
dentro ad una fossa i frutti giallo sulfurei!
io sono il loro embrione, sono il loro muco!
di quando la viscosa materia fatta d’ossa schiantate
si dissolve nella liscivia della mia collera!
io sono la pelle di fragola della Venere
che denudò per sé finanche un Dio!
io sono la lebbra sul ramo della mela!
sono la bocca dei fiori ramati!
sono l’accecante amalgama di onirici vulcani!
sono l’erba perlacea che ricopre il sonno d’ogni fanciulla!
io sono ancora più crudele d’un vascello di morti!
sono l’avida velenosa scogliera
sulla quale esso va urlando l’Amen!
io sono così vicino come una luce di mezzanotte,
ed anche così lontano!
ah! per voi io sono Tantalo,
colui che incontrò tutti i peccati -
di cui voi vi liberate come svuotaste un secchio d’immondizia!
io non mi sono mai lamentato delle botte prese, 
sempre sono andato rialzandomi  -
eppure vorrei ululare per migliaia d’anni
sopra agli occhi di tutti quei girasoli
che voi avete gasato con il cloro!!!!

eppure voi ancora colpite sui boccioli dei miei occhi!
avanti! in fretta! forza! così tanto coraggio avete!
grida sopra alla mia pelle la sifilide!
voi m’avete sputato addosso e coperto di lordume!

bastonatemi e colpite le mie mani,
pisciate nel basso ventre dell’anima mia!
spargete letame nella mia serena gola di cantore!
non mi fa paura la fine!

io divorai il freddo latte materno del bisogno -
Cristo fu la madre mia -
dentro alla sfera plasma-bambini, eguale a madreperla,
io mandai giù il bubbone avariato del dolore -
poi crollai sul sibilante cristallo -
madido di fango e di sudore d’elettroni -

io vidi come si contendessero la rivoltella le madri -
io sono affogato nel sangue selvaggio dei fiori -
e sorbirono il succo dalla mia fronte gli angeli infermi -
e le uova infrante della mia anima aspersero
dentro al mio cervello il fulmineo cancro di donna,
come fosse diarrea sopra ai nudi cimiteri ricoperti di foglie --------

io colpii l’orrenda butterata faccia di Cristo,
perché quel che mi stuzzica in fondo al cuore è la rogna -
finché dalle sue gambe guizzò la linfa infuocata
ed esplosero come fossero fatte di carta le mie ali!

io sono stato risvegliato in continuazione
da un secchio colmo di febbre schiumosa -
finché come un albero percorso dalla lama
caddi del tutto sotto i colpi d’accetta della follia -

io ero ricolmo di folle speranza,
come il corallo degli acerbi seni di ragazza -
io ero così incredulo, come un animale sacrificale
che bacia i suoi eccitati assassini -

venite! colpite a morte i miei vasi sanguigni!
a cosa servirebbero ancora i loschi espedienti degli uomini…
come un volto mai nato,  il mio cuore urla
tutto il mio sconforto contro quegli ottusi coglioni!
uno sguardo denso di fumo è quel che resta in sorte --------




Piacere


Io ho ficcato i miei denti nei seni delle ragazze,
ed ero come quei cangianti animali divoratori di rosee vulve,
finché, dilaniato dal loro sole bruciante,
mi gettai dentro al loro cratere come un Dio invasato -

non sceglievo l’età, né il colore dei capelli,
io m’abbeveravo, a pieni polmoni assaporavo
il loro venire come fosse liscivia sulla lingua,
fin da quando esse s’aggiravano nella notte -

rabbioso fu il bagno di sudore, prima di averne il corpo,
e fossero o no malate non m’importò un cazzo -
io m’accorsi solo di come aizzassero il loro grembo
e sputassero rapide fiamme, bianche e calde -

io non avevo alcun luogo che fosse mio -
eppure mi braccavano come fossi un untore -
il mio piccolo rifugio fu un cumulo di stracci -
lì poi rimasi febbricitante come una bestia smarrita.

In me tambureggiava la nostalgia dei frutti puri,
il morderli quando essi sono caduti in basso!
io avrei voluto sfuggire alla mia morte,
finendo tra le braccia del desiderio vorace.

La vipera che mi punse uscì dagli stimmi di Maria,
messaggera di morte più d’ogni cielo al magnesio -
soltanto per un attimo io ripresi conoscenza,
allorché dentro alla mia bocca aspra di febbre
i fiori bruniti dei loro seni si spensero.

Esse sono il mio Dio e luce e letto di sollievo,
quando il folle ascesso mi macera il cuore -
esse sono la fedele parabola dei miei tormenti
e mia madre e del pane la crosta! -




Lasciami morire all’impiedi


Il fuoco corrompe! e là si trova il mio volto!!
la follia m’ha fatto un’offerta!!
l’ozioso rincoglionimento d’un luminare
imbratta il rosso luminoso della mia stella -
anch’io voglio la mia morte!!!
io l’ho incartata e portata con me!!

siccome io non voglio pregare, a voi io grido,
perché Dio m’ha rotto il cazzo -
io non ho sentito la mancanza della sua mammella,
perché i suoi cieli non hanno mistero alcuno -

lasciatemi entrare! io non reco altro che cocci!
e reca il mio segno l’umida pena racchiusa nel fiorire,
quello della carne piagata che rifugge il sole,
e là io voglio cadere, morire prima del tempo!
ah, Dio di dolori, lasciami morire all’impiedi!
e con un grosso bastone colpisci alla nuca
quel tetano che mi divora!
sennò di quella lauta razione di ferite,
grasso così come una scrofa io diverrò!!!





Il Giudizio Universale



I

Gesù! tu sei un intestino consumato!
sputa dritto in faccia a quegli straccioni!
e come la fai lunga col Giudizio annunciato!!
quanta gentaglia continua a strisciare nel tuo ventre!!


II

I bambini hanno venduto il loro corpo per il domani!
non vergognatevene!
questa qui non è poesia!
questa è l’ultima abietta zavorra
con cui voi finirete dritti all’inferno!


III

La luna ha ucciso tutte le nubi a morsi -
gli uccelli non hanno più ghiandole -
dei soli fradici si trascinano malati e pesanti
lassù nel cielo, lacerati essi scorrono
lentamente uguali a gelido bitume…


IV

Germi sguazzano scoreggiando attraverso i miei pascoli -
e s’affanna come fosse una lama dentata la sifilide -
un albero di vetro sta dinanzi alla mia finestra -
ah! s’io solo giacessi sulle stelle aguzze!!



Nottetempo


Quando il fronte della sera s’inalbera urlando,
io vedo rilucere il pianto caldo dei fiori,
imbevuto nelle notti io lo vedo schiumare
verso l’umido dischiuso volto del vento.

A volte, quando un fanciullo soffia fin qui
e attorno a quei loro dischi vorticanti
stringe le sue scottate vescicose mani,
allora essi muoiono mulinando selvaggiamente
e baciano l’amore che c’è in quegli occhi
così pregni di verità e di dolce follia,
e premono dentro alla sua bocca il cratere
piagato del seno, affinché lui non gridi…

E quando negli anfratti della febbre mattutina
io poi cado a terra, calpestato come un camice disteso,
allora sento una bocca che si protende verso di me,
dal giardino ribollente del calore della pianta perenne
il diffondersi ripetuto d’un suono che m’accarezza,
e un occhiuto fiore incenerito.



Febbre – Diario di un lebbroso uscì postumo nel 1998, accompagnato da fotografie e dalla riproduzione anastatica di alcune poesie, per conto dell'editore Suhrkamp e con l'introduzione di Thomas Harlan, che visse con Kinski a Parigi negli anni Cinquanta (seconda edizione nel 2006, solo poesie e con il monologo Jesus Christus Erloser(Kinskiana interpretazione del Nuovo Testamento)

Il numero 271 di "Poesia" (maggio 2012) presenta un buon numero di testi, curati e tradotti da Antonio Curcetti il quale mi invia sulla fiducia questi inediti. Per darmi l'idea del suo rapporto empatico con questa traduzione (la prima in assoluto in italiano) mi scrive: "sarebbe stato bello scattare qualche foto del computer preso a calci, mentre traducevo, registrare l’audio di quando 'provavo' da posseduto, o semplicemente conservare le bottiglie vuote d’alcolici e/o altro. Ma non l’ho fatto."


Klaus Kinski nacque nel 1926 a Sopot, all’epoca compresa nella città stato della Libera Città di Danzica. Infanzia e adolescenza furono contraddistinte dalla miseria più assoluta e da precoci esperienze sessuali, sembra persino con una delle sorelle. Dopo essersi trasferito a Berlino con la famiglia, partecipò al secondo conflitto mondiale e fu fatto prigioniero dagli inglesi; nell’immediato dopoguerra debuttò con il teatro e le letture pubbliche delle poesie di Villon, Rimbaud e Baudelaire. La raccolta di “Febbre - Diario di un lebbroso” fu composta a Parigi e lì abbandonata in una valigia, assieme a disegni e a fotografie; ritrovata in circostanze fortuite alla fine degli anni ’90, fu venduta ad un’asta grazie ad una sola alzata di mano.  Di quegli anni fu anche l’internamento in manicomio e due tentativi di suicidio; in seguito Kinski abbandonò il teatro, accettando una miriade di ruoli soprattutto da caratterista e solo per bisogno di soldi, “alla stregua di una puttana”, come dichiarò più volte.  Lo stillicidio del proprio talento, l’indisciplina, la frenesia e la collera immotivata contraddistinsero la sua carriera d’attore; tra le moltissime pellicole, memorabile è la parte del furioso anarchico nel Dottor Zivago di David Lean, che gli valse una nomination agli Oscar. Nel film All’est si muore, di László Benedek, recitò la parte di un agente della Gestapo che colpì il giovanissimo Werner Herzog, al punto da segnarne il destino. Assieme alle parti  in uno dei classici di Sergio Leone, Per qualche dollaro in più, o nel Grande silenzio di Sergio Corbucci, notevole resta l’interpretazione da protagonista in E Dio disse a Caino di Antonio Margheriti.  Nel frattempo, sposatosi due volte, Kinski ebbe due figlie, Pola e Nastassja. Nel 1972, all’apice di una carriera di successo fatta di personaggi luciferini e psicologicamente instabili, Kinski decise di portare a teatro una personale rilettura del Nuovo Testamento.  Il debutto di Jesus Christus Erlöser non fu indolore e gli spettatori dovettero fare i conti con una rappresentazione estremista del Cristo che scandalizzò e irritò pubblico, stampa e Chiesa, al punto da essere sospeso.  Da questa dimensione cristologica al traditore Lope de Aguirre, guida magnetica di un gruppo di conquistadores allo sbando,  il passo fu breve; ebbe così inizio il tempestoso sodalizio umano ed artistico con Werner Herzog, grazie al quale Kinski diede volto a personaggi memorabili. Oltre che nel già menzionato Aguirre, furore di Dio (1972),  recitò in Nosferatu, principe della notte(1979),  Woyzeck (1979), tratto dall’ultimo dramma di Büchner,  in Fitzcarraldo(1981) e in Cobra verde (1987,  il film che sancì la fine della loro collaborazione. Si può dire che la carriera di Kinski si concluse proprio con quest’ultimo film, anche se l’attore lasciò il cinema dopo il delirante Kinski Paganini (1989), sua prima e ultima regia cinematografica e compendio di tutte le sue ossessioni. Negli anni successivi Kinski portò a termine la travagliata stesura della sua autobiografia, “All I need is love”, edita nel 1989 (subito  ritirata per motivi legali e ripubblicata solo di recente).  Scandita da una scrittura quasi automatica, con continue frammentazioni e sbalzi temporali, circonfusa da un’atmosfera viziosa e selvaggia, narra una vita sempre sull’orlo dell’esaltazione e della depressione. Nell’ultima pagina, rivolgendosi al figlio  Nikolai (avuto dalla terza moglie Minhoi), Kinski scriveva: “La gente dirà di me che sono morto. Non credergli! Mentono! Io non posso morire”.  Ritiratosi in completa solitudine in una casa nel bosco di Lagunitas (San Francisco),  nel 1991 Klaus Kinski fu stroncato da un infarto e il suo corpo, rinvenuto qualche giorno dopo la morte, fu cremato e le sue ceneri disperse nell’Oceano Atlantico.
A.C.


Due disegni di Klaus Kinski

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Due disegni trovati nella valigia che conteneva le poesie.




Domani, a Ferrara

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Con il patrocinio di
Regione Emilia-Romagna
Provincia di Ferrara
Comune di Ferrara
Archivio storico e Biblioteche di Ferrara
Festival Internazionale a Ferrara

   Main sponsor
HERA 'per la poesia'

   Con la collaborazione di
Libreria Sognalibro

L’Associazione Culturale “Gruppo del Tasso”
presenta

In gran segreto, Rassegna di Poesia Contemporanea


Ferrara
Venerdì 5 ottobre 2012, alle ore 17.00
Sala Agnelli della Biblioteca Comunale Ariostea, Palazzo Paradiso

SILVIA COMOGLIO

converserà con l’autrice

STEFANO GUGLIELMIN


Introduce
Matteo Bianchi 

Accompagnamento musicale
Luca De Angelis - sax
Enrico Scavo - contrabbasso



Info:

-- 
Ufficio stampa
Associazione Culturale "Gruppo del Tasso"
Ferrara

Risultati dell'European Poetry Tournament

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La casa editrice Dot.com Press Le Voci Della Luna, in collaborazione con la casa editrice Pivec di Maribor (Slovenia), per il secondo anno consecutivo ha organizzato le selezioni italiane per lo European Poetry Tournament, il cui bando era stato pubblicato anche presso questo sito. I vincitori delle selezioni nazionali dei paesi coinvolti (Austria, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Ungheria, Slovacchia, Italia) saranno invitati a partecipare, oltre alla serata finale di Maribor il 17 novembre, anche agli eventi promozionali che si terranno a Zalaegerszeg, in Ungheria, il 15 novembre, ed a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina, il 13 dicembre.

Al segretario del premio Francesco Tomada sono pervenuti 86 elaborati, che i giurati (Gabriella Musetti, Stefano Guglielmin, Giovanni Tuzet, già vincitore lo scorso anno) hanno esaminato in forma rigorosamente anonima, essendo ciascuna poesia contraddistinta solo da uno pseudonimo. La giuria ha constatato che tutti i lavori proposti rispettavano le condizioni previste dal bando, e che i componimenti di elevato valore erano numerosi, per cui il lavoro di selezione non si è rivelato facile.

Il vincitore della selezione 2012, che parteciperà quindi alla fase internazionale dello European Poetry Tournament, è 
Daniela Raimondi, con la poesia “Ritratto”.


RITRATTO (DANIELA RAIMONDI, VINCITORE)


Aveva lavato i più piccoli dentro il catino.
Sfregato col sapone le ginocchia, il collo,
la piega dietro le orecchie. 
Il fuoco era acceso.  I corpi fumavano.

Aveva lustrato le scarpe, spazzolato le giacche,
messo un nastro nei ricci della bambina.
Poi era uscita: il piccolo in braccio,
un altro per mano. 
I più grandi seguivano. 
Camminavano svelti, gli occhi abbassati,
i corpi stretti dentro i cappotti.

Quel giorno mia nonna andava a fare un ritratto.
Voleva una foto dei figli da mandare al marito. 
In Abissinia – dicevano,
a Natale il sole brucia ancora le pietre,
le donne hanno sguardi che fanno tremare le tigri. 
Lì, invece, l’inverno splendeva sui loro capelli,
il ghiaccio copriva i rami dei pioppi.

Il fotografo li compose come un mazzo di fiori: 
tre davanti e tre dietro. 
Aveva aggiustato le frange, poi i fiocchi, i colletti. 
Tutti fermi.  Sul viso hanno lo stesso stupore.

Li osservo.  Nella foto ogni cosa ha il suo posto:
la tenda di damasco, le schiene diritte,
la mano del primogenito sulla spalla del fratello più giovane.
Fissano l’uomo nascosto sotto il nero del panno. 
Nessuno sorride. 
Uno ha il cappello calato di sbieco,
l’altro indossa un maglione infeltrito.
Nella fila di dietro, mia madre: tredici anni, il viso sottile,
un vestito severo, nemmeno un accenno di seno.

Mia nonna manderà quella foto al marito. 
Scriverà che tutti crescono bene,
che il più piccolo ha messo due denti,
che deve comprare scarpe nuove, e le maglie, e i quaderni.
Tacerà del freddo che ghiaccia i canali,
del gelo che s’attacca sui vetri, dell’olio finito. 
Tacerà del settimo figlio che già calcia nel ventre.

È successo l’ultima volta.
Era tornato con addosso l’odore dell’Africa.
Ogni notte saliva sopra il suo corpo
e spingeva nel buio.
 attento a non fare rumore, attento
che i bambini poi sentono... –

Poi restava in silenzio:
gli occhi fissi sulla finestra,
e la paura che lui le piantasse nel ventre
un altro bambino.

Adesso gli spedisce la foto.
Non gli dice del figlio che le ingrossa le vene.
Non vuole parlargli del peso che già preme contro le ossa
e reclama il suo pezzo di letto, un lembo di fame, una voce,
la saliva che brilla
e già scava il suo nome nel buio.



ROSA DELL’ANIMALE (MARIA GRAZIA CALANDRONE)


questo suono d’incendio della carne dunque è il cielo.
carne che arde come legna e infiamma
i tralci e le colonne: dal capitello delle tue gambe ora
sale un bianco d’inferno.

quando un uomo ringrazia per il corpo ha detto sì: sì
al dono e alla prigione
e la sua gratitudine leva un rumore
di metallo battuto e tamburelli
nel più alto dei cieli, innalza
l’essere erbaceo del mondo
nella gioia di questo
che è. la gioia degli uomini è la sola lode
che piace a Dio. quest’uomo
non avrà smesso di cercare, solo
è felice, incamminato nella direzione delle cose:
nel carminio del cuore, nella ferita che diventa fiore e nel veleno
al quale è preparato dalla nascita. ora è potente come l’animale che non sapendo
sa. non lo turba l’insonnia. Dio è questo
animale, l’uomodonna, la frusta
dei nervi tesi dall’eresia, la nostra ombra gemella
di cerva e tigre, di cane
e serpente femmina che si acciambella
nel rovo dei tuoi denti, la mia spirale nobile e infernale
sui tuoi polpacci e il morso
di tutti gli animali, del cinghiale e del lupo
la zampata dell’orso e la sua fiamma
terminale nel rosso del mio cuore.

amami dunque.
tienimi nell’aperto del tuo petto
con odore di scimmia
e d’erba secca e menta e ibis scarlatti, tienimi nell’odore
di albero bruciato del tuo cuore, tra le fiere dirotte
del tuo cuore: sotto la dentatura delle scimmie
che masticano bambù
e sono a somiglianza degli umani
nude e rapaci come un’infezione
profonda. scimmie
sotto le foglie a cuore delle catalpe, scimmie come dettagli
di inferni bruegeliani
mi guardano dal fondo del tuo petto con l’occhio umido degli animali
sottomarini (l’occhio perlaceo e fisso
delle murene), si sfregano come diavoli
fino alla trasparenza della pelle
hanno una garza sull’osso
portante della schiena, sono innocenti.

io ti accolgo, ragazzo, come il morso di bestia




LA CASA OBLIQUA (ANTONIO BUX)


Era una porta in principio la testa, bussando il polso,
il pensiero della casa. Niente si è esposto, dopo
nel moto inverso, invisibile dell’abbraccio celeste,
la funzione del perimetro, l’insorgere alle finestre;

e così gli spifferi impronunciabili, e l’uscio obliquo
negli arredi al buio, il miracolo dei muri. (Che inizia
dal basso, la geometria della visione, dalla calce
comprimersi in un filtro -vincolarsi- nell’effrazione).

E allora tutto implode, dalla botola dell’esistenza:
si arriva nel sangue delle tubature, si taglia il cuore
s’accampano le ossa. E quindi, più del dolore disegna

la casa, la rivolta; degli oggetti si conosce la polvere
il nome, la scatola d’ombra. E il condono dunque
è svuotare gli stipiti, appendere il futuro agli angoli.

Ma doveroso è il censimento: il ritratto fuori, nell’insieme
sotterraneo cede, aderisce all’inferno, all’insubordinazione
anatomica del passo, che non sa retrocedere nell’origine
e scompare, misurato dal lungo metro dell’attesa

dove si precisa il tetto, la funzione urbana, la strada spaccata.




BALBUZIE (CRISTINA ANNINO)


Quella colla  lo riporta indietro. BU
l’allarga, non vuole, braccia in su, lui ha
fretta, ma anche allentandola, di più
stringe.  E’ carica al peggio di sé, la sua
liquefatta altezza. Macché
sale della terra, noi!  Distante
100 milioni d’anni dalla prima formica,
 eppure  siamo le sue larve, ché ancora  
si scrive sulle Papaie, non ermetici  né anarchia!
Esibiva, per prova misera libri farneticando, come
l’ultimo sogno del gran Disumano.


   ******
Nella stanza di palme zitte, sdraia
sotto la schiena le gambe; pareva 
un tallo. Pensa al sistema
abitativo di loro, rotoli di tabacco
puro nell’ozono dei rami. Poi libri,
sale, le guerre; conta: “più-meno-
memoria”  Con balbuzie pulsante accese
e spense film: Fukuschima, pesante
troppo sulle persone (altro calcolo
gratis), sarà sempre sulle
nostre spalle, come questa colla! sulla corte
dei conti, persino
sui gonfi tacchini e il volgare
pollaio di qualche scienza. Peserà. Così
gli parve. Poi basta, poi
via, poi destra sinistra dello stesso
collo, la sua balbuzie diventò carne.





CONFINI (MARCO BELLINI)


           Davvero non si pensava che anche un fosso,
           lì, appena discosto dallo sterrato,
           potesse essere un nido, quasi un letto;
           che fossero uno stelo d’erba e una ciglia
           legate alle stesse ore. La paura
           una coperta per l’età di questi uomini
           che si contano le unghie scure nella terra
           e sul vicino il sudore animale. Oggi è così
           i rumori sparati, i rumori lanciati si diradano,
           tornano nel fosso i movimenti, le articolazioni allungate.
           Tra loro non si guardano, non fanno domande
           nessuno si riconosce, nessuno
           racconterà quelle ore. E il giorno dopo:

un tronco cavo, una corda,
agivano sulle cose attorno per tenersi saldi.
Misuravano il rischio da prendere, la forza
della corrente. Di là un argine fiorito
la cadenza di un nome diverso, di una bandiera,
i suoi colori mai incontrati. Cercavano
un’altra opportunità; da lì sarebbero passati.

Lo studio del terreno, le curve,
la spinta della bracciata; per avere un riscontro
non bastavano, come credevano.


***


                                                        San Felice sul Panaro
                                                        20 maggio 2012
                                                        (FEDERICO FEDERICI)

senti? polvere che adorna la rovina della terra
si solleva a scatti, a sciami afferra le caviglie,
alle radici stringe la sua frusta e tira, strappa
i vetri e vortica tra i buchi, si divarica in fessure,
sale sradicando arbusti e vene nella roccia,
artigliando travature in bilico sul vuoto
nei cantieri, scortica grovigli elettrici
di cavi, scaraventa recidiva nugoli
di pietre e fumo, toglie il peso ai vivi

dopo la vertigine la veglia, le vigilie
mute d'altri tuoni senza lampi, notte
e giorno stesi nei rigurgiti, nei gorghi,
le gengive nere per la terra, gonfie
di poltiglia densa e getti d'acqua
ininterrotti – l'emorragia continua

cancellate, crepe e cumuli di pietre
circondano a settori il vuoto:
qui un altare senza ceri o croci,
lì un giardino sconsacrato senza fiori

i fischi, i pianti, i gridi e le sirene
ricadono più inerti di macerie,
è solo un alveare di arnie vuote
la città, in cui non c'è più casa,
o cosa intatta, o verbo a ricucire
il labbro alla ferita e metterli tacere

semi secchi senza odori, rotti, ossi,
tonfi sordi, rotolati nei rigagnoli dei fiumi,
rimangono sospesi in acqua che non scorre
e trema con la terra e col sudore sulla fronte

nello spasmo che contrae le viscere vacilla
ancora la città sui resti, l'acqua erompe
densa dagli scantinati, spinge i suoi rifiuti
morti fuori, i gusci e le immondizie, i mezzi
vivi ad occhi chiusi in agonia da parto

sino a che c'è forza da sfogare, il ventre
inciso, smarginato, prosciuga le sue piaghe,
non si cuce addosso la voragine che sputa,
ingoia e sputa coi detriti il sangue

la polvere s'affina nella luce alle fessure,
la pioggia ferma cenere che soffia il fuoco
spento e fa cadere a peso il fumo; scure
spire di fuliggine tempestano i gironi
terrestri, neve nera di altri giorni porta il buio




NELL’ANNO CHE SORTIVO DALL’OSSARIO (FRANCESCA MATTEONI)

Buio – io credo sia stato
ma come un lampo nel campo rovesciato
nell’anno che sortivo dall’ossario
e m’invischiavo al cretto
svenavo l’amnio della camiciola
nel foro sgangherato della terra.

Te la ricordi, la voce quando è un filo senza bocca
un fumo risalito come certe arie dell’alba
poi è limpido lo stelo,
la prima cavolaia, la farfalla?

Scendono per tre giorni le trivelle
inghiottono la pelle e il tremolio.
Sono il bambino-ghiaccio, il bimbo immobile
roccioso, il singhiozzo.

Non è che tutto ha sempre una ragione.
Dal fascio acceso della televisione, sei come me
mi senti, puoi salvarti. Puoi esistere
anche tu dimenticato, orbato
del tuo pezzo di paura. Non vedo più
troppo bene il sole.

Altri bambini, altrove, si proteggono.
Si calano l’un l’altro nel mio cuore.
Dev’essere così, mamma, che accadono
le cose morte, velocemente inutili nel mondo
– la screziatura delle pratoline
le ciocche troppo lunghe, aggrovigliate,
i graffi quando si corre forte
le braccia raggiate nel sudore
l’odore, le teste immerse, sporche.


* Per Alfredo Rampi, Alfredino, Roma, 11 aprile1975Vermicino, 13 giugno1981




IL RETICOLATO (FABIO FRANZIN)

Lo ha estratto il mio figlioletto dalla terra
ammorbidita da una pioggerellina
benedetta dopo un mese di siccità
e caldo infernale, questo pezzo storto
di reticolato arrugginito che ora
mia moglie ha infilato, lì, ritto,
in uno dei suoi bei vasi di vetro,
come se fosse un fiore. Raccolto
sabato scorso durante un picnic
sul Montello lungo un vigneto
di prosecco, a due passi dal Piave,
dai resti dell’abbazia di Nervesa[1].

Venti centimetri di ferro attorcigliato,
in centro le tre stelle dalle punte acuminate.
Gli dico che lo tendevano, tre file lunghe
ogni asta, davanti alle trincee, come ostacolo
all’attacco, come ultimo baluardo prima
dello scontro all’arma bianca. Lo guardo,
questo spezzone troncato chi sa se
da una bomba o da una tenaglia, chi sa se
storto da un corpo crollatogli sopra, morto.

Lo guardo, questo pezzo della corona di Cristo,
questo rovo rimasto piantato dentro la terra
per quasi un secolo senza mai produrre more,
questa reliquia del male, dell’odio. Lo guardo
come si osserva un fossile, una menzogna.

Ora che le spine dell’Europa sono composte
dai numeri rossi e negativi di spread e debiti,
dagli eserciti inermi dei disoccupati, e non
è bastato il giovane sangue versato fra l’erba
e i sassi per far spuntare il fiore della pace.    



***

                                 O i vostri nati torcano il viso da voi
                                                                                P. Levi
                                            (AZZURRA D’AGOSTINO)



Si apre un cielo di stelle incantabili:
credevamo, venendo qui, di numerare
sul quaderno altri modi: passare in rassegna i visi,
o i chiodi che reggono i muri,
i duri sassi sotto montagne di scarpe.
Ma per noi, i residuali, è poco più di una sterpaia
questa slargata campagna orientale, e ci fa male
un qualche punto del cuore che non è proprio il nostro cuore,
ma una cosa da poco, involtolata in fretta
per essere portata via.
Potremmo dire che in qualche modo
tutto comincia da qui: è in questi
secchi occhi di postumi che si specchia ora il mondo.
Dovremmo forse essere tante cose migliori di questa,
di questo vialetto interrotto, di questo vento astratto, tardivo,
che ci sganglia come fanno le parole:
un breve animarsi di foglie secche,
un'ombra nel cielo deserto,
l'amare soltanto quello che è perso.


11 marzo 2012, Auschwitz-Birkenau, Polonia




NUOVO DISCORSO DA UNA MONTAGNA ANTICA (GUIDO CUPANI)


Beati coloro che imparano
sull’autobus che scala il purgatorio mattinale
l’inutile di litigare per un posto – siamo tutti accatastati
nel sacchetto come articoli a basso costo
e non è meno scomodo occupare il corridoio
per chi scende o attendere davanti al predellino
per chi sale o ripiegarsi nello scatto delle porte –
beati coloro che lo imparano
senza alzare la voce
prima della sera del tempo prima delle macchie sulle mani
perché il regno dei cieli comincia un lunedì di traffico
e segni inconfondibili proclamano
che il capolinea è vicino

Beati coloro che si aggrappano




MINISERIE (INGAGGI)  (LUISA PIANZOLA)


*
sei un uomo amato da molti
lo hai capito fin da piccolo e ti sei messo sul mercato.
ne hai tratto profitto dai tredici anni in su.
le donne ti cercano, ti richiedono.
tu spesso ti dài un voto: otto.

sei una donna benvoluta e ammirata.
nel mercato rionale della tua città,
ma anche in quelli di milano, al tuo passaggio
non è che ti pestino, ti fanno largo come
a una qualunque signora con prole e altri requisiti.
tra l’altro hai una struttura fisica
più che decente: il tuo punto forte sono
culo e gambe. lo sai dalla seconda media,
ma non hai mai smesso di confezionare ricerche
scolastiche mettendoci il massimo dell’impegno.
per un certo periodo, durato parecchio in verità,
hai piombato le tue doti fisiche in una foiba esistenziale
che pareva senza rimedio.
ma il rimedio è stato trovato.
le cartucce residue sono nell’ultimo cassetto
del mobile in soggiorno.


*
ti dice: sei ancora bella, ma forse non puoi più
darmi un figlio, e io ne ho all’improvviso
un bisogno pungente.
gli dici: andiamo e facciamo, comperiamo.
il calendario ha tutti i mercoledì rossi,
soprattutto quelli vicini alla fine dei mesi.
tra poco salteranno giù dalla pagina e partiranno
per un viaggio di sola andata. non te ne devi dimenticare,
soprattutto di quelli vicini alla fine dei mesi.

ti dice: andiamo e facciamo. acquistiamo.
i figli, se non li puoi fare, si acquistano.
si prendono una vagina amorevole, un utero
ancora più amorevole e si compila il bonus.


*
i bimbi sono nati. c’è una scheda nuova di pacca
per le loro individualità. fratellini e sorelline
in girotondo nel cortile dell’opera. bianchi e marrone
chiaro, il coro degli insegnanti ragazzi li elettrizza.

abbiamo messo le culle vicino alla finestra
perché possano vedere e sentire già da ora.
nel loro silenzio di occhi piccini, nel loro vagare
con lo sguardo già da ora.
mandiamo avanti loro perché ci sia qualcuno
che si nutra con avidità e sviluppi in santa pace
ossa muscoli e organi vitali.


*
i bimbi sono cresciuti. uno sfavillio
di domande, di vita di tutti i giorni, quella
un poco snervante. ripercorriamo i loro
spostamenti giù dal letto su per le scale
dentro i cortili della fitteria. tra qualche anno
ne faremo una squadra, di quelle che vincono
o comunque puntano alla vetta della classifica.
ma per ora ci accontentiamo di salvarli
un poco alla volta, scuoterli con minacce alla mano
e stimoli alla riconoscenza.



TRASMIGRANO (MARIA PIA QUINTAVALLA)


I)

Trasmigrano i corpi, così l’amore
che mi sposta e muove
ali che si toccano sfilano appena
il collo, gli occhi più leggeri
nel sorriso. Sogno:
anse di nomi spinti da sonno cieco e
cani che riaprono l’alba

lui, lei che si ricambiano
il cerchio del piacere -
dopo i cimiteri delle macchine là fuori,
e trattengono il cuore, lo smarrito

                 se balbetta il  tuo nome,
                 o tenerezza.




Terra scoscesa e bretone,
nel verde
che disegna menhir in magnitudine,
parole come calvari in pietra -

Tra i nostri amori è l’acqua dove
una promessa sarà certissima
nel cuore,
colmo e con incerta mano
dai baci incoronata

la  t u a  voce.


II)

Ha fede e ostinazione il mio diletto,
sparge il suo dire a coprifuoco
cerca mappe alle stelle -
per arrivare fino a me, la sera

una promessa, un rilevante sogno
in balbettii leggeri
esse-emme-esse che si sollevano
(deve essere già integro, discreto

lui, se lo capisce).


III)

Il mercato è la regola
della circolazione delle merci,
e non dei sensi
che amplificano il regno -
Volessi io tornare al segno dove
l’anima e il corpo si fronteggiano,
si palpano da ciechi

un tesoro ai tuoi piedi io governo,
tu lo porgi



dal libro dell’amore inviti,
voli alto in dolzore
sopra le braccia poiché
il ragno della vita, la mia la tua
rinascano
in nuova  c a s a.

Ti amo intanto, piccola
figlia nel bozzolo, mentre ti prende
il gioco della crescita;
ritorno un poco indietro, attenta
scelgo sedermi calma, cerco

la  c e n a  dell’amore vivo.





[1]L’abbazia è quella di Nervesa della Battaglia, famosa perché Monsignor Della Casa, intorno al 1551, ivi vi scrisse il famoso “Galateo”. Nella prima guerra mondiale fu quasi totalmente distrutta durante i bombardamenti sulla linea del Piave, e così, mozza e sventrata, accoglie ancor oggi i suoi visitatori fra le colline del Prosecco.



L'Orfeo di Rilke (trad. Ajazzi Mancini)

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In occasione dell'apertura del seminario sulla "cura" e sul "prendersi cura" entro la dimensione dell'amore quale dinamica del transfert, condotto dallo psicoanalista Mario Ajazzi Mancini, allego questa sua traduzione rilkiana e la lettura critica, che apriranno la prima giornata (in calce i dati del seminario)



Rainer Maria Rilke
ORFEO. EURIDICE. HERMES
(1904)

Era la strana miniera delle anime.
Simili a silenziose vene d’argento
ne penetravano la tenebra. Tra radici
scaturiva il sangue che sale verso gli uomini
e greve come porfido appariva nella tenebra.
Nient’altro era rosso.

C’erano rocce
e boschi inanimati. Ponti sopra il vuoto
e quello sconfinato e grigio stagno
cieco che pendeva sul suo fondo lontano
come cielo di pioggia su un paesaggio. 
Tra i prati, placida e colma di indulgenza,
biancheggiava pallida la striscia di un unico
sentiero, stesa nella sua lunga incertezza.

Venivano per quest’unico sentiero.

Avanti agile l’uomo col mantello azzurro,
muto e impaziente, gli occhi dinanzi a sé.
Senza masticarlo, il suo passo divorava
il sentiero a grandi morsi, le sue mani
chiuse pendevano grevi dalle pieghe
della veste, ignare ormai della lieve
lira ch’era sbocciata alla sua sinistra
come cespo di rose tra i rami d’olivo.
E i suoi sensi erano come lacerati:
lo sguardo correva innanzi come un cane,
si volgeva e gli era accosto, poi di nuovo
lontano, per fermarsi in attesa alla prima svolta –
come un odore l’udito gli restava alle spalle.
A tratti gli pareva di sentir giungere
il passo degli altri due che dovevano
seguirlo in salita lungo lo stesso sentiero.
Poi dietro a sé solo l’eco dell’ascesa,
e il suo mantello sollevato dal vento.
Si diceva – verranno; e lo diceva ad alta voce,
e subito udiva il suono smorzarsi.
Eppure venivano, due nel terribile silenzio
di un lento andare. Se avesse potuto volgersi
anche solo una volta (se guardare indietro
non fosse già la rovina dell’impresa
ancor prima di compierla) li avrebbe visti
in un leggero attardarsi senza parole:

Il dio dei passaggi e del messaggio
lontano, l’elmo sugli occhi chiari,
l’agile bastone proteso in avanti,
e alle caviglie il battito d’ali;
e affidata alla sua mano sinistra: lei

Lei così tanto amata da trarre più lamento
da una sola lira che da donne in lutto;
da fare mondo dal lamento, dove tutto
era ancora una volta: bosco e valle,
sentiero e villaggio, campo e fiume e animale;
e intorno a questo mondo lamento,
come intorno all’altra terra, roteavano
un sole e un cielo silenzioso d’astri,
un cielo lamento dalle stelle sfigurate:
Lei così tanto amata.

Ma veniva per mano al dio, il passo
costretto dalle lunghe bende funebri, 
incerta, docile e senza impazienza.
Era in sé, come una più alta speranza,
dimentica dell’uomo che la precedeva,
come del sentiero che risaliva alla vita.
Era in sé. E il suo essere morta
la ingravidava come pienezza.
Simile a un dolce frutto di tenebra,
era così piena della sua grande morte,
tanto nuova che niente comprendeva.

Era in una nuova adolescenza,
e intoccabile; il suo sesso era chiuso
come un giovane fiore prima di sera,
e le sue mani tanto disavvezze
alle nozze che persino l’impercettibile
sfiorarla di quel contatto divino
la feriva per troppa intimità.

Non era già più la donna bionda
evocata talvolta nei canti del poeta,
né più profumo e isola dell’ampio letto
né più proprietà di quell’uomo.

Era già sciolta come lunga capigliatura,
sparsa come pioggia che cade,
come provvista infinitamente ripartita.

Era già radice.

E quando all’improvviso il dio
la trattenne, pronunciando con voce
dolente le parole: “si è voltato” –, 
non comprese e disse piano: “chi?”.

Ma lontano, come tenebra sulla soglia
chiara,  stava qualcuno irriconoscibile
in viso. Stava e guardava, lungo la striscia
di un cammino erboso, il dio del messaggio
con occhi colmi di tristezza volgersi
in silenzio a seguir la figura di lei che
già tornava per quel sentiero, il passo
costretto dalle lunghe bende funebri, 
incerta, docile e senza impazienza.



                                                                                                                Traduzione di Mario Ajazzi Mancini
                                                                                                                settembre/ottobre 2012

NOTA alla Traduzione

1. Il mitologema di Orfeo ha promosso e ispirato, quasi come un’aria musicale, una serie pressoché infinita di variazioni. Topos letterario per eccellenza – dall’origine greca fino ai contemporanei, passando per la canonizzazione latina di Virgilio e Ovidio – inscena il dramma e, per così dire, la mirabile bizzarria dell’amore di fronte al decreto inappellabile della perdita dell’amata. Euridice sarà riconsegnata all’amante sconsolato se, dopo aver conquistato la benevolenza delle potenze ctonie, questi, lungo il cammino della risalita, non volgerà lo sguardo su di lei; se, come prova estrema del sentimento, terrà eticamente fede a quella promessa che il desiderio stesso sembra non poter mantenere. L’amore è furore e demenza dell’amante, nonostante il verdetto favorevole; è melanconica rassegnazione dell’amata – priva di rimproveri, perché l’essere amati non è colpa imputabile, anche se in eccesso.
L’istante dello sguardo di Orfeo sancisce tanto una scomparsa irrevocabile, inasprita dal fallimento, quanto la riconfigurazione di quell’ordine naturale che inscrive la morte nella vita e la rende invincibile. Destinazione al termine, al perfezionarsi di ogni avventura umana e a un tempo “condanna” della follia amorosa, della dismisura di un possesso che si pretende inattaccabile. Ristabilire tale misura, la giusta scansione del tempo di un’esistenza – è questo l’insegnamento conformista dell’intera vicenda? Anche nelle varianti a lieto fine?
Non vi si residua forse una peste, il cui contagio trova infine nei moderni espressione soggettiva? Quella per cui lo spossessamento diviene condizione intima, esclusione/inclusione di un godere interdetto, la cui elaborazione sul registro simbolico è scrittura e traduzione; compimento di un lutto interminato che apre alla metafora ed al racconto – alla trasposizione, alla tessitura segnica degli affetti intorno al margine di un abisso che il mito, nella sua fissità stereotipata, lascia appena intravedere.
L’Euridice rilkiana – su cui il poemetto del 1904 sposta per intero l’accento – non costituisce solo il “nuovo” punto di vista del poeta novecentesco, interessato all’interiorità ed ai problemi della sua rappresentazione, ma sopra tutto l’allusione a quell’originaria pienezza, a quella presenza d’essere – qui sostenuta dalla figura della “sua grande morte” – tanto inafferrabile da aver meritato, in psicanalisi, il nome di Cosa.Assoluta prossimità sempre segreta, dimora del sessuale da cui, per identificazioni successive, si distaccheranno gli oggetti d’amore. Per il Freud dell’Entwurf (1895) si era mostrata in un grido. Rilke, anticipando le svolte successive dell’elaborazione, ne coglie il mormorio sommesso in una voce che, ormai estranea alla vicenda, pare davvero farvi ritorno.
Così, il volgersi di Orfeo diviene incomprensibile, come irriconoscibile la sua identità in uno sfocato chiaroscuro. La leggenda sfuma nella propria istanza principale. Scolora, tracciando nondimeno un confine, il limite dove la poesia può giungere ed attestarsi di fronte ad un enigma che pare insolubile: quello dell’origine; le radici il cui germogliare non è che un chiudersi sul mistero della grande morte che abita la vita come sua parte invisibile, da custodire intatto, da celebrare nel tempo che scorre, nel racconto che dice della perdita e della fine, di tutti i nostri fallimenti, più o meno esemplari.
L’essere “già radice” dell’amata, che Rilke compita quasi al termine dell’opera, consente allora di volgere a nostra volta lo sguardo al seguito di Orfeo, ricapitolando le tappe di un processo che tuttavia è già concluso – fin dall’inizio. Euridice non è sortita da morte – nessuna passione l’anima, se non quella docile e impacciata del ritorno; e tale morte è questo e quello insieme: promettente adolescenza e maturità di gravidanza, raccoglimento e profusione, verginità di un sesso che si chiude come un fiore appena sbocciato. Sforzo sommo della rappresentazione che, nell’accondiscendenza alla generosità della natura, cerca di sbozzare – per la piena realizzazione dovremmo attendere Elegie e Sonetti– quella trasformazione, non ancora metamorfosi, che il morire attua sullo sfondo di un distacco che rende partecipi di una “nuova” realtà, che nella sfera del Dasein assume la figura della Klage, quel lamento che l’amore incornicia come una mirabile eccedenza: “Lei così tanto amata”.
Immemore, Euridice dimora così nell’universo poematico come un cosmo diversamente ordinato. E Orfeo, sulla soglia del giorno, assieme al potere mitopoietico dello sguardo smarrisce pure la memoria di lei, definitivamente distaccata, disciolta in un mondo che l’esclude. La storia pare davvero concludersi, al di là di possibili variazioni. Ne è testimone Hermes, il dio dei passaggi che li ha accompagnati lungo l’unico sentiero. Incapace, o inadeguato a trattenerla, annuncia l’evento e si volge a sua volta, colmo di dolore e mestizia, a seguire la docile figura che completa un disegno – e una scrittura – che pure a lui pare sfuggire …
Ispirato al bassorilievo greco che lo ritrae assieme ai protagonisti della vicenda – Rilke ne aveva ammirate le copie romane al Museo Archeologico di Napoli e a Villa Albani a Roma – il personaggio di Hermes, qui raffigurato nella sua classica funzione (elmo, verga e caviglie alate), pare tuttavia costituire pure una sorta di relais che darà agio ad una soluzione della questione posta dal mitologema. L’Orfeo dei Sonetti, “dio del canto” ne prenderà il posto, raccogliendo la grande morte dell’amata, in un autentico progetto di esistenza:

Sei immer tot in Eurydike -, singender steige,
preisender steige zurück in den reinen Bezug.

Sii sempre morto in Euridice -, levati cantando,
e celebrando levati di nuovo al puro rapporto.

Il sussurro che, nel poemetto, racchiudeva una presenza innominata, diviene canto e celebrazione, perché la poesia, facendosi unsichtbaresGedicht, respiro come puro accadimento sonoro, è adesso davvero accosta all’origine; quella straordinaria compenetrazione – l’aggettivo intraducibile è wunderlich– di fervore e stasi che definiva la stranezza della miniera delle anime,  da cui Euridice sembrava muovere solo per farvi evanescente ritorno. Il progetto è compiuto se GasangistDasein, se il canto si fa esistenza; se Orfeo è un dio che può – un dio che, sulla scorta dell’Hermes del 1904, lascia emergere un prezioso rapporto con le cose del mondo: reinenBezug in cui esse sono cantate nella loro mirabile fuggevolezza. Forma altresì misteriosa della felicità. Prima, nient’altro che scissione, angosciosa lacerazione dei sensi, lungo quel sentiero che sale agli uomini, privandoli nondimeno della speranza di un oltre, qui ed ora. 
Ein Gott vermags. Wie aber, sag mir, soll
ein Mann ihm folgen durch die schmale Leir?
Sein Sinn ist Zwiespalt. […].

Gesang ist Dasein. Für den Gott ein Leichtes.
Wann aber sind wir? Und wann wendet er

An unser Sein die Erde und die Sterne?

[…]. Das verrint.
In Wahrheit singen, ist ein andrer Hauch.
Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind. 

Un dio può. Ma, dimmi, come può
un uomo seguirlo con l’esile lira?
Il suo senso è scissione.  […].

Il canto esiste qui. Per un dio, facile cosa.
Ma quando siamo noi? E quando egli volge

al nostro essere la terra e le stelle? […].

[…]. Scorre via.
Cantare in verità è un altro respiro.
Un respiro a nulla. Un soffiare nel dio. Un vento.


2. Riprendere Orfeo. Euridice. Hermes in traduzione, dopo alcune splendide versioni che hanno caratterizzato con risolutezza l’impatto di Rilke in Italia – da Leone Traverso e Vincenzo Errante, a Antonio Prete, passando per l’ammirevole Giaime Pintor e molti illustri germanisti – sarebbe impresa vana, addirittura sfrontatezza, se non se avvertisse un’urgenza ulteriore, simile a quella che ha animato una versione dei Sonetti qualche anno addietro. Rinnovato interesse che mette in relazione l’elaborazione rilkiana con alcuni tratti del pensiero psicanalitico in merito non solo all’impatto della pulsione di morte, la distruttività insita nella vita – di cui la narrazione del poemetto è illustrazione –, ma soprattutto ad un motivo orfico che Freud non aveva traguardato con la solita attenzione, trattandosi, se vogliamo, di un amore – potremmo dirlo di transfert – tanto reale da mancare la presa e divenirne emblema.
E questo, non solo sul piano tematico. Pure alcune scelte tecniche, l’abbandono della rima (nel caso Sonetti) e l’opzione per il verso libero, consentono di reperire alcune cellule ritmiche che hanno una decisa ricaduta sul piano semantico. Individuare sequenze ripetute di termini chiave permette così di rintracciare quel passo che Rilke scandisce in un solo, lungo verso che volge e si rivolge per inscenare il distacco – già compiuto – degli amanti. E pure di cogliere l’istanza transferale della traduzione (in tedesco ha lo stesso nome del transfert, Übertragung) in quanto inizia col riconoscere che il nesso, il legame presupposto – l’ideale delle fedeltà semantica e/o del calco metrico – è per lo più menzognero. Manca presa ed obbiettivo. È infatti possibile afferrarli solo nel tempo della messa a dimora nella lingua d’arrivo. Qui, lo stesso è ripreso e restituito, ripetuto come tale perché maniera e stile sono diversi, e propri soltanto di quella – in costante rinnovamento.
Vi è poi, in ogni traduzione, qualcosa che sfugge sempre alla riflessione, al perché e al come sia possibile motivarla, giustificarla al di là della resa e del senso che è in grado di produrre. Somiglia all’insensatezza di un atto d’amore – affine a quello di Orfeo – che corre sempre il rischio micidiale del rifiuto e della perdita …


Gli incontri si terranno presso lo studio Cartesio di via Fra Bartolomeo 24, a Firenze, a partire dal19 ottobre 2012 con scansione quindicinale, sempre il venerdì, e si protrarranno fino al mese di maggio 2013.

Poiché il seminario ha una continuità e richiede un impegno, anche etico, quest’anno ci sarà un’iscrizione (non vincolante, per chi desidera partecipare saltuariamente) di € 40,00. Per gli iscritti, il costo di ciascun incontro è di € 15,00. Per gli altri è di € 20,00.
Per informazioni e iscrizioni
Mario Ajazzi Mancini
Via Fra Bartolomeo 24
50132 Firenze
+39 347 78 40 752

Luciano Troisio

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Quando si scrive sulla poesia di Luciano Troisio, tutti concordano sulla sua natura funambolica, giocata sul filo ardente dell'ironia, del sarcasmo, della citazione colta, del plurilinguismo, un andare per arie talvolta rarefatte talaltra per fanghi e rovine, sempre consapevole, come scrive Gio Ferri "di un terribile passato non liquidabile", ma anche, direi – e Locations, impermanenza (Cleup, 2012) s'incarica di approfondirlo – dell'impossibilità di pensarci stabilmente fondati, garantiti in un Eschaton necessario. Non esiste infatti alcuna forza metastorica, tantomeno salvifica nella filosofia di Troisio, bensì uno sguardo disincantato alla Voltaire, che non coincide né con l'ottimismo di Pangloss né con l'ingenuità di Candid. Uno sguardo sempre mediato dallo scetticismo dell'intelligenza moderna, che indaga le cose e il discorso sulle cose, qui e altrove, nel suo Veneto antropizzato e nella sua Asia globalizzata, dove flotte di turisti curiosi lasciano ovunque bave come lumache.

Troisio è un viaggiatore di professione, anzi un ozioso flaneur euroasiatico, che organizza cataloghi ricchi d'aneddoti e di personaggi, colti per rapidi tratti, a esemplificare la specie sapiens sapiens di tutte le latitudini, tutta impegnata nel tentativo, a volte penoso, di mascherare l'evidenza che "Infinito non è l'Esistente ma la Distanza, il Vuoto / [...] / dove la materia quasi pulcino timidissimo / ingenuo nei movimenti tenta di insediarsi". Lo sapevano certi antichi e i moderni più emancipati, come Baudelaire e Leopardi. E ce lo racconta, mai così esplicitamente, 'Locations, impermanenza', accostando due termini di famiglia semantica antitetica: il primo proprio al linguaggio mass-mediale, direi quasi, latu sensu, berlusconiano; il secondo evocando i fondamentali del buddismo. Troisio, tuttavia, nemmeno per quest'ultimo dimostra riverenza, in grazia, o in disgrazia, delle mode novecentesche, che l'hanno ridotto a pratiche consumistiche e/o spettacolari. "La suora svizzera buddista" ne incarna l'emblema, convinta com'è che "il Nirvana non esista affatto / all'infuori di lei" e, mentre "fissa il mare" e "la crisi del soggetto, / si porta sigarette e caffè".

Invece, è evidente, l'impermanenza, così come esce dal canone buddista, interessa allo scettico padovano, la fa propria in molte pagine del libro, ma anche la locationconta: ogni poesia porta in calce luogo e data (eccone alcuni: Phonsavan, Kuta, Luang Prabang, Hanoi, Saigon, Bangkok) facendo il verso, in tempi di pace armata come questi, all'Ungaretti de l'Allegria, che il nostro si prende il gusto, blasfemo per alcuni nostalgici, di definire "scaltro furbacchione invadente" per le sue sussiegose riverenze a Mussolini. Invero, da buon polemista, egli ritrae con l'acido quasi tutti. Salva qualche rara amicizia e l'idea del bello incarnato dalle fanciulle prima che comincino a pensare, siano esse ridenti studentesse in uniforme a Candikuning o quelle rarissime concubine cui ha riservato vero amore, come scrive in "Il più lontano dei baci", testo che, assieme a "Fine della T-shirt di Juno", lascia emergere un tombeur de femmes d'altri tempi, decadente nello spirito ma non nella lingua che lo dice, così chiara e senza fronzoli sonori, piena di oggetti e spazi riconoscibili. Questo vale in questi passaggi perché Troisio è anche capace dell'inverso, ossia di innestare l'astrazione più insopportabilmente snob su di un ceppo espressivo da bloc-notes, come in questo passo, per esempio: "Tornando dal ristorante, dopo un'assenza di circa 40 minuti / l'esistente si è così modificato: // smantellamento imprevedibile e trapanio nella prossemica / della mia stanza e nel suo ambito acustico acuto". L'effetto è la ridondanza, ma anche l'ironia su di essa, una paradossale figura in cui il serpente si mangia la testa.

Tutto il libro, invero, è un continuo agire su differenti pedali stilistici, in un melange talvolta assai stretto, per ribadire il disincanto di base e l'imbarazzo per essere poeti oggi, dopo la morte di Dio e la perdita d'aureola, e dopo la constatazione che sono sempre più rare le fanciulle disposte a farsi sedurre dai cantori, per quanto istrionici siano. Troisio si ferma a un passo da tale postura, guizza leggero tra D'annunzio e Arbasino, dialoga con Gozzano, tre esteti su cui, a tratti, egli salta in groppa, ma soltanto perché in vena di sberleffi. La sua indole solitaria e da grillo parlante lo fa diffidare dei geniali pinocchi della lingua e della mondanità, fratelli eppure lontani, immerso com'è nella certezza della "propria Nullità", scritta in maiuscolo, come un lungo codino di Müncahausen cui tenersi sospesi nell'aria, disperdendo i canti. Il suo porto sepoltoè il ventre caldo dell'Asia ma anche la pagina bianca, "servizievole vibrante stargate", labirinto rizomatico che collega e ricompone in media res le indefinite posizioni dell'essere, campo di forze dove "autorizzare che qualcosa avvenga", ma sempre con il beneficio del dubbio come si confà ad un imprendibile moderno della sua specie.



LO ZAINO DI SISIFO

1
A Candikuning le brune bambine
avevano zainetti rosa uguali
con una diversa immagine di Barbie
andavano a scuola camminando piano
chiacchieravano ridenti in uniforme

non sapevano di possedere una grazia divina
non sapevano che l'esistenzialismo milanese gliel'avrebbe
sottratta rovinata lentamente macerata.

2
[Elegie laotiane:]
I giocattoli si mutano in arnesi
l'astuto turista lavora soltanto con marchingegni digitali
potrebbe teoricamente essere un creativo

gran parte dei turisti
si ridurrà a fare l'insegnante
bene o male un interesse per la cultura ce l'ha.
Se è pensionato l'ha certamente avuto.

Non si spiega altrimenti come possa girare da straccione
portandosi il mondo sulle spalle, senza mollarlo un momento,
si siede sul marciapiede, su un gradino di tempio,
posando lo zaino su quello superiore
trangugia una baguette ripiena di tonno e insalata mal lavata

guarda al di là della strada il suo omologo ricco beatamente
gioire il suo american bf
bere un'autentica fresca spremuta di arance protetto dall'ombrellone
al tavolino della Dubonnet

se è giovane non passeranno molti anni che si tramuterà
nel panciuto omologo
attraverserà la strada ma
lo zaino comunque non l’abbandonerà
forse il vaccaro australiano non lo sa
che Camus di lui discusso ha già.

*
Ogni viaggio è puntata di Sisifo.
Si rispolvera lo zaino, basta una spazzola, una spugna
si riparte dallo stesso punto,
dove si arriva?

Lo zaino di Sisifo è l’opposto del paniere di Esopo
si appesantisce ogni giorno
si riempie di nulla e carabattole
non libera affatto
nemmeno se giunti alla vetta per errore
per una svista da interpretare
lo zaino rotolasse giù
seguìto dagli occhi nell'abisso
sfracellando i nonnulla
le immagini.

Oh turista, inutile Sisifo.
L'astuto vorrebbe alfine liberarsene.
[Un trolley?]



VIVERE NON NECESSE

In epoca elettronica virtuale
di orale di gratuito cellulare
essendo ormai fuori moda i libri

oltre che i deliziosi ex libris,
le celebri silografie di De Carolis,
la Sagra di Santa Gorizia
quelle di Guerra che nel 31 illustrava
stupendamente Il Porto Sepolto di Ungaretti
(prefazione di Benito astuto intelligente
nel dir poco o niente
di quello scaltro furbacchione invadente)

stinti i bei motti, le imprese del divin Gabriele
(per quanto in certe foto abbia
un volgare naso bacchico spugnoso),
i suoi spot creativi per il Sangue Morlacco
lungimiranti profetici oltre il secolo,

in tal epoca è logico o perfino banale riscrivere
quel motto quasi incomprensibile
navigare necesse
tutto a danno del cartaceo e me ne duole assai e spero
che l’e-book non abbia mai fortuna, mi schiero
comunque dalla parte forse già antiquaria
non dico della pergamena, ma del libro
stampato su carta “Fabriano” o “Pescia”
quella che è sempre costata più del vitello.

Mi pareva assurdo questo
viverenonnecesse
sebbene fosse inteso nel contesto sincronico,
nell’opposizione che quei disgraziati
dovevano imbarcarsi per forza.
E ricordavo i generali che bruciavano le navi
per non dare speranza alcuna
ai lavativi che già invece la mettevano in conto.

Improvvisamente anche noi
per assoluta mancanza di alternative
siamo un po’ simili a quegli opposti condannati:
facciamo finta che
fin che la barca va, vivere
(e virtualmente navigare)
necesse.



A LEZIONE DI LEGONG

Egli parla come se le cose fossero vere, serie,
come se il mondo non fosse eolica polverosa
desertificazione infinito incenerimento,

ma fonte di bellezza straordinaria
come se per vedere non bastasse avere gli occhi,
si avverte la capacità di comprendere oltre

non sfugge la smorfia agli angoli
e molti sono i fatti che risultano importanti
perfino quelli normalmente non rilevanti.

Il tedio che si prova ascoltando
(perché la sensazione è che il discorso
non debba avere mai conclusione)

dipende da superficiale ottusità
e da occulta inconoscibile inquietudine,
la gente non avverte per nulla

la propria stupidità al contrario
si meraviglia che altri osservino
capiscano il sentire.

È probabile che un’educazione sottile
incida sul suo modo di avvertire
di comunicare il disagio

quando la pantomima di vergini sontuose
ingioiellate di fiori cede la gaia fanciullezza
all’adolescenza umbratile dei personaggi.

Nelle immagini tornano marionette
si pietrificano le dolci bambole
carezzati sfiorati bassorilievi degli dei.

                        Songklà, sabato 18 agosto 07 ore 23.13



L’ULTIMA SIGARETTA

L’ultima sigaretta
deve avere una lunghezza imprecisata
certo non a cannocchiale
per quanto si sospetti sia
imparentata con la figura della metonimia.
Assai lunga con forcelle di sostegno
non si degna di concorrere
a titoli di Guinness alle sagre
della buonista finzione.

Indefinita e nemmeno “messa a fuoco”
l’ultima sigaretta è quella di Zeno
ma anche del condannato
(quindi del suo contrario)
l’ultima sigaretta è come la confessione e il perdono
non è affatto best before
anzi non concepisce scadenza

basterebbe riflettere su questo per concludere che
l’ultima sigaretta non esiste
né per le case produttrici
e nemmeno per i (non) fumatori
come non esiste la guarigione
la salvezza.

Cionondimeno conciosiacosaché l’ultima sigaretta
nell’immaginario metafora
della ripetitiva stupidità e della Digitale purpurea
si dimostra assai utile,

certamente lascia viva la speranza
di una sedicente infinita compassione
(sia) come terapia d’appoggio
(che come parcella dell’analista
paragnosta).



IL BORDELLO DELLA PAROLA

1
Niente citazioni sarebbero troppe
e qualche lettore non gradisce ma
alludendo a un celebre sussiegoso utente
di bordelli (di parole)
in vecchiaia scopertosi assiduo
ironico frequentatore di zambracche da poco

possiamo in generica citazione sinottica stabilire che
ci sono parole pietre
parole fimo, consistenti cremose oleose
dia-logorroiche rigide spappolate,
fresche primipili ninfette, vegliarde in sfacelo
come nelle vecchie case i gusti sono gusti
e Comisso ci ricorda il precettivo
generico cartello: "il coito sia breve".
Quindi anche il prestito di parole
sia cauto moderato guardingo.

2
Più che parole ci sono combinazioni di parole,
sintagmi macromolecole
ce ne sono parecchie ma non infinite
le combinazioni risultano sempre quelle
ogni utente ha sue concordanze e loci.
Come sappiamo,
la parola è solo un prestito in prestito
flava coma in affitto a short time
bella bona gettonata
scade appena pronunciata
escort prezzolata
si può disporre in vari modi (accetta tutte le "posizioni"
comprese le inaccettabili e le più vergognose)
senza limiti estreme parole a ore
una poltiglia di suoni che cerchiamo di lavare
quando le tiriamo su dagli scavi archeologici
dallo spurgo dell'urbe
giù dai siderei archivi delle "moderne" polveri spaziali
da proporre in nuova talco versione
dopo la ristrutturazione.


3
La tecnica è sussidiaria,
le avanguardie arrivano con giovani
più determinati delle anoressiche arpie in carriera
forti spazzano via tutto reinventano il reale
a cominciare dal dizionario
eseguono la cosiddetta "sterzata semantica".

Attenzione quando si mettono in discussione
le regole di grammatica!
Seguiranno a ruota manipoli, nuove province, veterani
polizia provinciale
ci sarà un nuovo piano regolatore della poesia con fondi.
(Quanti attempati decorosi buoi piangono in segreto come vitelli...)

4
Con l'utopia non si governano asili nido,
i quotidiani day hospital,
con la sacra legge 180 si abbandonano per strada i poveri matti
non si fanno termovalorizzatori.

5
Nostradamus, il significante è per ricchi
proletari con l'ermellino
elitario equivoco furbino,
aristocratico del quartierino.

6
Anche i non poeti sono accettati nelle antologie di partito
difesi a lista tratta
su fratelli su compagni

ma le grandi Antologie Mondiali traducono in prosa
ignorano il sacro significante.
Le prime lingue del mondo non sono affatto europee.
Della frastagliata narcisetta Europa,
dei versi miserelli
se n'infischiano garbatamente.



IL MIO PRIMO PALLONCINO ROSSO

Tornando dal ristorante, dopo un'assenza di circa 40 minuti
l'esistente si è così modificato:
smartellamento imprevedibile e trapanio nella prossemica
della mia stanza e nel suo ambito acustico acuto
(sono le ore tredici non si può esigere silenzio nemmeno a Padova)
gli spaghetti allo scoglio sea food erano discreti
ma con troppo pomodoro, troppo dolci gamberetti,
sei conchiglie veraci per la verità buone
(non come dai ladroni di Burano
che in più ti fanno sgranocchiare la sabbia)
poi ricordato che in Pham Ngu Lao a sinistra c'è una boutique
dove vendono bellissime cartoline a meno di metà degli altri compagni 
in ottime condizioni e isolate una ad una in cellophan plastificato,
al solito prima di aprir bocca mi scambiano per francese,
in un pianeta anglofono la cosa non mi dispiace affatto
ho scelto dodici soggetti delle snelle filles
in aodài bianco bici e cappello, deliziosi paesaggi rasserenanti.
Rallegrato da loro sono salito a riposare.

Lo smartellamento testimonia che la vita non è piacevole
che c'è sempre almeno un motivo di disperazione da affrontare ma
l'osceno triviale aggressivo trapanio è risarcito
da straordinario fatto che vado ad illustrare:

sul muro appena a sinistra della mia porta, a circa due metri d'altezza
librato v'era un palloncino rosso.
Gli diedi un buffetto e cadde piano verso terra.
Nella mia purtroppo ormai declive carriera
di storico di cupidigie e di brividi esperto d'ogni sorta di rosso
mai ero incorso in tale sincronica fattispecie.
M'avvidi che all'opposto polo della chiusura
avea un piccolo adesivo,
quindi non s'era costì stabilizzato per erratica risultante
di imponderabili astrali correnti.
Una precisa volontà lo avea colà sistemato latore di messaggio

[(per me?) mi pare univoco (da chi?) ecco l'equivoco.
Dato che il personale della guesthouse è tutto femminile,
pur escludendo le tre splendide teen-ager in leggero diafanico pigiamino
resterebbero sempre le ancor sinodali varie zie bonone.
Versando un contributo solidale ed etico
hai visto mai che si possa combinare.

Rosso profetico? Un leggiadro messaggio d'amore?
(Sopportando il trapanare
spero non dal muratore).]

                                            Saigon 19 gennaio 2008



LA SUORA SVIZZERA BUDDISTA

                                         (A Candidasa da sei anni vive
                                           guardando l’oceano
                                           una suora buddista svizzera.)

Angoscia della vita ripetitiva
del fissare
da un’ottica buddistica il mare,
tranquillamente da quella hindù
ambedue imparentate con l’arte Gandhara,
col sorriso di Egina.
(Questo nelle nostre scuole non si insegna
ignorando i nostri Accademici l’Arte Asiatica).

La svizzera pensionata guarda l’oceano
considera sua la spiaggetta
dell’albergo e, immagino dalla spocchiosa puzzetta,
chiunque s’avvicini un intruso;
disturbata divinità
a domanda risponde per buddista carità.

Mi chiedo se sia ormai uniformata
alla confluenza dei fiumi della vita
o se il mondo, narciso, si identifichi in lei

e quindi il Nirvana non esista affatto
(all’infuori di lei,

antica novità filosofica rompicapo riciclata
da novissimi giganti del griffato
premiato Secondo Novecento Fumisticobanale
ormai in offerta speciale).

Fino all’anno scorso stava spesso in bikini
avea la tesa rapata
cosce possenti düreriane
erotica preda probabile
in ambito teutonico da flagellazione sado-maso,

ora indossa una lugubre veste lunga
le è ricresciuta capigliatura platino da chemio
improvvisamente è invecchiata ai sessant’anni
(quinto ciclo di dodici).

Non potrebbe vivere a Bali,
ha un garante (il padrone dell’albergo), deve
ogni mese presentarsi all’Ufficio Imigrasi.
Male lingue dicono che commerci,
vive in un bungalow a dieci metri dalla riva
nello splendido giardino di cocchi e banani.
[Il mondo è solo nella mente].

Saluta a stento,
per il resto fissa il mare
la crisi del soggetto,
si porta sigarette e caffè.
Cautamente Marina sostiene che potrebbe essere felice
anche molto felice.

Trasmette un sibilo angosciante
collegato alla fine,
costante.

                                Candidasa 14 luglio 2007


 Qui alcune poesie tratte da  Strawberry-Stop (Lietocolle 2008) e la nota biobibliografica.

Convegno di "Anterem" e postfazione agli inediti di Laura Caccia

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CONVEGNO DI ANTEREM: POETICHE DEL PENSIERO

Come ogni anno, nell’ambito delle cerimonie di premiazione del Premio Lorenzo Montano, la rivista “Anterem” promuove in collaborazione con la Biblioteca Civica di Verona un importante Convegno di poesia.
Sono in cartellone quattordici appuntamenti nel corso dei quali la poesia incontra la filosofia, la musica, la psicoanalisi e l’arte. Tali eventi si svolgono da sabato 10 novembre a domenica 18 novembre 2012 negli spazi della Biblioteca Civica di Verona, via Cappello 43.
Il Convegno ha per titolo “Poetiche del pensiero” ed è curata da Flavio Ermini e Raniri Teti. La finalità è far emergere l’intima relazione che unisce la poesia e le complesse problematiche del nostro tempo. Tra i relatori: Lorenzo Barani, Stefano Baratta, Alfonso Cariolato, Agostino Contò, Paolo Donini, Stefano Guglielmin, Tiziano Salari, Carla Stroppa, Vincenzo Vitiello.
Questa manifestazione muove da un’identità poetica molto precisa, caratterizzata dalla posizione concettuale e dal percorso di conoscenza della rivista “Anterem”. L’intento è di far amare a un numero sempre più vasto di lettori la grande poesia contemporanea e della modernità.
Con questa iniziativa “Anterem” vuole dare una visibilità critica sempre maggiore alle opere dei poeti vincitori, dei finalisti e dei segnalati per tutte le sezioni in cui il Premio Lorenzo Montano si articola: “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”, “Una prosa inedita”, “Poesie scelte”.
Per ulteriori notizie: www.anteremedizioni.it

postfazione (Stefano Guglielmin):

D’altro canto, di Laura Caccia, organizzato in quattro sezioni e in poesie di quattro quartine, ci riconduce inevitabilmente alla numerologia: quattro sono infatti le virtù cardinali e archeosofiche, quattro le lettere ebraiche di YHVH e quaternaria è la progressione matematica (1+2+3+4) da cui deriva il dieci, la perfezione, in quanto tre volte tre più l’uno, origine del molteplice. La suggestione di leggere questo libro secondo la mistica dei numeri è dunque forte, ma occorre essere prudenti perché non ci sono altri precisi segnali in tal senso. Semmai conviene considerare la tensione verso il sacro nella sua valenza immanente, in quello spazio terrestre (il quadrato è simbolo della Terra), da decifrare a partire dall’”ignoto”, del quale Laura Caccia – nella prima sezione –  ci invita a prenderci cura, non abbandonandolo alla deriva. Non si tratta di rivelarne l’arcano, né di neutralizzarlo in superficie né, all'opposto, di adorarlo, bensì di riconoscerne la forza tellurica, di farlo presente nella lingua in quanto luogo incontenibile, perturbante, che dona alla terra quel guizzo funambolico che non le appartiene, in grazia “della gioia / e delle voci di cui siamo capaci.” Il mondo non si salva, sembra dire l’autrice, bensì lo si espone nella sua perpetua forza sorgiva, malgrado lo si possa conoscere soltanto per “frammenti umani, abusi / di affresco sulla calce dei nomi”. Il poeta,  come un restauratore, legge i lacerti, i segni lasciati scoperti dalla violenza del tempo, e li riconsegna, nella loro semanticità sospesa eppure feconda, all’integrità della pagina scritta. Con entusiasmo. Così facendo tiene viva la lingua, la preserva dal suo depotenziamento storico e mediatico. Per fare questo, scrive l’autrice nella seconda  sezione, egli deve turbare la voce, incresparla, inoculandole “l’insensato”, che non è il privo di senso, ma l’eccedersi d’ogni ente spazializzato, il dissiparsi dell’”incustodito”, che così affiora, rivitalizzando la semplice presenza. L'ignoto custodito, compresso e umiliato nella significazione ordinaria, viene liberato dal canto del poeta gioioso, il quale lo innerva nel corpo testuale, lo fa entrare in circolo. E' appunto questo il modo in cui il poeta salva dalla deriva l’ignoto: metabolizzandolo, senza incatenarlo, nella lingua, nella quadratura dello stile. Di più non possiamo sperare perché “nessuna / cesura può dar conto / dell’origine o trarci in salvo”, ci riferisce la Caccia, in improvvise frasi apodittiche, in lampi, che mostrano per un momento un’immagine nitida, ma non meno inquietante, della verità sui viventi.
   Se salvezza e origine sono inavvicinabili, dobbiamo tuttavia “mettere a rischio il pensiero”, come invita a fare la terza sezione, decostruirlo sino a porlo in prossimità di quelle soglie. Ecco che cosa significa pensare, in questa prospettiva: accogliere  “l’inespresso dei nomi”, muovere “da un raccolto remoto / all’intimità accanto”, in una vertigine “che spalanca voragini” e non consola. Rimbaud e Heidegger sono i due numi tutelari, ma certo la scuola di Anterem, con i suoi trentasei anni di militanza sul bordo dell’inizio, non è estranea ad un’idea in cui poesia e pensiero avvengono nel medesimo tratto albale.
   L’ultima sezione si ribadisce un assunto ampiamente condiviso, ossia che la poesia deve “lasciarsi contaminare” dalla storia, intesa tuttavia non quale unità di senso compiuto, ma sempre all’interno di quell’imperscrutabile affresco – sta volta sullacalce dei fatti–  del quale non possiamo tristemente riconoscere che tragici dettagli: le bombe a grappolo, gli arsenali, il filo spinato, le deportazioni. Il pessimismo di Laura Caccia, in questa sezione, si mostra alla massima potenza, in particolare quando riconosce il tratto dominante dell’umanità: lo stupore impotente, “che non si oppone / alla caduta”, preferendo rintanarsi in solitudini simili a baraccopoli avvolte dalla notte. Eppure, la fiducia nei poeti rimane intatta proprio perché, come detto, spetta a loro il compito di non abbandonare l’ignoto alla deriva, per tramandarlo alle generazioni future, affinché insegnino che la caduta può anche essere un punto d’avvio, non per diventare noi divinità, bensì pienamente mortali, col nostro tempo della dissipazione e della gioia, con la nostra voce temporaneamente sospesa tra l’ora e il domani. Su questa fiducia, Laura Caccia fa quadrato, senza misticismo, in un durissimo testa a testa con lo stile e con la storia, conflitto che sintetizza perfettamente quasi all’inizio del libro: “tra incontri / e metamorfosi,  una lacerazione / alle prese con la propria //  estraneità fa crescere / i suoi nomi”, senza mettere radici. D'altro canto la poesia non può abbandonare l'estraneo che grida, piange e gode dentro di noi perché questi ne è il suo lievito, la sua garanzia.



in D'altro canto (Anterem 2012)

                   d’altro canto la poesia non può…
                    … abbandonare l’ignoto alla deriva



Giungono notizie dall’ignoto,
paragonabili a un’emozione quasi
vicina alla vita  A prendere
in prestito luoghi comuni, le folle

innominate, l’inizio
capovolto che appoggiamo
davanti agli occhi  In contumacia
è il cielo  Da tutti i sensi sfida

l’accadere un giorno segnato
dalla sua moltitudine, i campi minati
su cui infuria  Nel corso
degli arbitrii, intonature d’esistere

spalancano finestre disegnate
dai nostri sguardi  Creature reciproche
tra i frammenti umani, abusi
di affresco sulla calce dei nomi



***


Si specchia nella sua metafora
il paragone che disorienta
i vivi  Dal finestrino di un treno
come un contrattempo

tra le costellazioni incontabili
Verso le piazze trascritte e imperturbate
una contesa che si infrange
al nostro abbraccio  Non il respiro

delle cose al canto
di un’umanità contromano,
gli orizzonti dei boschi, le amnesie
delle nubi  Dove condivide

la lievità il suo eccesso
mortale con le apparenze svendute
al sangue  Dai preludi di ciò
che non appare



***


Come può contraddirsi il dolore,
suscitare diffidenze a cui si annodano
omissioni, stupori  Quando
ogni prospettiva si smarrisce

tra le insegne incessanti delle storie
in primo piano  Un a capo
imprevisto, a dispetto delle rive,
si sgretola nell’entroterra

dove gli occhi rifrangono figure
in tempo reale  Tra incontri
e metamorfosi, una lacerazione
alle prese con la propria

estraneità fa crescere
i suoi nomi  Come il mare o l’esilio,
lo sciabordio che colma
ogni anfratto e non vi pone radici



***


Diventa preda dell’umanità, volge
il viso intracciato prima
della sua allegria  Se riverbera,
nell’inapparire di questa

stagione, il canto della luce 
su un angolo di ramo, nei suoi petali
fermi  Tra grammatiche
ed eresie e il vento che le assolve

dagli odi umani  Cosa accolga
ogni emozione e non soccorra felicità
sulla sponda dell’opera
Tutta la leggerezza che occorre

non può abbandonare l’ignoto
alla deriva, fiori selvatici o acque iniziali
Tenendo conto della gioia
e delle voci di cui siamo capaci



***


Il vivere transitivo dell’ignoto, 
tra crimini e premura, nel sedurre
la primavera che contraddice  Verso
a sproposito il suo accadere,  

nella libertà che denuda
la terra su cui cammina  Dove albe
e proiezioni corrodono
gli schermi, l’inconosciuto

nutrito passo a passo 
Di quanti abbracci fa del mondo
naufragio, nel tacito chiarore
delle foglie a sbocciare

fatica e un nulla
innumerevole  In rotta di collisione
col suo vuoto, controvento,
strappa le vele, sposta i moli



***


A chiedere troppo si espone
l’indicibile, allo stremo delle forze
il suo incessare  Dove è
abisso quotidiano, un chiodo fisso

lo interpella  In ogni immagine
capovolta in apertura a cancellare
gli esiti indifesi  Da qui
e ovunque senza orizzonti

che la privazione non conduca
al suo canto  Come febbre
la pienezza che si conviene, eppure
insospettato è l’inizio

in una significazione vulnerabile,
opportuna  Cataste di tempi
e vuoti a smuovere tenebre, calore 
Desideri, se nominare accade


Qui sul suo libro precedente.

Convegno su Silvano Martini

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POETICHE DEL PENSIERO
  

Biblioteca Civica di Verona, via Cappello 43
Sala Farinati
Sabato 17 novembre, ore 10.00

TRE TEMPI PER UN CIELO
Incontro con la poesia, la prosa, l’estetica di Silvano Martini (1923-92)

RELATORI
Stefano Guglielmin  Il “difficile” nella poesia di Martini
Agostino Contò  Le carte di Martini in Biblioteca Civica
Paolo Donini  Apparire all’abisso. Incursione tra gli scritti d’arte di Martini
Tiziano Salari  La nuda vita nella prosa di Martini

Gli studenti del Liceo delle scienze umane Montanari di Verona
dialogano con i relatori e mettono in scena
alcuni testi di Silvano Martini


A cura di Flavio Ermini e Ranieri Teti

Ulteriori notizie e programma completo del convegno sul sito:


Un assaggio da Esecuzione (Anterem, 1991)



1

contrasti di ghiaie nel percussore lo salva il giro
della pista niente proponeva la pioggia sul braccio
dormiamo insieme nell'oro incerto che scompiglia
benne tramagli e carmeli d'ossa

bandiere e lini esitando sgretolano il racconto
insistito limone che divampa se più non canta
per un transito d'anni nella respirazione domestica
stivale in varianze per visitazioni



A proposito dell'Inno nazionale

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L'inno di Mameli è un canto ispirato al bisogno di libertà dallo straniero. Mameli infatti fu un irredentista, che collaborò con i milanesi durante la guerra contro gli austro-ungarici e fu con Garibaldi e Mazzini per liberare Roma dai francesi e dall'assolutismo di papa Pio IX.

Divenne inno nazionale provvisorio nel 1946, per volontà del ministro della guerra Cipriano Facchinetti. Tale provvisorietà è tuttora in atto, non essendo ancora inserito, nell'articolo 12 della Costituzione repubblicana, un rigo che lo confermi in via definitiva. La consuetudine, tuttavia, aveva deciso da un pezzo la sua funzione: quell'inno, musicato da Michele Novaro, già si cantava nei momenti più patriottici del Risorgimento, sino alla Resistenza ossia in circostanze di guerra o, perlomeno, di organizzazione ideologica delle coscienze in funzione unitaria. Infatti il canto, composto nel 1847, è fortemente bellicoso, così come voleva il romanticismo politico del XIX secolo.

Speravo che fossimo usciti dall'idea che la guerra fosse la linea conduttrice della nostra storia. Speravo che la vittoria fosse sulle ingiustizie sociali ed economiche, non espressione di un dominio coloniale (perché questo fu la vittoria romana sui cartaginesi) e sulla volontà di umiliare gli sconfitti (tagliare la chioma, ha questa funzione). Speravo che la lingua dell'Italia nuova fosse autenticamente umile e sincera, manzoniana al limite; non certo pomposa e retorica come quella del povero Mameli, giovane dell'aristocrazia sarda: piacerà forse perché tanto simile al politichese? Non sarà che il Risorgimento sta ancora patteggiando il potere con l'aristocrazia contemporanea,  non tanto di sangue, ma di toga (da intendersi non in senso giuridico, ma corporativo)? Probabilmente i governanti di oggi leggono "per Dio" non come un'esclamazione di un giovane entusiasta, ma quale complemento di fine: si vuole forse la guerra santa, la vittoria non tanto su un nemico terrestre, ma sul male ontologico?

Forse è il caso che, chi ha deciso l'obbligo d'insegnare l'inno a scuola, definisca meglio l'antagonista. E poi: davvero vuole che insegniamo l'integralismo religioso, il colonialismo, la retorica, l'odio verso gli sconfitti?

Non credo che la classe dirigente sia consapevole di tutto questo. Se lo fosse sarebbe diabolica; semplicemente usa la leva del sentimento patriottico perché è la via più facile per trovare l'unità nazionale, dopo che si è mostrata totalmente in difesa e dei grandi capitali finanziari e della Chiesa nostrana. Qui è davvero diabolica, ma io non gli proclamo la guerra santa. Sono un democratico pacifista e credo nella libertà di parola e nella necessità di informazione. Anche di insubordinazione, se necessario.




INNO di MAMELI


Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò


Matteo Bianchi

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Gli "schiocchi di merlo" montaliani diventano Fischi di merlo nell'omonimo libro di Matteo Bianchi, e la parola da chiedere ai poeti, sempre sotto l'ala degli Ossi, si coniuga alla prima persona singolare: "Codesto solo oggi / riesco a dirti / e macchiato di realtà, / corrotto forse, / o meglio, distorto: / non so chi mai / mi cercherà / prima di rovistare / in qualche sillaba acerba."

Malgrado un citazionismo colto, con Saba, Ungatetti, Pascoli, Raboni, Verga disseminati nei versi brevi, il limite di questo libro sta proprio nell'acerbo che si respira di tanto in tanto. Certo l'età ha la sua parte in tutto questo (Matteo è nato nel 1987), circostanza che lo porta a raccontarsi usando una poesia dal forte impatto comunicativo, ma rinunciando sia alla ricerca stilistica – possibile anche nella linea sabiana, come dimostrano alcuni poeti nati negli anni Settanta e Ottanta – e sia all'azzardo che, alla sua età, ci si aspetta quando si dice amore. Specie se tormentato. Il fatto è che questo giovane poeta ferrarese è un moderato per scelta, un bravo ragazzo che pensa alla poesia come un luogo carico di nostalgie, dal quale lanciare messaggi (molti infatti i testi con dedica). La preoccupazione comunicativa costringe l'elemento tensivo ad acquietarsi in un ritmo regolare, immersivo, al fine di essere compreso. Non c'è nulla di male in tutto questo, ma certo risulta assai innocuo rispetto alle lacerazioni che stiamo vivendo. E che un lettore attento si aspetta dalla poesia, per andarla a cercare. Non bastano le sillabe acerbe o i fischi di merlo per chiedere udienza in un panorama poetico ricco come quello italiano; si pensi, per restare nell'area generazionale, a come piantano il coltello nelle contraddizioni della loro città Nader Ghazvinizadeh e Roberta Sireno, parlando di Bologna.

Più convincenti mi sembrano i suoi lampi definitori, gli improvvisi in cui l'identità si dà scacco, ma senza troppo piangersi addosso: "Sono beato / tutto sommato / di questa calda / tacita oscurità" oppure "Non c'è sollievo / a questa nostra fine // Entrambi saremo / almeno tutt'uno / con i nostri / disincantati / secondo fini". Quello che da lettore chiedo a Matteo è che la sua parte animale, quel lupo che ciascuno nasconde, come scrive a pagina 16, finalmente prenda la parola per dialogare con la sua intelligenza, così da forgiare strutture snelle in cui labirinto e passione, letture e selva siano amalgamate dallo stile. Colloquiale, certo, ma come di voce che cammina sui carboni ardenti.


Molto diversa è la lettura di Mario Specchio (1946-2012), che insegnò Lingua e letteratura Tedesca all'Università di Urbino e Siena.


«Non sono accattivanti queste poesie di Matteo Bianchi, al contrario. Graffiano con la precisione di un diamante la cui luce trascorre sulle cose prima di ab­bagliare gli occhi di chi le guarda. C'è una saggezza amara e antica in questo giovane poeta che sembra aver diluito il futuro prima ancora di averlo vissuto e mostra la maturità di cui parlava Mauriac quando scriveva che si ha l'età delle proprie sofferenze. Matteo Bianchi ha introiettato la lezione di Montale e gli "schiocchi di merli" del poeta ligure sono divenuti 'fischi', suoni prossi­mi alla vocalità eppure sempre trattenuti in un al di qua della coscienza dove la città e le sue strade sospese in una magia dimessa, gli amici e gli amori, i ri­cordi e i presagi parlano solo quando tutto è stato detto e le parole sono chia­mate a testimoniare, attraverso un gioco di echi e di rimandi analogici, ciò che resta di quel silenzio: "Ciascuno nasconde un lupo / che schiva la vista altrui / e si ripara alla penembra, / nell'armonia dei sensi bui." È questa dimensio­ne 'notturna' che colpisce in queste liriche, ma proprio perché il buio non ar­riva mai ad annullare la luce bensì ne rende più perspicua la trasparenza: "Si impara a masticare / pure la polvere lunare: / il peso dei sogni caduti." Matteo Bianchi si è sottoposto ad un duro e periglioso apprendistato, quello che pren­de le mosse dal segno meno, dal negativo della vita e della storia e lo ha fatto con determinazione e consapevolezza. Consapevolezza anche di possedere strumenti espressivi già straordinariamente affinati e resi lucidi da una sa­piente miscelazione di passione e rigore entro cui la sordità della vita e il cru­dele arbitrio della morte si annunciano minacciosi, ma altrettanto vigorosa è la difesa apprestata dalle parole, una corazza morbida come la pelle e resi­stente come cristallo di rocca, "ma la mia pelle sarà dura / la mia pelle sarà di ghiaccio."»


Per chi volesse farsi un'idea personale, l'ottima occasione è a portata di mano: martedì 20 novembre, al Bistrot di Venezia, il libro sarà presentato da Paolo Ruffilli, editore e notissimo poeta. 




da Fischi di merlo (Edizioni del Leone, 2011)



I merli si prendono gioco del mio quartiere
cantando prima ancora che albeggi.
Risparmiano a chi dorme di sasso
lo sconto duro della sveglia
e dei sogni remoti,
difficili da riportare alla mente:
sono spasmi del cuore
da lasciare intorno agli occhi,
fuori dal quadrante.
Meglio un fischio di festa,
conscio però del suo tentativo
di volare oltre ai balconi di panno,
prima che riparta il giorno;
come al disco in vinile manca una nota
o la ruota non si adatta alla strada,
così la penna alla carta,
alla schiena del merlo,
rovente si stacca.



**


Semmai incerto,
hai avuto fortuna
qualcuno ti cercasse,
prima di ascoltarti
sugli scabri scalini
di troppe lune passate
ad indagare
il tuo limite disperso.

Codesto solo oggi
riesco a dirti
e macchiato di realtà,
corrotto forse,
o meglio, distorto:
non so chi mai
mi cercherà
prima di rovistare
in qualche sillaba acerba.
Scrivo per me,
anzi, per quello migliore
che ha partecipato
sin da principio
meno degli altri
e tu sapevi bene
quanto invece conterà;
quello che sta dietro
le quinte dell’animo
e tira il fiato per noi:
serba per te, per l’altro,
per tutti i figuranti
e solo, infine, per sé
un mestolo di ambrosia
e di nettare pulito
dalla fragile accozzaglia
che ci è davanti.



**


Ciascuno nasconde un lupo
che schiva la vista altrui
e si ripara alla penombra,
nell’armonia dei sensi bui;
ma quando appare la luna
il dannato cosciente
evade dalla norma
e balza tanto in alto
quasi da afferrarla,
l’ispirazione a volare via.




**


Sotto il tono dello slancio
andava il semaforo
e iniziava a lampeggiare;
autorizzavo il mio passaggio.

Quando si storce un ingranaggio
e si è distratti dalla posta in palio,
sfugge un istante al guinzaglio
per uno scherzo di senno
che non afferriamo …
i remi si incagliano
nei tralci fioriti della discesa,
la canoa molla il guado
e svampita
la Speranza di una vita,
in prua, nostra compagna
si dà alla fuga
un poco annaspando.

Si rassereni, Lei,
che leggerà questi versi
caduchi in altra forma,
ricordando Sé sulla riva
che mi guardava
mentre affondavo,
scomparendo nel fango.



**


Penavo nel farti bastare
la mia poesia interpretata;
ieri non ti tastavo,
oggi nemmeno ti sfioro.
Avrei obbligato tutta la vita
frusciare nelle fronde,
per aiutare
le tue ali straziate
a ritrovare il salto,
non la salita.

Si agitavano i rami intanto,
l’erba trasaliva
e il vento scrosciava …
a colmarmi, il fogliame
dei nostri silenzi
distanti un paio di passi.
I fiori di ortica estasianti,
venuti alla luce a fatica,
vermigli, cocenti
in fuga dal padre:
Efébo taceva nell’arsura
che mi imponeva.

E i ramarri sulle rocce
a sangue freddo,
si godevano le larve
delle cavolaie indifese,
cangianti.



**


È una folle impresa
andare a caccia dell’amore
che ha tracciato l’altro me
come brezza sulla sabbia
dalla violenza della risacca lontana
pochi tratti, qualche ruga …
e un momento dopo è svanita,
è uscita dal bagnasciuga.
È un’assurda pretesa
il desiderio così distinto
nel mare caldo del compagno:
il mio egoismo ha vinto.
Se fosse poi una pozza amara?
Che importa, pesa la quiete
del vento camminato insieme,
non la fanfara della corrente.
Proverò allora di continuo.
Almeno ora …
finché l’anima mia non avrà scordato
l’onda che si schianta tra gli scogli
da un dì all’altro e per sempre
compagna eterna di una vita assente.




**


Perché a volte
fa così ribrezzo
essere ciò che siamo?
Uomini
e nulla più?
I fili d’erba
avvertono la debole brezza
solo quando accarezza il suolo.




**


Avere la via tutta per sé
possederla seppure scomoda,
ciottolata assolata
là in mezzo al paese.
Avere intorno le case
ad altezza d’uomo,
alla tua misera altezza:
quella quotidiana
che scansi davanti alla specchio
ogni mattina.

Le rondini accaldate
scendono a terra,
non giocano
sul marciapiede del viale
e la gente è ai balconi,
affacciata alle finestre ingiallite
delle case basse del porto.
Un’assurda indifferenza
ti attraversa, ti pervade
il fragore schivo del mare
frammisto all’intimo odore
degli usci delle case.
Perché continuare
a camminare?
Mi voglio fermare.



Matteo Bianchiè nato nel 1987 a Ferrara, città nella quale si è laureato in Lettere Moderne; oggi studia Filologia e Letteratura italiana presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. A. distanza di tre anni è andata in ristampa la sua prima rac­colta: Poesie in bicicletta (Este Edition, 2007): terzo premio Niccolini '10, fina­lista al Premio Rhegium Julii '08. Ha inoltre ottenuto buoni risultati in vari con­corsi letterariper l'inedito - a livello nazionale - vincendo due edizioni del Premio Caput Cauri '09 e '06, nonché diverse edizioni del premio cittadino Dante Alighieri. Suoi testi sono apparsi nelle antologie poetiche Svuotatasche dell'anima '10, Sedici poeti ferraresi emergenti '09, Città della Spezia '08, e nelle riviste Alpha Litterae, Isola Nera, Poeti e Poesia e L'Ippogrifoperiodico ufficiale del Gruppo Scrittori Ferraresi. Ha fondato l'Associazione Culturale Gruppo del Tasso insieme ad altri giovani artisti, della quale è presidente. Ultimamente tiene la rubrica di cri­tica d'arte Icaro sulla rivista letteraria II libro volante (La Bancarella Editrice, Piombino), collabora con SITI, trimestrale di attualità e polìtica culturale dell'Associazione Città e Siti Italiani patrimonio Mondiale Unesco, e ha prefato la silloge Poesie dimenticate (TLA, 2010) dì Gìosuè Arnone.

Ma scherziamo?

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Vi siete accorti dell'incredibile salto nell'Europa che ha fatto Sanguineti con Laborintus? E del modo straordinario in cui poi ha coniugato la deriva storica con quella personale negli anni Settanta? E della Ragazza Carla, che ne dite? L'avete letta? Avete colto la complessità del poemetto di Sereni Un posto di vacanza? Tornare alla semplicità? Sì, forse, ma con le nevrosi di Saba e Penna, con la montagna di libri sulle spalle di Caproni. E Zanzotto? Pare che non abbia epigoni oggi.

Non è facile scrivere dopo questo cimitero portentoso? Beh, allora, si smetta o resti tutto nel vostro cassetto, ma non mi si dica: "questa è poesia" perché si sta offendendo il pensiero luminoso di una tradizione che probabilmente non conoscete. Oppure siete troppo presuntuosi per non sentirne la grandezza e non vi accorgete che i vostri versi sono acqua stagna, cispe, escrescenze per dermatologi, macchie da mettere in candeggina. E a voi che siete un passo più avanti, dico di avere l'umiltà, ma soprattutto l'ostinazione per cercare, senza sedervi soddisfatti alla prima rima ben riuscita e dirvi poeti soltanto perché avete vinto un premio. Ma dov'è il tormento, l'insoddisfatta febbre che tiene viva la voce? Comunque sappiate che non si è mai poeti, non lo si è mai abbastanza. E alla fine di ogni testo, non lo si è più, sino al prossimo, se viene. 

Serve leggere ai poeti?

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Nel post precedente si ragionava, en passant, sulla relazione lettura-scrittura. O meglio: sull'importanza della lettura per chi voglia cimentarsi con la poesia. Riprendo l'assunto da un libro di Daniele Barbieri, Il linguaggio della poesia (Bompiani, 2011). In breve: la scelta del linguaggio quotidiano dei Crepuscolari si comprende solamente dal confronto con il preziosismo dannunziano. La bufera dei futuristi apre una terza via, "irriverente" dice Barbieri a pagina 157, che si smarca dalle due precedenti, che le nega, in nome del presente, non più languido, ma energico, elettrizzante. "Ogni passaggio – scrive poco più in là – ha ridefinito la norma". Tesi convincente, che appunto presuppone consapevolezza: scrivere del quotidiano, oggi, non ha infatti la stessa valenza di quando lo faceva Gozzano. Tanto più dopo gli studi francofortesi sul rapporto tra linguaggio e ideologia e la pratica che ne ha fatto la neoavanguardia italiana. La lettura aiuta a capire questa complessità. Insegna a essere prudenti quando usiamo la lingua, e non soltanto per la nota ragione secondo cui è lei, piuttosto che noi, a parlare; dobbiamo essere prudenti perché esiste una tradizione autorevole, un canone, che condiziona il senso di ogni parola che scegliamo (e dalla quale, in parte, siamo scelti). Canone, ossia poesie che sono il meglio che ha prodotto una generazione. E di generazioni, da Dante a oggi, ne sono passate parecchie. Se diciamo "amore" dobbiamo sapere come lo pronuncia Petrarca e Tasso e Leopardi e Foscolo e Pascoli e D'Annunzio eccetera. Un eccetera che arriva a De Angelis e a Mariangela Gualtieri. E a tanti altri, come ben sa chi legge.

Tuttavia la conoscenza non fa nulla di nuovo. La conoscenza mette ordine all'esistente, aiuta a vivere. Fa del lettore, un buon lettore. La poesia buona la scrive invece chi ha talento. Ma chi ha solo talento, al massimo fa i fuochi d'artificio, va a capo con grande intuizione, indovina qualche metafora. Anche chi ha talento deve sapere che la bellezza della lingua è un fatto culturale, che passa per il sublime e l'antisublime, per la rarefazione celeste e l'orrido, per la forma e per l'informe, come ben dice Rimbaud nel 1871. La lettura aiuta a districarci in questo labirinto; il talento a fare il salto nello spazio bianco della pagina per dare vita a qualcosa che vale la pena di leggere.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma chi stabilisce le gerarchie del talento? Rispondo: vogliamo dire che Dante non aveva talento? che Leopardi poteva fare l'idraulico? Che Sanguineti è stato solo un docente coltissimo che ci ha abbindolato con i suoi coup de théâtre? Scommetto che su Sanguineti il dubbio qualcuno lo avanzerà. Anche in quel caso occorreranno parecchi libri per fondare l'obiezione, che dovrà nascere dal confronto con quanto si scriveva alla metà degli anni cinquanta e agli inizi degli anni settanta, due momenti decisivi della storia poetica italiana. La sua scrittura ha senso se contestualizzata con quelle precise tensioni storiche e letterarie. Non si fonda in esse, ma è capace di lasciarle essere nelle sue crepe. In altre parole, ha dovuto immergersi in esse, conoscerle e farne esperienza, prima di prendere la parola. Il talento, poi, ne ha indirizzato la forma, che non è contenitore, non lo è mai, bensì bordo estremo di un sistema tensivo in cui l'autore, ciascun autore, al tempo stesso si riconosce e si disconosce. L'insoddisfazione per la propria opera e il desiderio di riformarla, nascono da qui.


Note su una poesia di Silvano Martini

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Proviamo a leggere una poesia "difficile", di quelle che oggi non piacciono?

Propongo, per questa volta, di entrare nella poesia d'apertura di Esecuzione (Anterem 1991) di Silvano Martini, una poesia difficile, ma che ci parla se davvero le diamo la parola.


Ecco il testo:

1.

contrasti di ghiaie nel percussore lo salva il giro

della pista niente proponeva la pioggia sul braccio

dormiamo insieme nell'oro incerto che scompiglia

benne tramagli e carmeli d'ossa



bandiere e lini esitando sgretolano il racconto

insistito limone che divampa se più non canta

per un transito d'anni nella respirazione domestica

stivale in varianze per visitazioni

(Silvano Martini, Esecuzione, Anterem 1991)


In poesie di questo tipo, totalmente frontali, si entra piano piano, evitando la decodifica sintattica, almeno nel primo approccio. soffermiamoci invece sull'analisi lessicale 

contrasti di ghiaie nel percussore lo salva il giro

della pista niente proponeva la pioggia sul braccio

dormiamo insieme nell'oro incerto che scompiglia

bennetramagli e carmeli d'ossa


bandiere e lini esitando sgretolano il racconto

insistitolimoneche divampa se più non canta

per un transito d'anni nella respirazionedomestica

stivale in varianze per visitazioni


ordiniamo i termini per famiglie semantiche:

termini legati al lavoro meccanico
ghiaie, percussore, pista, benne, sgretolano

termini legati al sacro (per via metaforica o diretta)
tramaglio: rete da pesca San Pietro;carmelo: giardino e monte (rinvio biblico, così come visitazioni);oro: luce, preziosità (qui però è incerto); lini (sudario)

termini legati alla linguistica
racconto, canto, varianze

termini legate al corpo
braccio, dormiamo insieme, ossa, respirazione,
stivale (legato al transito: stivale quale metonimia del camminare?)

in sintesi: in questa poesia quattro, forse cinque, fili si intrecciano:

-il lavoro percussivo, che sgretola
-il corpo, che dorme (ma forse è morto: sudario)
-il sacroincerto / esitante
-la parola: che non canta. Che si dà nelle varianze.
- C‘è un quinto filo, appena accennato: le patrie (nella metonima delle bandiere)


fili che comunicano, proprio per la loro caratterizzazione
instabilità, frantumazione, avvertimento del pericolo


Chi produce la questa mancanza di unità, di
certezza (esistenziale, ontologica, semantica?)

Ce lo dice, con una frase sintatticamente perfetta (chiara perciò al pubblico ordinario della poesia) la cesura tra la prima e la seconda strofa:


contrasti di ghiaie nel percussore lo salva il giro

della pista niente proponeva la pioggia sul braccio

dormiamo insieme nell'oro incerto che scompiglia

benne tramagli e carmeli d'ossa


bandiere e lini esitando sgretolano il racconto

insistito limone che divampa se più non canta

per un transito d'anni nella respirazione domestica

stivale in varianze per visitazioni



(cui corrispondono la scienza e la tecnica, la religione, la politica, l'esistenza)

che cosa è dunque difficile, sotto il profilo della ricezione emotiva, nella poesia di Silvano Martini?

- accettare il fatto che la contemporaneità abbia perduto un orizzonte di senso condivisibile. Ossia che

- il senso della Storia si dissemina nelle interpretazioni delle storie, sempre parziali,
sempre in via di ridefinizione.

-  Tutto questo ci spaventa.


• Il lettore vorrebbe un testo compiuto per compensare il contesto frantumato. Ne ha antropologicamente bisogno (da qui la fortuna di testi immersivi, di facile comprensione).


Silvano Martini nega questa via perché compromessa con la nevrosi storica contemporanea. E' una posizione che  dialoga con la neoavanguardia e i percorsi legati a "Tam Tam"; si inserisce perciò in una tradizione, come ogni poesia che sia leggibile.


•Crede che poesia e verità si diano insieme. E verità, qui, significa: crisi del fondamento (Dio è morto ci spiega Nietzsche; non soltanto neoavanguardia e Tam Tam, dunque, bensì una cultura che attraversa tutto il novecento: una lunga tradizione che prende l'avvio dal nichilismo, ma che non è soltanto questo, come vedremo tra poco)

Consegue a queste premesse:

•Compito della poesia è consegnare la frammentarietà del reale, secondo mappe dettate dal desiderio.

•In quanto struttura tensiva, il desiderio parzialmente ricompone il frammento, ne toglie l’insensatezza.

Ma davvero Silvano Martini ci lascia in dono soltanto il desiderio? Non c’è nessun’altra salvezza?

Riprendiamo il testo:


contrasti di ghiaie nel percussore lo salva il giro

della pista niente proponeva la pioggia sul braccio

dormiamo insieme nell'oro incerto che scompiglia

benne tramagli e carmeli d'ossa



bandiere e lini esitando sgretolano il racconto

insistito limone che divampa se più non canta

per un transito d'anni nella respirazione domestica

stivale in varianze per visitazioni


Nel terzo verso (e il 3 è un numero fondamentale nella tradizione occidentale) troviamo un verso di senso compiuto e molto lirico:

dormire insieme nella luce che scompiglia  (per quanto incerta)


nel sesto verso (3+3)
 troviamo il limone, il giallo della sua luce (un richiamo, forse, ai limoni montaliani, alla loro forza contrastiva nei confronti dell’artificio del moderno)


nell'ultimo verso
la chiusa apre alla visitazione, una delle più importanti scene di speranza: quando Maria visita Santa Elisabetta, intona il Magnificat, che è il canto della speranza. La sua versione laica potrebbe essere l'utopia di un nuovo mondo.

•Oggi, tuttavia, sembra dirci Martini, non possono che esserci visitazioni, al plurale: l'amore coniugale (v.3), la natura (v.6), l'utopia (v.8), che però, data la crisi del fondamento, non potrà diventare universale, come nel cristianesimo o nel messianesimo marxista: possiamo credere solo in piccole liberazioni, in parziali, ma decisive aperture di senso, brevi come i sintagmi di questa poesia, difficile soltanto se rinunciamo a pensare ossia a metterci al centro della precarietà che questa poesia mette in opera, con fiducia nella possibilità di abitarla in quanto esseri desideranti (con il conseguente, possibile, superamento del nichilismo leopardiano; cfr. la sua teoria del piacere)



Silvano Martini (1923-1992), poeta, è stato condirettore della rivista "Anterem", critico letterario e d'arte. Ha collaborato a quotidiani e riviste italiane e straniere. È compendiato in varie antologie. Ha pubblicato tre libri di poesia, Mareale (1985), Esecuzione (1991), Coronaride (1992) e uno di prosa, Spartito per Clizia (1986), in Anterem Edizioni. Ha scritto i testi teatrali Majakowskij e Kerouac e l'atto unico Planetario, più volte rappresentati. Ha svolto attività di ricerca nell'area grafico-pittorica.

La generazione entrante

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Ne La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Giuliano Ladolfi Editore, 2011) c'è uno spostamento significativo rispetto all'operazione dello stesso Ladolfi quando curò L'opera comune. Antologia di poeti nati negli anni Settanta (Edizioni Atelier1999): là si metteva al centro l'opera, il "comune" che i nati negli anni 70 stavano edificando; qui si mette l'accento sulla "generazione", sul movimento che questa compie: è "entrante" ossia si affaccia anzitutto nella società letteraria, portandosi, scrive Ladolfi, un carico di spaesamento e di angoscia, sconosciuti "durante l'intera Modernità".  L'assunto è provocatorio, storiograficamente fragile (si pensi all'angoscia già fortissima nei vociani o, per fare un salto di almeno sessant'anni, al tragico in Milo De Angelis e alla disperazione di Simone Cattaneo, incluso nell'Opera comune); l'assunto è provocatorio eppure sensato, a patto che si riconosca lo "smarrimento tragico della figura paterna" non come una scelta consapevole dei singoli poeti, un rifiuto a inserirsi in una tradizione, ma quale effetto inedito dell'abbandono dei padri nei confronti di questa generazione: mai come ora, infatti, la giovinezza è in pericolo in termini di garanzie sociali e professionali.

Più che di parricidio, parlerei dunque di sentimento dell'orfanità, che attanaglia questi giovani, collocandoli in un limbo dove il presente è tutto ciò che procura dolore e gioia gestibili, una volta compreso che sul futuro non si può più scommettere e che il passato è responsabile di tutto questo. E' la politica e l'economia a lasciarli soli, non tuttavia la tradizione, la cultura, e almeno per due ragioni: 1) Ladolfi stesso se ne prende cura, li studia, li indirizza, evidenziandone, in questa antologia fili comuni e differenze. E così fanno i poeti chiamati a fare da padrini (Antonella Anedda e Anna Maria Carpi, tanto per fare due nomi autorevoli). Per non dire di Matteo Fantuzzi (classe 1979), curatore e sponsor morale dell'iniziativa. 2) l'antinovencentismo è senz'altro un padre presente in queste poetiche del quotidiano e degli affetti familiari, privati tuttavia dell'elemento militante, che costituì la scelta antilirica, per esempio, dei crepuscolari. Oltretutto, questi giovani poeti, ciascuno a proprio modo, si riagganciano a tradizioni europee prima che al dibattito italiano del XX secolo, e, di quest'ultimo, accolgono l'opera anziché l'assunto polemico. Ecco allora che Saba, Penna, Caproni e certi stilemi della linea lombarda incontrano la canzone d'autore e un inevitabile egocentrismo postadolescenziale; per non dire dell'importanza del cinema e, più in generale, della cultura dell'immagine, due esperienza con le quali sono cresciuti, mangiando nutella e fumetti, maneggiando videogame prima che fionde o rane nei fossi.

La natura postideologica della loro parola li porta a entrare senza far clamore, a smarcarsi senza rivendicare una giustizia comune o un posto al sole nelle antologie future; a smarcarsi affinché la loro singola voce risalti al meglio, con urgenza esistenziale ben controllata dallo stile, tendenzialmente asciutto ma non ermetico, dove le cose hanno il loro peso così come le emozioni, talvolta in uno scambio reciproco di proprietà, dove è lo spazio a dominare, mentre – come detto – il tempo sembra scomparso, se non nella sua forma minimalista, di "piccolo fatto vero" come direbbe Sanguineti, eppure tremendamente significante.

Bene dunque l'operazione culturale messa in piedi da Ladolfi e Fantuzzi, con l'invito semmai a decidere se credono davvero al quantum generazionale, visto le infinite pinze con cui il curatore tratta l'oggetto (Fantuzzi: "gli autori si giudicano attraverso le opere e non mostrando la carta d'identità"), oppure se la scelta degli under 30 non sia funzionale a un'idea di poesia, quella appunto fortemente emotiva prima che comunicativa (non sono tutti poeti di facile lettura quelli scelti), esperienziale prima che gnoseologica e/o metaliguistica.

Contiente testi di: Dina Basso, Marco Bini, Carlo Carabba, Giuseppe Carracchia, Tommaso Di Dio, Francesco Iannone, Domenico Ingenito, Franca Mancinelli, Lorenzo Mari, Davide Nota, Anna Ruotolo, Giulia Rusconi, Sarah Tardino, Francesco Terzago, Matteo Zattoni  (in rosso gli autori già presenti su Blanc de ta nuque).


Dina Sasso, da Uccallamma(Voci della Luna, 2010)


Aju na vina
ca sutta a carni nun ci vola stari:
suli nunn’i pò pigghiari
e idda,
buttana,
acchiana a picca a picca,
picchì vola a luci e u caudu.
Ju a chiamu l’autostrata
e u dutturi ha dittu
ca ccon paru di ’gnizioni
si nni cala n’atra vota;
ju però ma scantu:
e suddu fussa a vina poetica
e ddopu nunn’a scrivu cchiù?

[[ Ho una vena / che sotto la carne non ci vuole stare: /
sole non ne può prendere / e lei, / puttana, / sale a
poco a poco, / perché vuole luce e caldo. / Io la chiamo
“l’autostrada” / e il dottore ha detto / che con un paio
di punture / si sgonfia un’altra volta; / io però mi
spavento: / e se fosse la vena poetica / e dopo non
scrivo più? ]]




Marco Bini, da Conoscenza del vento (Ladolfi, 2011)


Ogni volta è come mandare un vetro in frantumi
in un dato frangente, di fronte all’evidenza
di una rotazione nuova della Terra, e fuggire
non si può all’infinito, sgattaiolare come Ottobre
Rosso, sotto il pelo della notte; e perché non farsi ago
da sotto la trapunta, trapassare una molecola
alla volta, spuntare dalla parte del sonno
più sconvolta per disarmarsi nel mattino?
Perché quel che ti tocca è incontrare ancora la luce,
quel che ti importa che il giorno non sia troppo castigo.



Carlo Carabba, da Gli anni della pioggia (PeQuod, 2008)


Gli anni della pioggia

So, well go no more a-roving
so late into the night
G. Byron


Sono passati gli anni della pioggia
e non ho moglie o botte,
siedo allo stesso lume,
dove di notte scrivo, se non esco.
All’università ho trascorso i pomeriggi,
qualche mattina — era gennaio
e il bar era deserto, raccontavi
del modo in cui era morto tuo marito
(tuo figlio era presente) e io ascoltavo.
Lo scorso settembre, in campagna,
la festa dell’inizio dell’autunno, come
l’avevano chiamata
che non andremo più la notte, ecc..
Abbiamo litigato in macchina
incerti se partire
quasi un’ora di strada fosse un viaggio.
Ridevamo al ritorno a cuore pieno
come se poi davvero
fosse l’ultima volta
e non andremo più la notte.
Da qui sono partito
qui dove non arrivo.



Giuseppe Carracchia, da La virtù del chiodo (L’arca felice, 2011)



A te che cima di bellezza e mondo
per prima hai colto con mano sul mio
volto a premura di madre che va
in fondo e non invano rendo grazie
al tuo universo, tu seconda
persona singolare che m’hai preso
ed immerso feconda compagna
universale in te ritrova grazia
il disperso che impara
il buon uso del sale:
rinsalda a condimento la ferita
ed evita di confondere il male
col rosso che disinfetta la vita.



Tommaso Di Dio, da Favole (2003 -2009)

Per le strade


A volte ho talmente paura di cavare
tutto dal quadro che lascio delle
ombre, che hanno l’unico scopo di
chiarire il concetto della mia luce. Sono
le ombre della mia paura. La paura che
non rimanga nulla se non il deserto.
Mario Deluigi favola


Quando vi incontro tutti, vorrei dire cose per la strada.
Fermarvi, seguirvi nei vostri cerchi di pelle.
Erano gli alberi forti, nei boschi, cortecce e tronchi
crescere di radici; incontrarsi per le strade
è come cercare le braccia dentro la terra
scavare fino alla faccia. Io voglio vedere
come guardate la paura di stare tutti insieme
qui, nello stesso posto; cosa è che fa
di un ammasso di tronchi
un bosco.



Francesco Iannone, da Poesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011)


Spesso si viaggia ininterrottamente seguendo
la circonferenza minima tracciata
dalla dispersione di una goccia sull’asfalto.
Come quella volta, era passato qualche tempo,
tu venivi tirandoti appena la sciarpa sul collo
i seni li affliggevi con il peso delle braccia
poi la pioggia colpiva me
che portavo fuori un poco il naso dalla finestra.
Spesso si viaggia solo se arriva un vento
a sollevare via dai cardini le porte
e si ritorna al passo, quello fisico che lascia
sgonfi i muscoli delle gambe e strappate le ginocchia.
Sfinito tutto, così, e io, lieto, contento.



Domenico Ingenito

grāmmatologia del possesso


Segnala il complemento oggetto determinato
stna cosa questa particella persiana
posta oltre la parola, ,
to- mikhaham, come dire
tu- voglio, un modo insolito forse antico
per dirti che ti voglio
pur reggendo sincero il
TU del volerti intatto da questo senso
del possesso che nella mia lingua
gelosamente macchia la tua bocca.
Oscillano litigiosi i grammatici
a definire con rinnovatā scienza
la gmmatica del rā,
che io quando è buio e poche son
le cose che prendono ad ardere nella notte
proverò a dirti, rā dell’ineffabile,
come oro attorno alla parolā
del possesso così sei tsmutata alchimia della voce
che mai rāggiunge il nome per intero.
E s’accorda il nome purāmente immerso
nell’oro che l’avvolge
all’oggetto mai a fuoco nella lingua
nel fondo della gola.
Faremo presto quindi a rāccoglierti
senza macchiarti con le mani,
sottile bocca di rubino,
estrātta da un più antico tempo
che indicare era sublime
solamente con un guizzo dello sguardo.
Ma cosa sanno i tristi grāmmatici
del disamore di questa luce
che trāspone e srādica
l’Oggetto dalla casa nel suo luogo
come una bellezza intatta che mai sprofonda
nel buio della voce?
Cosa saprete mai voi mercanti
di facili illusioni d’imprigionare il Nome
in una nicchia senza luci?
Parlerò allorā di quest’oro attorno alla parola,
e di come impedirā a me
di dire per intero il tuo petto d’argento,
pur senza toccarti con le dita delle labbrā
potrò così infine
accenderti e purificarti nel fuoco vivo.
Ma queste son cose d’altri tempi,
e non ci accoglie più la gente quando spargiamo
magia
per le strāde.



Franca Mancinelli, da Mala kruna (Manni, 2007)


e la ragazza arco
appoggia un piede in aria e congiunge
costellazioni di non generati
al grido che ha rotto ora le acque,
appesa la pelle a un ramo cattura
il vento, è una busta della spesa
di desideri altrui
svaniti in uno sguardo
nel treno del mio sangue
salite



Lorenzo Mari, da Minuta di silenzio (L’Arcolaio, 2009)


A tempo presente

per Umberto Bellintani

Chiaro rifugio
l’ansa della parola
la casetta dispersa
il grande fiume che va lento
verso casa —
non si capisce senza l’ardire
di appiccare il fuoco
in questa golena
(e poi fuoco,
e poi acqua)

l’impossibilità di dire con secchezza
il momento, di vivere
il disastro completo
con poco, eppure
contestare — amare

e a tempo presente.


Davide Nota, da Battesimo (LietoColle, 2005)

Battesimo

Fui iniziato all’arte nell’illusione
di portare un po’ di luce a me
medesimo ed al mondo; mi sbagliavo.
Non so di preciso cosa ho sbagliato:
se certe letture o quell’erudizione
che ricercavo in biblioteche e scuole
tralasciando l’intensità che duole
ad ogni passo sulla riva impura.
Ma il duri finché dura la costanza
è già finito, consunta quella rabbia
aristocratica che mi portavo sulla
schiena, come un masso, quella teatrale
messa in scena che è la vita e non è
la vena, né la poesia…

Ma in questo dopo dopo dopo guerra,
dove la terra è fragile ed i piedi
esausti, a prima mattina serra
la voce un diniego soffuso sotto
pelle, nella carne ardente. E come
vedi non scrivo più poesie d’amore,
né rubo rose alle coltivazioni
industriali per donarmi in qualche modo
un breve lapsus accidentale.
Si va, anzi, si va nell’acqua sporca,
si continua la ricerca nell’epoca
delle fermezze, delle decisioni
inesorabili, mentre inesorabile
per noi è solo il mattino, è questo
scarno tentativo che nel sangue
cerca di salire alle arterie, al cuore.
Ma è un’aspettativa schizofrenica
che in fondo il fondo di rinuncia sfiora
spesso, quando a sera per esempio guarda
il popolo rientrare dalle feste
al mare, dagli chalet che si riempiono
di luci e battiti animali: che si vive
giovani per già dimenticare qualche
cosa di non visto, non vissuto.
Eppure il trauma ce lo troviamo impresso
dentro, come un marchio a fuoco,
come un battesimo insaputo
che soltanto a tarda notte conosciamo.



Anna Ruotolo, da Tuttitudine (2009-2011)


Dovremmo parlarne con una lingua diversa,
o-c-e-a-n-i-c-a
che lasci filtrare cose grandi e cose piccole
attraverso i cassetti del mondo.
Questa sarebbe la via migliore per tutto il tempo.
Qualcuno dice via, way, noi maniera.
Loro vanno, noi abbiamo il dare da una rete di mani
toglierci qualcosa, aspettare il ritorno,
il contraccambio. È che ci trattiene la mano
tesa, le mani nelle mani. Mano che finisce
e non corre in strada. Mano che finisce per restare.



Giulia Rusconi, da l’altro padre (2010)
                                                           
                                                                                 Per Giovanni
seduto su una panchina nel campo del Ghetto.

Eloì, Eloì, lemà sabactàni?


Tutti mi dicono che sono una donna
e bella e che ho spalle ampie
gambe robuste di ferro.
«Cammina da sola ora».
Io non cerco che una mano
grande che mi copra tutta la faccia
non mi faccia invecchiare.




Sarah Tardino, da I giorni della merla (Lietocolle, 2011)


Sono la merla e i suoi giorni,
la maga e l’ombra della rosa,
l’aprile della vendetta sotto mentite spoglie,
la vita che assalta con un segno,
il baro salvato dall’ironica sorte,
la ruota da cui nessuno ha scampo:
sono la fedele assassina!
A chi darò il mio canto se non torna Atlantide
dalla schiuma delle finzioni?
Sono la rapina
L’ape regina che divora Casanova
con un pungiglione di amplessi
e ne fa miele e menzogna per animare eserciti
di plastica alle porte della risacca.



Francesco Terzago

Dedica

Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo
all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio
Italo Calvino, Le città invisibili.

Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén
diceva e mi appoggiava una mano sulla testa
e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il cielo, — l’universo che
non ha confini pensa — a tutte le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
a quante persone, in questo preciso momento,
ed è possibile che sia così — tesoro, lipscén si
staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una
brutta donna come me che piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù vorticando su delle
pietre azzurre come la terra — che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che siamo degli atomi
tenuti assieme senza un apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno sempre, — questi atomi
ci saranno, anche quando io non ci sarò più, —
in questo modo — e non mi potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, — né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io ti aspetterò in una sala
come questa o migliore. E ci sarà un momento in cui
questi atomi si riuniranno e io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la vecchiaia —. E sarai
di nuovo. E ci troveremo assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma, tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non incontrare più la tristezza
di questa vita o il disfacimento. Sonomolto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto stanca. O forse saremo
gli stessi. Un’altra volta come questa,ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l’ennesima volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.

La tapparella abbassata sta vibrando e il chiarore
che la attraversa mette un abaco sul grande tappeto
che ha portato dal magazzino di sua madre. Lei ora non c’è,
così posso fare i conti con i miei novemila giorni di vita.
Mi sembra una cosa ridicola. Un numero tanto grande
per qualcosa di tanto piccolo.
La plafoniera sospesa sul nostro letto
è un mondo di freddo sporco, una molle sfera di polvere
inchiodata al soffitto. Su quella calotta una bufera silenziosa
si flette su un gruppo di nomadi vestiti d’azzurro,
li vedo lì tutti i giorni, che non avanzano di un passo.



Matteo Zattoni, da L’estraneo bilanciato, Stampa 2009.


La disperazione di mio padre


La disperazione di mio padre è anche la mia
lo ripeto anche in quella, non inventa nulla
ancora stavolta, la mia testa trattenuta
come una palla, dalle mie mani incapaci
di farla scorrere entro la pista dei birilli
sono finito in corsia e pulsa il fotogramma
cappello semplice calato e sciarpa alta
mentre esci borbottando uno pensa
di arrivare tranquillo alla vecchiaia e invece…
l’ingiustizia è tutta lì, ma l’angelo
vendicatore che è in me
se ne sta in un angolo, acquattato
s’intestardisce ancora a capire il mondo, lui.


Armando Bertollo scrive su Gio Ferri

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Per poter apprezzare appieno nella loro specifica complessità le cantiche de "L'Assassinio del Poeta", il poema interminabile di Gio Ferri, pubblicato da Anterem Edizioni a partire dal 2003 con i primi nove canti e arrivato nel 2010 al XXXV, è consigliabile, in particolare ai novelli esploratori di poesia contemporanea, aver frequentato un Corso di preparazione pre-poetica. Corsi di approccio alla poesia contemporanea non ce ne sono molti, ed è un peccato, potrebbero essere utili 'traini' verso una 'galassia' di scritture che per lo più rimane sotterranea anche ai potenziali lettori. E' importante che il lettore della poesia di Gio Ferri sia preparato, perché solo così potrà riconoscere e apprezzare appieno le continue citazioni, parafrasi, allusioni, mascheramenti, che ri-portano nel con-testo 'materiali' da tutta la tradizione in versi italiana e occidentale. Si fa molta strada nel testo percorrendo versi ottonari e novenari, la metrica tipica della cantata popolare, ma poi si incontrano altre forme di messa in scena della scrittura, che ci conducono anche alla prosa poetica e alle sperimentazioni linguistiche di tutto il Novecento. Si incontrano in questo viaggio dal tono parodistico e 'picaresco', tracce di classici greci e latini, del 'dolce stil novo', della Divina Commedia, dei poemi cavallereschi, della poesia barocca, del Leopardi delle "Operette morali" e poi del simbolismo, del surrealismo, del teatro di Beckett, delle neoavanguardie... Non è certo scrittura innocua, questa di Gio Ferri, è poesia che prende posizione, che cerca di orientarsi e di orientare il lettore attraverso una premeditata azione di disorientamento. Il paradosso è posto come realtà di fatto. Si vive, in fondo, nel paradosso. La poesia e l'arte non sono, forse, ardite utopie paradossali? Accedere al paradosso e temporaneamente accettare la perdita delle consuete coordinate di orientamento, sperimentare questa vertigine 'dionisiaca' nel pensiero poetante, diviene, in queste pagine, azione terapeutica. Azione che interrompe ogni illusione di verità data, e rivela l'unica verità riconoscibile proprio nel nulla e nel suo 'temporaneo annichilire' nella molteplicità fenomenica, in questo caso dei significanti/significati, in piena coscienza della lezione di Andrea Zanzotto. Il viaggio dell'attempato Commissario alle prese con una serie di omicidi che lo portano ad indagare nell'ambiente della poesia, non è lontano anche dal rinverdire atmosfere felliniane. Dalle quali poi diventa naturale ritrovarsi in una specie di moderno 'satyricon', ricco di avventure erotiche più immaginarie che reali, appunto, surreali. Ci troviamo in un intreccio di piste e trame sempre fuorvianti, che rimandano sempre ogni possibile soluzione. Eppure emerge chiara in tutta questa complessità la situazione problematica in cui si trova la poesia e l'arte contemporanea. Dove è quasi scontato ricordare ancora che il livello di originalità di un'opera, è troppe volte inversamente proporzionale alla sua immediata commerciabilità. Il Gio Ferri poeta, non smette di essere il Gio Ferri critico militante: pur camuffando nomi e cognomi non si sottrae alla sua indole. Con la sua riconosciuta onestà intellettuale, cerca di discriminare l'erba buona da quella cattiva, di indicare al lettore una via, di spiegare ciò che per lui è valore in poesia e arte. Una via, comunque, ed è importante ribadire questo, non una meta. Una via fatta di attenzioni e interrogazioni. E' indubbio che quest'opera sia ambiziosa. Ma non è un difetto. Non può essere un difetto se un autore cerca di lasciare di sé la traccia più completa possibile, di coniugare passione, scienza e conoscenza. Questa è un'azione etica. Gio Ferri non si preoccupa del numero dei suoi lettori, di certo egli sa che chi lo vorrà leggere fino in fondo, e in questo viaggio, anche comprendere, dovrà avere gli 'attributi'. A un lettore così non mancheranno piaceri e salutari distrazioni, ma anche importanti stimoli per una personale riflessione sullo stato attuale delle cose poetiche.

Armando Bertollo, 12 settembre 2012


Scrive Gio Ferri, a proposito del proprio libro:

L’assassinio del poeta è un enigma, com’è abbastanza normale per qualsiasi assas­sinio. Un giovane è stato trovato morto e sfigurato sui binari della ferrovia. Pare che sia un poeta assassinato. Da chi? Forse da un altro poeta? Poeta è l’assassino o l’assassinato?

Un attempato e ancor piacente Commissario, di media buona cultura, come tutti i Commissari d’altr’onde, s’intromette per ovvie ragioni d’indagine nel mondo della poesia e dell’arte, e riscopre piaceri, diciamo pure estetici, comunque senti­mentali, dimenticati fin dai tempi del liceo. Piano piano, trascurando un poco il suo compito istituzionale, si riavvicina per l’appunto alla poesia. Quasi credeva che in giro non ce ne fosse più. E' vero che trova una situazione assai trasforma­ta, dai tempi della sua giovinezza. D’altronde se l’enigma del delitto potesse mai essere risolto, è in quell’ambiente che può trovare qualche utile indizio.

E gli nasce anche un sospetto: che la Poesia medesima sia la vera colpevole, ai danni di ogni logica (anche investigativa), o discorso comune, cosiddetto di buon senso.

Per ora tuttavia la storia appare interminabile. Si scrive quindi (forse da solo, co­me si usa oggi ritenere) un poema interminabile. I Canti I-IX sono stati pubbli­cati nel 2003 da Anterem Edizioni, Verona, con il titolo L’assassinio del poeta. Chanson de Geste Exécrable.

Qui, con i disegni di Romolo Calciati, si pubblicano i Canti X-XV. Ma non saran­no gli ultimi. Se ne parlerà per lungo tempo, se il trascrittore della vicenda, per sua fortuna, e per sfortuna dei pochi lettori ,a lungo dovesse sopravvivere. Sebbe­ne in una storia di delitti... I lettori di poesia, poi, in genere, sono assai crudeli....

Per chi non lo sapesse (ma chi non lo sa?) il sottotitolo La femme égorgée  è a sua volta il titolo di una scultura surrealista di Alberto Giacometti. Qui è co­munque congeniale ai disegni dell’amico Romolo Calciati.

Alcuni passi dei Canti X-XV sono stati pubblicati in anteprima dall’Annuario Odradek, 2004.



CANTO TREDICESIMO



In cui si narra che il Commissario cerca, invano, di trarre un teorema dai due omicidi ( e loro scarse prove) che, ormai, lo coinvolgono non solo a livello professionale.




Indaga prega minaccia
slaccia dislaccia silenzi:
gli amici amanti e quanti
poeti poetucci pittori
gli attori gli editori
menefreghisti affaristi
libri libercoli, i detti
sottili, le intelligenze


illuse ottuse sprecate,
letture sogni di segni
persi gli umani sostegni.
Mano per mano alle prese
anno per anno e più
mese per mese, eppur l’ora
per ora, analisi mai
arrese. Non c’è indizio


valente giudizio. Una
voragine unprecipizio.
Unica testimonianza
- ed è d’invana importanza? -
quei dolci versi necrofili
dispersi, lasciati ai bianchi
cadaveri — rossi striati
di sangue, anima che langue.


C’è il dono del Vecchio Poeta.
Tace vanito, accecato,
sa, non sa, non vuole, dir
suole: “Sono angeli, angeli”.
e si sfugge con la sua
verità metafisica.
Pur quantunque l’assassino
sia una persona: un poeta?


Oppur che disprezza e spezza
quell’in-sfinita bellezza.
La Giardiniera e Frisette
sono ormai fantasmi come
Ada e Saffo, così colei
che canta l’amore d’ogni
giorno. Seppur trasparenze
idea vaga circomplessa


presenza assente valente
senso entità della mente.
C’è un’incombente gioia
della vita che taluno
non sopporta per l’eccesso
o per solingo difetto.
Troppo ama troppo è amato
oppure mai è pur amato.


Scarnìto nel suo lamento
uccide perch’è ucciso,
evapora perchè ha ucciso.
Dov’è? Ormai si scolora
nella trasparenza dell’aria.
Intorno, vicino, dentro
di me. Che sa? Che amor vuole?
Che mai confessa nelle ore


passionali o maledette?
Ciascun di noi è l’assassino?
Si srotola quel dolore,
l’amore, ad ogni creatura
ogni arsura della mente.
Se dentro mi cerco - come? -
trovo la semenza della
morte? Vita d’ogni sorte.



CANTO QUATTORDICESIMO

Il Commissario incontra il professor Peter March, letterato e psicologo, che gli rivela le contraddizioni della prassi rispetto al mondo inspiegato della poesia. Non c'è compromesso. Il Commissario decide di dimettersi dal suo incarico.


Mister detective, honest man,
my friend, non vi riporrete
viando la conciliazione
pur sempre preindisponibile.
L’umano scibile sa:
carnale senso sol si fa.

                                                 Ma il nostro intuibile nesso?

Curiosa domanda della

corteccia, è frale nella
ragionevole pretesa
d’una riposta risposta
dal rettilio materico
limbo: egli è siccome un
bimbo, dai gesti attivi e
sensitivi impersuasivi.

                                                 Eppure sono le cose

                                                 quello che sono, pur reali
                                                 pur anche consequenziali.
                                                 Molto fatto, molto è dato.


My friend, fare della prassi
non è - com’egli parrebbe -
l' invasivo fare del
poiéin. L’atto irragionato
del limbo nella tua atavica


mente, che mai non si smente,
egli è pluriverifico
plurisensico, oltremobile
sempre verace e ancor sempre,
abile, inverificabile.


                                                 Eppure anche l’istintuale
                                                 poiesi ha le sue ragioni.


Le sue ragioni, my friend,


non le ragioni dei nessi
connessi: le irragioni
di quelle sue vere e a
noi ingannevoli prolessi.


                                                 No! No! La poesia, mi sento,
                                                 ha pur essa il suo buon senso.


La poesia, my friend, è solo
energia.È  stato detto:


" Battito battito transita
l’Energia... Oltranza diabatica
dell’Energia... Il Comun Senso
...pur avverte l' insistenza
brusca a tali taccheggianti
scossoni... E pure impulsa
il Senso Comune, ma...
...ma per avidità... e per


varizia salvadanaia..."*


                                                 Mio teorema! Così la
                                                 poesia non riporta alcuna
                                                 prova e non s’addestra al senso
                                                della logica d’un qual
                                                siasi Senso Comune?


Così è, così è my friend:
o legittimi il buon senso


o disisparisci nella

energia della poetica
follia: in cui sta verità.


                                                Lascio vita e vita e gli
                                                tant’anni bruciati amari
                                               dislacciati solitari.
                                               Ma cerco e ricerco ancora
                                               fuor dai miasmi, a miei fantasmi.



·       Parafrasi sintetica daItto Ittodi Edoardo Cacciatore (Manni, Lecce 1994).



GIO FERRI. Poeta, Poeta visivo, grafico, critico d’arte e letteratura. Fondatore nel 1983 e condirettore, con Gilberto Finzi e Giuliano Gramigna, della rivista “TESTUALE, critica della poesia contemporanea”. Fra le sue opere poetiche più recenti, per Anterem Edizioni, Verona, il primo libro de L’assassinio del poeta. Canti I-IX

ROMOLO CALCIATI. Pittore, grafico, scultore. Fra i protagonisti dell’arte italiana e internazionale del secondo Novecento e dei primi anni del nuovo secolo. Interprete originalissimo del Neosurrealismo e del Neodada. Patafisico fra i patafisici Enrico Baj, Vincenzo Accame, Ugo Nespolo, Roberto Sanesi. Innumerevoli le mostre in Italia, in Europa e Oltreoceano. Sue opere si trovano nella gallerie d’arte moderna in tutto il mondo.



Antonella Anedda

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E se Antonella Anedda degli ultimi anni altro non fosse che l'epigona senza resto di una tradizione che va da Celan a Jacottet, dalla Cvetaeva alla Rosselli, dall'ermetismo luziano al trago-orfismo di Milo De Angelis e Roberto Carifi? Epigona anche del meglio di se stessa, ossia di quando, negli anni Novanta, sapeva coniugare, con uno scarto di originalità sui maestri, l'aspro dell'isola di Maddalena con l'angoscia verso il non senso della Storia, ma anche era capace di trovare l'epifania là "dove il legno segretamente / cede"? Ipotesi provocatoria, forse, eppure non del tutto pellegrina (e già condivisa da Manacorda quando stroncò Catalogo della gioia) se si legge Salva con nome (Mondadori, 2012), volume che tiene strette le tematiche e gli stilemi dei suoi libri migliori (Residenze invernali e Notti di pace occidentale), ma al quale non mancano le cadute, i versi scialbi, le poesie senza lampi né fuochi. 

Si prendano le prime tre: sono deboli non perché, come scrive in un altro contesto la stessa Anedda ne Cosa sono gli anni (Fazi, 1997), nascano dall'intenzione di "usare il linguaggio per bisogno, come si usa un oggetto quotidiano" – con tutto l'assoluto che comporta questa operazione nella sua poesia più felice – ma, direi, per semplice fiacchezza d'ispirazione. Per esempio: "Mette in fila i ricordi" è un verso mediocre perché la metafora è usurata, punto. E come questo ce ne sono altri nel libro. Si veda inoltre la scansione paratattica della prima poesia, piatta perché priva di quel guizzo ritmico e/o fonetico e/o immaginativo che dovrebbe renderla interessante, come invece risulta la più sintatticamente mossa e orfica Cucina 2005, a p.16. Poesia che però convive con altri testi poco lievitati, asciutti non perché celanianamente densi, ma in quanto poveri tout court di tremori; e se ci sono, li abbiamo già letti in altri autori di quella tradizione: veri dunque, ma più di testa che di sentire, più costruiti che nati da una voce in dialogo con il proprio spaesamento. Non si vuole negare la sofferenza, lo ribadisco, bensì la forza di tradurla in stile, "nell'orizzonte di una traiettoria accesa dallo scatto di un grido" come ebbe a dire la stessa Anedda a proposito delle sue variazioni ai versi di poeti da lei amati e raccolti in Nomi distanti (Empiria, 1998). Qualche perla non manca, altissima; tale da salvare il libro e persino da farle vincere il Viareggio: "Dicevano che le morti sognate", "Spazio dell'invecchiare", "Spazio dell'acqua domestica" I e II, "Corsica 1980", alcuni "cori" della sezione Concerto per paura, coro e voci, e la poesia che apre Terra: "se devo scrivere poesie ora che invecchio". In tutti questi versi si respira la grande tradizione che da Hölderlin arriva a De Angelis, e la scuola romana (dalla Cavalli a Paola Febbraro) e si sente il passo creaturale della Anedda che tutti amiamo.

In definitiva: per quanto il libro riesca a trasmettere il sentimento drammatico della perdita, dell'evanescenza, del tempo rapinoso e senza perché, dei legami familiari quali risorse per sopportare la desolazione contemporanea e il gelo delle relazioni ordinarie, Salva con nome esce talvolta claudicante dalla lettura, non all'altezza di una poetessa giustamente entrata nel canone della poesia italiana contemporanea. E lo è entrata per la sua capacità, come scrive Andrea Afribo in Poesia contemporanea dal 1980 a oggi(Carocci, 2007) parafrasando Roberto Galaverni, di "rendere assoluto il rasoterra di partenza e trasfigurarlo nei termini di una lingua enigmatica". Salva con nome talvolta lascia invece il nome per terra o decolla appena, non trasfigura il dato, tanto che il reale della parola, a tratti, è meno reale del mondo, meno profondamente tragico. 


 Qui qui sue poesie e due recensioni più lusinghiere.
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