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Storie vere, storie galbusere

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Chiudo l'anno (e faccio gli auguri a tutti i blanchisti d'Italia) riprendendo un recente commento di Manuel Cohen, che magari è passato inosservato. 


Molto avrei da dire sulla questione della 'consulenza': ma è evidente che in un paese in cui la cultura è considerata una sorta di orpelletto da esibire alla festa del Rotary club, o alla sagra della polenta, e nello stesso paese in cui molti sono invece pronti a buttare tanti denari in beni di consumo o futili, la sottostima del lavoro culturale porta inevitabilmente a conseguenze nefaste: avvicinato da un tipo ad una delle tante presentazioni di libri che (quasi sempre) gratuitamente faccio su e giù per la penisola, mi sono ritrovato tra le mani un peso abnorme di libri (ben 12)... considerando che avrei dovuto fare circa 450 km tra treno, aereo, metropolitana e bus extraurbano, ho chiesto al tipo se, gentilmente, avrebbe potuto spedirmi il tutto a casa... il tipo ne è stato seccatissimo, e mi ha confidato: 'raramente vado all'ufficio postale, non mi fido delle spedizioni, e poi, sono venuto fin qui per portarle i miei libri ( che, naturalmente, non avevo richiesto, non conoscendolo). Morale, prendo il doloroso fardello, e commetto l'errore di lasciare il mio indirizzo e-mail.
Era venerdì. dalla domenica mattina, a distanza di tre ore l'una dall'altra, inizio a ricevere con una puntualità soffocante, mail alla mia casella elettronica: il tipo vuole sapere se ho letto i libri (quando? a cena? a letto? sul treno del ritorno? ) e vuole un parere. A questo punto, molto preoccupato, ripeto quanto già detto a voce: mi occorre del tempo, sa, nella vita faccio ANCHE altro.... Dopo quattro giorni di autentico mobbing, il tipo passa all'insulto: non sono di parola, non sono serio, ed è un crescendo: l'unica arma non-violenta che posseggo è assicurargli che lo leggerò, lo sto leggendo e che cercherò di occuparmi di lui. Cogliendo l'occasione dell'ultimo libro fresco di stampa, assicuro una recensione, sperando di placarlo. Scrivo la nota, gliela invio, e lui mi ringrazia sentitamente (non esimendosi dal consigliarmi di aggiungere qualche aggettivo qualificante, o altro, che naturalmente non aggiungerò).

Due mesi dopo, sono invitato ad un piccolo festival: ad un'ora stabilita, leggerò versi dal mio ultimo libro. Prima di me, legge un altro autore, anch'egli, hailui, critico: bene, alla sua lettura si ripresenta il tipo. Consegna il malloppone di 12 libri, chiede l'e-mail. Mi saluta cordialmente. Sa che tra poco leggerò dal mio libro. Ma questo a lui non interessa minimamente. La sua mission era consegnare la sua opera ad un altro abbordabile critico...

ero basito: neppure un minimo di curiosità per i miei versi. Eppure mi ha pedinato, ossessionato, costretto in qualche modo ad occuparmi di lui: il dramma è che per alcuni non c'è l'altro. C'è l'io, minuscolo, minimo, narcisista e egoista.

Tutto questo per dire che una lezione è sicuramente da trarre: nel mondo delle merci e del profitto sei e vali per quanto sei pagato. Ci sono occasioni in cui sarebbe lecito chiedere una tariffa. Il nostro impegno, il nostro entusiasmo, la nostra passione, meritano (meriterebbero) il congruo apprezzamento. baci,

Manuel Cohen

Sintesi annuale di Blanc (con la classifica dei 10 post più letti)

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post totali:81

poeti italiani: 34

Antonella Anedda, Gio ferri, Silvano Martini, Matteo Bianchi, Luciano Troisio, Giovanni Borriero, Caterina Davinio, Laura Caccia, Roberto Cogo,  Annamaria Ferramosca, Alessandro Ceni, Gabriele Gabbia, Francesca Brandes, Roberta Sireno, Laura Liberale, Silvia Comoglio, Nader Ghazvinizadeh, Camillo Penati, David Maria Turoldo, Alessandra Carnaroli, Fabio Franzin, Amelia Rosselli, Giovanni Fierro, Giannino di Lieto, Elio Pagliarani, Giovanna Frene, Paola Febbraro, Roberto Ranieri, Stefano Massari, Giuliano Mesa, Milo De Angelis, Gian Mario Villalta, Alessandra Cava, Armando Bertollo. 

poeti stranieri: 5

Rainer Maria Rilke, Klaus Kinski, Paul Celan, Kevor Topalin, Maria Gabriela Rosas 


post più seguiti (i numeri indicano i lettori avuti):

Ma scherziamo? 1163
Alessandra Cava 1076
Serve leggere i poeti 752
Amelia Rosselli 730
La generazione entrante 729
Davide Maria Turoldo 555
Alessandra Carnaroli 515
Roberta Sireno 498
Antonella Anedda 470
Gian Mario Villalta 391

media visualizzazioni di pagine mensili: 14000 circa
media entrate mensili: 4000 circa 

Roberto Bertoldo

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L'invettiva è un genere alto, che attraversa la poesia latina e italiana. Per esempio un epigramma di Marziale, nella modernissima traduzione di Mario Fresa (L'Arca Felice, 2011), recita: "Fefe, lo vedi, è rachitico, è palliduccio: / perciò si crede poeta. Povero ciuccio!" (VII, 4). E Pasolini, due millenni dopo, ne La religione del mio tempo, chiama il critico cinematografico G. L. Rondi, "ipocrita", e "spie" gli "apostoli" di Luzi, oltre che accusare i letterati italiani d'essere tardi di comprendonio e ammanicati con i poteri costituiti. Per non dire di Alfredo de Palchi la cui voce, nell'ultimo capitolo di Foemina tellus (Jocker, 2010), prorompe senza timori "in accuse verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli uomini grondanti di malvagità, e le vicende grandi e piccole che hanno fatto la mia storia". "Il rigurgito – aggiunge – mi è venuto spontaneo". E spontaneo è giunta la nausea anche a Roberto Bertoldo in Pergamena dei ribelli (Joker, 2011), nella cui nota egli sottolinea la provenienza della poesia non "dal nostro gusto ma, piuttosto, dal disgusto". Già ne L'archivio delle bestemmie (Mimesis, 2006), la posizione conflittuale era chiara e rivolta, frontalmente, ai poeti italiani contemporanei: "Le vostre divine parole sono da rotocalco, / le mie, così blasfeme e plebee, / le affiggo sulle porte delle cattedrali". Come un epigono luterano, la sua Wittenberg ha invero due porte: i libri di poesia e la rivista "Hebenon", che dal 1996 conduce una militanza autorevole sul fronte del "rifiuto della menzogna e la resistenza all'oppressione", come affermò Albert Camus alla consegna del Premio Nobel, discorso ampliamente citato da Bertoldo in esergo del suo ultimo libro.
Voglio essere chiaro: questa mia non sarà un panegirico a un poeta la cui lirica "si è affrancata dalla civiltà del post-simbolismo consegnandoci uno degli esiti più alti della poesia contemporanea", come scrive Giorgio Linguaglossa ne La nuova poesia modernista italiana (Edilet, 2010), sbilanciandosi più per coincidenza con la propria tesi, piuttosto che per chiare evidenze testuali. Preferisco restare un passo indietro, fuori dalle graduatorie, e descrivere anziché giudicare, almeno nella prima parte di questo saggio. Un primo passo l'ho fatto: Bertoldo prosegue una tradizione importante, che si aggancia direttamente, per sintonie e amicizia, con De Palchi, del quale "I quaderni di Hebenon" pubblicarono una raccolta di saggi nel 2000. Lì, Bertoldo riconosce "lo stile" dell'italo-americano "rabbioso" e "collerico" (esattamente quanto è riscontrabile nella Pergamena) perché "condizionato dallo scontro del poeta con se stesso, con la propria nevrosi". Qui tuttavia la somiglianza finisce perché all'io rancorso, Bertoldo, sostituisce il "noi" agguerrito, i "prediletti" che hanno "abbandonato la vita" per le sue troppe "clausole", che prendono "la poesia per il manico", un "noi" che sanguina, che piange, che vuole "il foglio dove scavare trincee". Una prima persona plurale vestita da guerra, dunque, senza pietà verso un voi che sfuma i contorni, un voi pusillanime, fatto di "uomini mediocri", "infami", servi del potere, contro i quali il poeta si fa martire, scrivendo a suo dire –  la verità. Ossia, appunto, sostenere che il mondo è sotto il controllo di esseri meschini, che, per dirla in un solo colpo, mafiano "la spina dorsale / dei popoli bigotti e sornioni". Una verità certo non nuova, e probabilmente condivisibile, ma che qui assume i tratti di una dichiarazione di guerra simile alla crociata ("vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati"), che dovrà sterminare il capitale e le sue mosche, poeti di regime compresi. Il disgusto, che pervade l'emozione e precede la scrittura, diventa prassi dell'odio, lotta aperta con l'inchiostro contro un nemico-monstrum, macchia esso stesso, lotta che in Bertoldo s'incanala anzitutto nel conflitto con la società letteraria nostrana, in un'azione non individualmente nevrotica, come in De Palchi, perché condotta invocando altri poeti-guerrieri. Poesia infatti "attende alla rivolta", nel senso che la prepara, con un fare creativo che ricorda il progetto dell'uomo in rivolta camusiano. L'autore franco-algerino costituisce non per caso un caposaldo della formazione bertoldiana, così come Leopardi: entrambi, ci ricorda, "sono alle radici della cultura nullistica" di cui egli religiosamente si è fatto teorico fondantore, intendendola quale "lotta contro la morte e contro chi, in un modo o nell'altro, asseconda tale morte. Tutto consiste in questo: vivere e aiutare a vivere, mitigando le sofferenze il più possibile, nonostante la certezza della morte" (R. B., Nullismo e letteratura, interlinea, 1998, p.29). Evidente che l'elemento del dono (“aiutare a vivere”) manca del corrispettivo cristiano del perdono, nella misura in cui il nemico, per Bertoldo, va annientato. A meno di non pensare a un cristianesimo nel quale il sangue degli infedeli garantisce un credito nell'aldilà, a una sorta di medioevo della Chiesa, potremmo dire, che in Bertoldo assume tuttavia l'anarchico respiro di una fede tutta terrestre, un dio-felicità a tutti accessibile, a patto che sia prima condotta una guerra contro i barbari e quanti detengono ora il controllo dei mari. Coniugando Bakunin e Rousseau, il paganesimo e Voltaire, Pergamena dei ribelli incita i soldati, usando il registro epico (immagini plastiche, militaresche, nitide, spartendo gli eroi dai codardi, i giusti dai malvagi), calcando la funzione linguistica persuasiva di una forte carica emotiva, il cui perno è l'aggettivo.
Le mie perplessità sono tra le righe, ma voglio renderle esplicite. La prima è di natura ideologica: scegliere la violenza (anche solo verbale, senza alcuna sordina ironica), sceglierla non occasionalmente, per eccesso singolare e sfogo o rabbia, ma per strategia operativa, per sistema, significa assimilare il metodo del potere, accettarne la logica e, dunque, perpetrarlo. Comunismo, cattolicesimo, capitalismo, anarchia sono identici da questo punto di vista. La seconda osservazione, chiama in causa l'intenso lavoro critico che sta facendo Giorgio Linguaglossa contro la "parola poetica del moderno", rea d'avere rimosso la "carica energetica" tramandataci dalla grande tradizione mediterranea prima della destrutturazione dei linguaggi. Destrutturazione, non dimentichiamolo, che è anche delle categorie gnoseologiche, dell'idea stessa di unità e di verità; l'esaurimento è dunque ontologico, non soltanto storico e psicologico. Io credo perciò che si possa uscire dal tardo simbolismo contemporaneo non per reazione alle poesie addomesticate o troppo esposte sul significante, come pare suggeriscano Linguaglossa e Bertoldo, bensì dando ascolto alle incrinature della contemporaneità. Se da decenni parole come frammento, lacuna, faglia, traccia, soglia– quando sono praticate consapevolmente – vivono fecondamente nella poesia italiana, ciò è dovuto all'appello stesso del vero, che dal Romanticismo ha trovato questo modo d'incarnarsi, in una differenza sia dai saperi positivi, che lo hanno irrigidito in una visibilità solida, monolitica, asfissiante, sia dal chiacchiericcio mass-mediatico, ma anche dal discorso ideologico. Diffido perciò di una parola poetica che pronuncia il vero frontalmente, senza titubanze, tanto più se in quella pronuncia si salva la violenza e si divide, in modo manicheo, chi ha torto da chi ha ragione. Moderno è proprio questo modo di procedere: da un lato i ribelli dall'altro i dominatori, senza distinguere le responsabilità individuali. Non sto difendendo sistemi di potere, ma semplicemente invitando ad una postura differente in merito alla definizione di verità condivisa, altrimenti i vincitori avranno sempre l'ultima parola. Questo soprattutto nel mestiere del poeta, che non può diventare educatore senza sventolare bandiere. I più bei versi di Bertoldo sono, per me, quelli in cui l'io lirico si lascia andare a metafore che trascendono la contingenza, senza perdere carica eversiva: "le stelle litigano sulla carcassa del mare, / spezzano l'appello dei gabbiani" oppure "Noi siamo l'altra fisionomia / dove i tigli agevolano le ombre". Versi nati da un respiro italiano, dove la scrittura scarta dall'oralità, dalla retorica, agendo sul metro, versi culturalmente in debito con la tradizione tardo-simbolista ma non per questo lontani da certo immaginario, anche bellicoso, dantesco e omerico, precedente alla koinè modernista e comunque efficace. Certo questa trasfigurazione potrebbe non bastare. Ci sono urgenze che cercano il grido, la bestemmia o, appunto, l'invettiva, ma credo che essa vada misurata e integrata con altri registri, altri toni, al fine di tenere la scrittura fuori dal proclama, fuori dalla cronaca più evidente, e perciò capace di parlare anche ai posteri e, per paradosso, agli antichi.


Lettura critica uscita con il titolo La militanza poetica nella tarda modernità: la linea bellicosa di Roberto Bertoldo ne "La clessidra" Anno XVII - n. 1-2 - novembre 2012


da Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011



Voi, uomini mediocri…

Voi, uomini mediocri, che rubate
i miei versi cantati a calce,
indubbiamente voi siete la storia
e incutete la miseria sulle porte,
quando la nube lastrica i ciottoli
di impronta umida e fraseggi di luna.
Fate della pena vostra l’inganno
che penetra con le sue dita disciolte
nella bottega dei miei occhi,
orsù padroni delle piaghe,
ci sono nate addosso le credenziali.



Sappiatela la verità…

Sappiatela la verità,
è sufficiente effondersi nello squarcio,
lo spacco della carne gelata
lungo le strade, contro i muri.
Chi occupa l’amore, per venti leghe
di giorni e notti, antec’a l’è
il nullificante, la bestia, carta straccia,
‘na rovina che impilo davanti ai
vostri visi grifagni, e che dico?
anche il ventre che fa vendemmia,
ch’eppure di monete è la vostra
intelligenza, vostra miseria,
la vendita dell’anima –
non c’è che la materia lì,
un po’ di roba da crespelle,
giù sino al foro, ancora,
vi voglio dire, che artisti
vedervi fare l’architettura della Convenzione.



A cosa hanno portato…

A cosa hanno portato quei tagli
nelle pareti della Palestina
e gli oliveti disfatti
come se la religione fosse un frantoio?
Quali germogli avrete
israeliani dall’occhio amaro
dove la terra è reproba
e la luna sempre calante?
La vostra sola fratellanza è da faccendieri
come per il muro di cemento palestinese,
il resto sono le case abbattute
di cui le coperte correggono il vuoto
sulle gambe dei bimbi intirizziti.
Tutte le poesie che accantonano il male
sono il suo crudele risvolto.
Noi vogliamo l’impoetico
se la vostra avidità di gazza
è sottaciuta dagli inni,
si faccia incetta di questo sale immenso
affinché i poeti urlino con le loro ferite
finalmente ecumeniche!



Urlano le tombe di Troia…

Urlano le tombe di Troia
sui figli di Sharon,
il ventre di Palestina ha aperto rose
nel capitale dei corpi,
abbiamo visto le ennesime pupille cadute,
sbriciolate le mani senza più carezze,
e uomini col sedere grosso
fare spazio alla propria sedia.
Tutti i popoli hanno i loro orchi
che declamano la notte
come fosse divisa in sillabe.



Avete appeso…

Avete appeso i colori dove il cielo era nero,
queste che vedete sono mani imperiture però,
macchiate, sia pure, con vernici d’oltre,
ma pronte alla battaglia contro tutti gli dei
che possa la vostra boria.
Anche le nostre labbra sono imperiture,
mica di pusillanimi poeti col cuore in ciabatte,
pure da seduti siamo sfrontati noi operai della parola,
noi vere bestie in agonia sulle greppie,
nelle mense per sfollati. Il parlamento è per i vostri poeti,
noi vogliamo il foglio dove scavare trincee,
anche chi scrive si prende le pallottole
quando trova la bellezza e la innalza
come una baionetta.



Ci sono giorni…

Ci sono giorni in cui le labbra luride cantano,
allora lavorano ai fianchi le parole, escono di merda –
e per noi la prova è l’infimo,
chiazze di lungimiranza infettano i sensi,
non c’è cazzo di vita nel vivere!
e ci fa paura prendersela con i venti
che scuotono sulla palpebra la notte dormiente,
come quando gli aerei ci passano sulla testa per andare a colpire
e sentiamo noi la scheggia che spezza i bimbi degli altri,
il peccato è anche questo essere risparmiati
perché le nostre mani non sanno fermare la disgregazione
di un paese, delle primavere, della paternità.
Non voglio fare il poeta ma amare sí, cristo!
bruciatemi le pergamene all’atto finale,
ma questo cuore lo rispetterete fino all’inferno.



Butterete ostie…

Butterete ostie sui carri allegorici
e le mani dei vecchi si perderanno
dove il buio è fugace, rosa nera,
in camice di nuvole, falsate dal vento.
Il polline della vergogna si posa
sulle pietre e i quadrifogli,
la luna, stipata, cancella la corteccia
degli amori infilzati dalle parole.
Voglio portare altri felici al regno del mondo,
gesù cristo era un bambino down
e sorprendeva i raggi del sole
con il suo sorriso d’ocra.
Disprezzerete anche questa pergamena
che snocciolo con la protervia
delle mie mani piantate sui muri
con contorni di sangue sanscrita.



Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento.
Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura "Hebenon", che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri.
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia stranieraHebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:
Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;
Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;
Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011.

Beppe Salvia

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La competenza e la meticolosità critico-documentaria di Pasquale di Palmo nel curare I begli occhi del ladro (Il Ponte del Sale, 2004), ci permettono finalmente di avvicinare in modo esauriente la poesia di Beppe Salvia, autore che scelse la morte poco più che trentenne e che ebbe la fortuna di crescere artisticamente entro l’alveo materno di “Prato pagano” e di “Braci”, riviste dal confine inaugurale e fondativo, consapevoli entrambe nel celebrare, come scrisse Salvia, «le giovani parole! / rosa come i fiori di pesco, bianche come i fiori / del mandorlo», sorridenti e «allegre come belle fanciulle!». Un progetto, questo, maturato appunto nella koinè romana sul finire degli anni Settanta, che aveva in Gabriella Sica la fresca pizia esule dall’etruria, e in Salvia il giovane randagio che rallegrava le sue quiete stanze con poesie e disegni: «Suonava all’improvviso a casa mia – ricorda la poetessa in un saggio del 1994 – e mi faceva leggere le sue poesie, o faceva un disegno sul mio terrazzo». Poesie che ancora non possedevano la limpidezza di Cuore, frutto maturo in cui, per dirla con Claudio Damiani, la lingua «dice la cosa, ma seguendola, amandola, accarezzandola, con affetto schietto, netto», secondo la lezione pascoliana poi forse resa al meglio da Saba, Penna, Bilenchi e, fuor di confine, da John Keats, poeta molto amato da Salvia e, per singolare coincidenza, sepolto nel cimitero degli inglesi, alla Piramide di Roma.
   Le prime poesie di Salvia, pubblicate postume con il titolo Estate nel dicembre 1985 presso i "Quaderni di Prato Pagano" con l’eteronimo di Elisa Sansovino, mettono in scena un io femminile che pare gemello, per humor nero, alla Becchina di Cecco Angiolieri, però manierate retoricamente secondo il petrarchismo di un Bembo disposto a soprassedere al decoro ma non alla levitas. Un singolare connubio di classicità ed energia bassa, tellurica, quasi, scuote i versi giovanili di Salvia, capace di attraversare una tradizione complessa e di lontana radice, sino a fare incontrare Penna («Il mio Garibaldino s’è assopito / tra le colme ceste del bucato/ un sole ora l’abbaglia e l’ha destato») con l’arzigogolo barocco («Una di pilastri in riga muta teoria/ fa vagarmi tra rami falbi / ricordi, amici pensier di bella briga»), per ottenere ad effetto la temperie stratificata della calda estate della vita, che infiamma i sensi e tuttavia immalinconisce. Al centro sta la grazia popolaresca della Sansovino, «aspra e meticolosa giovinetta»immaginaria nonché controfigura di un poeta-albatro per caso caduto fra i marmi di una Roma che già aveva lapidato Pasolini, un albatro temporaneamente al sicuro nel cenacolo pagano governato dalla Sica.
   Salvia tuttavia ha un’inquietudine che niente riesce a placare, qualcosa che Saba curava con la morfina e altri con l’alcool. Siamo negli anni in cui, giovane, qualcuno s’illudeva di vincere l’arido vero infilando l’ago nelle vene affinché brillasse «una febbre sul braccio» capace di scaldare l’anima e di chiudere «i begli occhi del ladro», quelle «vene che furono marea» (Milo de Angelis), viatico della prima generazione davvero orfana del mito, ritratta nella sua angosciosa umanità da Pier Vittorio Tondelli in Altri libertini. Eppure, ciò che a prima vista sorprende in Salvia, come bene rileva Di Palmo, è proprio «quella specie di dicotomia che si manifesta tra la vicenda biografica... e la serenità, quella rassegnata accettazione degli eventi che pervade molte delle sue liriche più autentiche».
   A guardar bene, tuttavia, nella tradizione cui la “scuola sicana” fa riferimento, la biforcazione evidenziata da Di Palmo si dissolve, essendo già intrinseco al Petrarca o, più indietro ancora, ad Orazio, sublimare nella bellezza il dolore, facendone superficie franta eppure armonicamente in equilibrio, in un gioco di rimandi sonori, ritmici e semantici capaci di distrarre il sentire del lettore dal buio che li fonda. E davvero le liriche migliori di Cuore stringono «morte sensi mente bellezza» in un abbraccio d’uomo solitario eppure sabianamente immerso nella calda vita, in quelle vaghe «voci/ giù nella via» che gli si slargano «in petto» per condurlo all’umanità tutta. Come il poeta triestino, anche Salvia non riesce tuttavia a fondersi con essa, a diventarne parte, e per questo cerca «il sommo di un colle», o l’ovatta delle stanze chiuse (entrambi topoi petrarcheschi), fino talvolta a trasformare questa necessità esistenziale in costrizione metrica, in esercizio claustrofobico che aduna lessemi omofoni in cui l’ariosità del verso rischia d’incepparsi, di tornare ai tic propri a Elisa Sansovino. Ma più spesso - specie in "cieli celesti", "Cuore" e "Sillabe", sezioni forti del libro – Salvia mostra d’essere di mano sicura, intrecciando a maglia larga variazioni infinite del sonetto, così che per quegli spazi respirino le cose del creato, tra loro vicine grazie all’amicizia, valore centrale della cultura greco-latina e che appunto in Cuore si coniuga classicamente con l’ozio, con lo stare insieme in un dolce far niente, che tolga dal gelo dei giorni, dall’incubo, dalla scissione e dall’angoscia evocati, poi, in Elemosine eleusine, «un’autobiografia definitiva» in versi e in prosa, scritta tra il 1982 e il 1984. Quest’ultimo libro porta sulla scena la morte, ma anche i Beatles, i Japan, Andy Warhol: insomma, la musica e l’arte quali farmaci alla solitudine, con quella doppia valenza intrinseca nell’etimo di pharmakon, che tiene insieme balsamo e sostanza letale, medicina salvifica e veleno.
   In effetti, le tre raccolte poetiche antologizzate ne I begli occhi del ladro oscillano di continuo fra la certezza della parola quale medicamento che toglie dai peccati del mondo e la consapevolezza che niente potrà guarire dal male oscuro, né l’amicizia, né la poesia, né la forza interiore, che si scopre incapace di aderire naturalmente alla vita: «nessuno / dell’ordine dell’universo m’ha insegnato / ad amare la sua natura grande / e umile. Ho offeso con la mia stupidità / la legge della vita...».
   Il libro che Pasquale Di Palmo ci presenta contiene in conclusione tre racconti brevi, il più bello dei quali è Casa, storia decadente, a mezzo tra l’estetismo dannunziano e lo Schnitzler del Doppio sogno, dove mistero, aristocrazia, oppio, sensualità e gelosia sono i demoni reali dell’iniziazione alla morte del protagonista, a quell’incontro con l’ombra che sempre innerva i luoghi più intensi dell’aldiqua, restituendoceli nella loro natura doppia, conflittuale e amorevole ad un tempo, passiva e attiva, morale e immorale, secondo quell’idea taoista, che altrove Salvia racchiuse nell’immagine del cuore concavo e convesso, aperto e aprente, in una circolarità di luce e ombra in cui la poesia s’immerge per rinasce, come ad incipit vita nuova.


Recensione uscita, in versione ridotta, ne “La Mosca di Milano”, n.12, maggio 2005 e, ancora più sinteticamente, in Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza, La Vita Felice 2009
           



LETTERA

Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
salvi quasi per caso, e in questo prodighi.
I baci sono bellissimi doni.



PRIMAVERA

In strada come una greppia gli amori,
l’acero festoso salirlo averne
prova, maldestro rampicarsi e i cori
fanciulli che si dan briga, saperne
l’errore novissimo che speranza
rinnova, ed altro coro è allegra danza
nel cuore mio che ammira, l’amore, tra
questo ardire bello ch’è prossimo
ad ogni età fanciulla e là dentro
fanciullezza del corpo acerba e lieta,
unisono splendente l’arco, corda
d’un suono solo, tende ad origine
e scocca vertigine d’un raggio ov’è
fida malìa accorgere mestizia
splendente



ESTATE

Di morte m’ha destato il sordo vanto
quel traversar pallido e stanco
il seno d’un prato bruciato, rosse
le ferme corolle segnano i fossi
come volesser, stralunato manto,
il disegno astrale suggerir, ecco
or nel secco vento la curva stanca
della luna al vanire s’affanna,
bruciano le corolle un fuoco vcchio,
al sole ed alla luna opposti astri
fan specchio, immillano quell’altera
vicenda dei due lumi l’ale affannate
terse d’uno sfex ch’ora s’aggrava,
va, sullo stelo d’uno di quei pesti
fiori del prato che sembrano i sitri
sopiti dell’egro strumento dell’anno.



AUTUNNO

La posa d’un abito spento e di quel
bianco vestito accanto della sposa
m’innamora; davanti la chiesetta
fanno festa, fan le fotografie,
fugge un bimbo quelle malinconie,
corre allo staccato e già s’affretta
a tornare spaventato dalla rossa
coda d’un galletto che grida or quel
suo strido molesto; è che s’è fatto
nero un nembo di tempesta, rotola
il lombo, la festa malinconicamente
sotto la fredda quercia un vento
ha spenta; piove, fa scuro,or cola
una lacrima lesta; quell’unica
festa il piovasco ha rubata alla sposa.


***

E non rapida foglia scende ove
è rapita la veglia, fiocco lento
bensì s’appresta al volo, lieve neve,
misterioso duttile bianco manto
che rende chiarità serena come
specchio ove posi l’abile libertà
d’un cavallino nero, e poche bave
di fronde su neri stecchi, novità
belle è quella bella gronda soffice
dove la taccola tace e gli occhi miei
fissano il lume che mescola luce
a quelle piume rapite d’un soffio
di freddo, come il disegno sprezzato
il volessi schizzar d’un sogno doppio
che sdegna luci ombre che riposa
in un pianto nevoso e senza voci.



Poesie inedite 

La notte è lunga a chi non può dormire
E frutta il sonno di nessuno sotto le ciglia
Se posso pensarti mancina come vieni
E racconti non smetti mai di dirmi -
Non smetti mai di sciogliere le voci
Il bianco sonoro il rosso odoroso
Dell’autunno, la mia vita prima che sia l’alba
La tua bocca inzuccherata di sangue -
Allora non fa davvero così male, rapimento
Dei sensi smagriti, in confidenza al loro rossore
I turbinii dei nomi e dei cognomi
Rapimento puro come un occhio puro
Come il semplice ascolto quando cadono le immagini
Il nodo della rete che accalappia il cacciatore.



***

Io ti invito allo sguardo calmo, quello
Che non esclude albe e crepuscoli ma li contempla
Anche se povero di mezzi, pensa agli acquazzoni
Di primavera che illuminano il verde.
E alle radure che si dilatano le ore
Nelle vasche che il cervello ruba al sonno
E restituisce, in globi trasparenti di veleno -
La morte scalpita a cavallo in questo paese – come da sempre
Io ti ascolto rinascere per la china dei giorni
Giorni e giorni come un alacre contadino ed un
Archeologo paziente, in quanto sei sporgenza e insieme fiume
La nivea contrazione che mi assorbe, i nudi
Ricordi che mi assalgono, la casa che si squarcia, infine
Mi arricciolo in capriola mi addormento e faccio un sogno.



***

Di qui si vede finalmente il cielo
muto ed eterno e poi di luce chiuso
esso è l’intero aere che racchiuso
l’eremo austro del mistero
lo spande a lacrime e luce e luce
ancor piana ancor grande, anche felice
d’ombra inaccessibile, per tutte chiare
cose e qui nell’intimo cuor del glicine,
che verdeggiando su muri, tacito
e odoroso, chiude l’orto conosciuto
e quasi sol col suo nudo profumo
apre all’immensità d’un volto d’uomo
che di lontano da noi sorride, dio
dell’eterno, con occhi pii e ciglia
ridenti, astratto quasi futuro



***

Dilaga la tua fronte bianca e sento
Infrangersi e seguire il crollo
Di una diga i lunghi
Affanni, ed un colore acuto nelle vesti:
La fronte d’alito vento e chiome e fronde
Apparsa in sua natura chiara e tanto
Lindi gli occhi che il mio bene accoglie
E inganna, e la stanchezza di quei tenui drappi,
L’occhio piroscafo – in essa i nidi calici – e
Rimuove aurorali alte tempeste
E aurore boreali che esplodono in guazzi di
Dolore i cervi, e le anguille, il mondo intero
Posati – Rimani ancora assorta – Rimani ancora un’ora
Noi siamo i gusci vuoti e secchi
Rumori che non osiamo ascoltare

Allontana da me questo fuoco.



***

da Cuore

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.


Qui alcuni suoi libri

Beppe Salvia nasce a Potenza il 10 ottobre 1954. Dopo essersi trasferito con la famiglia a Roma nel 1971, studia entomologia e si dedica alla scrittura. Nel 1979 fonda, insieme ad altri scrittori, la rivista “Braci”. Collabora a “Nuovi Argomenti”, “Prato Pagano” e altre rivista. Muore a Roma il 6 aprile 1985. Escono postumi i libri Estate, pubblicato con lo pseudonimo di Elisa Sansovino (Il Melograno-Abete, Roma 1985), Cuore (cieli celesti) (Rotundo, Roma 1988), a cui viene assegnato il Premio Leonardo Sinisgalli, ed Elemosine elusine(Edizioni della Cometa, Roma 1989).


                                    

Seconda edizione del libro di Blanc

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Esce in questi giorni la seconda edizione del libro di Blanc.
Fabrizio Bianchi ha avuto coraggio a pubblicarla. 
E voi, cari lettori, gli avete dato ragione.

Ricordo che il libro raccoglie sei anni di lavoro svolto in questo blog (a fianco trovate il link con l'indice)

Chi desiderasse acquistarlo, scriva alla seguente mail: info@dotcompress.it 

grazie a tutti!

Due poeti per ricordare (verso la Giornata della Memoria)

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Ricordare lo sterminio attraverso la poesia. A questo proposito, segnalo due libri recenti. Il primo, Ziklon B (edizioni CFR, 2011) di Giacomo Vit, incontra l'orrore nella mediazione della favola, quasi rendendo magici gli oggetti lasciati soli delle vittime, che qui diventano protagonisti. Sono presenze messe in gioco per ricordare quando la relazione tra uomo e cose era carica di significato affettivo, relazionale, a differenza dei campi,in cui tutto è corpo inorganico, sostituibile. Ma anche – scarpe, occhiali, valige, bambole rotte, capelli, foto –  sono testimoni oculari dell'orrore, essi stessi vittime del tentativo disumano di cancellare le tracce di quanto non fosse ariano, di archiviarlo in cataste mute. Vit chiede loro di parlare, di buttar fuori – a nome degli internati – l'indicibile, quanto le parole umane non riuscirono a pronunciare, per un misto di vergogna, pudore e afasia da trauma. E lo fa usando il friulano, una lingua dalla scontrosa grazia, come direbbe Saba, aspra come una carezza, e un versificare breve, interrotto nel mezzo della frase, spezzato come i corpi e le coscienze nei lager.

Il secondo libro l'ha scritto Daniele Santoro, poeta salernitano. Sulla strada per Leobschütz(La vita felice, 2012) racconta, senza mascheramenti lirici, la banalità del male, ma anche che cosa accade quando l'idea di razza superiore toglie diritto d'esistenza alle altre. Anche i nazisti baciano la loro moglie e i loro figli prima di andare al lavoro nel campo; poi lì, fanno del loro meglio per essere tecnicamente all'altezza, secondo dottrina. E allora il dolore altrui diventa interessante soltanto sotto il profilo scientifico e il sadismo esibisce il peggio di sé. Santoro ci mostra i corpi terrorizzati degli internati in preda alle loro funzioni elementari, fa loro raccontare storie di ordinaria disumanizzazione, entra nelle logiche da burocrati dei nazisti, ci riporta insomma l'attenzione nei pressi di quanto non va dimenticato, se vogliamo uscire davvero dalla preistoria. Che cosa sia la cosa da non dimenticare – al di là delle intenzioni dei due libri appena citati – ce lo dice Giorgio Agamben in Homo Sacer e in Quel che resta di Auschwitz: ogni volta che viene meno il confine tra umano e disumano ossia quando la legge pretende di inglobare "la nuda vita", l'alterità (il diverso, lo straniero, la minoranza etnica eccetera) diventa l'untore, che va eliminato senza incorrere in punizioni. Auschwitz è la formula perfetta di questa piega etica.



Questo post esce in contemporanea con quello di Giorgio Morale, ne La Poesia e lo Spirito.
Qui le poesie di Vit e di Santoro.


Giacomo Vitè nato nel 1952 ed è sempre vissuto a Bagnarola (Pordenone). Maestro elementare di Cordovado, è autore di opere in friulano di narrativa (Strambs, Udine, Ribis, 1994; Ta li’ speris, Pordenone, C’era una volta, 2001) e di poesia (Falis’cis di arzila, Roma, Gabrieli, 1982; Miel strassada, Riccia, Associazione Pro Riccia, 1985; Puartis ta li’ peraulis, Udine, Società Filologica Friulana, 1998; Fassinar, S.Vito al Tagliamento, Ellerani, 1988; Chi ch’i sin..., Pasian di Prato, Campanotto, 1990; La plena, Pordenone, Biblioteca Civica, 2002, Sòpis e patùs, Roma, Cofine, 2006, Sanmartin, Faloppio, Lietocolle, 2008, Ziklon B- I vui da li’ robis, CFR, 2011.) Nel 2001, per l’Editore Marsilio di Venezia, ha fatto uscire La cianiela, una raccolta delle migliori poesie edite e inedite scritte dal 1977 al 1998. Ha fondato nel 1993 il gruppo di poesia “Majakovskij”, col quale ha dato alle stampe, nel 2000, per la Biblioteca dell’Immagine di Pordenone, il volume Da un vint insoterat. Con Giuseppe Zoppelli ha curato le antologie della poesia in friulano Fiorita periferia, Campanotto, 2002 e Tiara di cunfìn, Biblioteca civica di Pordenone, 2011. Componente della giuria del Premio “Città di San Vito al Tagliamento” e “Barcis-Malattia della Vallata. Ha pubblicato anche alcuni libri per l’infanzia.

Daniele Santoroè nato nel 1972 a Salerno, dove si è laureato in Lettere classiche, e vive a Roma, dove svolge attività di do­cente nei licei. Collabora con testi poetici e di critica letteraria a riviste di settore, tra cui «Caffè Michelangiolo», «Capoverso», «Erba d'Arno», «Hebenon», «II Monte Analogo», «La Mosca di Milano», «Sincronie» e le statunitensi «Gradiva» e «IPR Italian Poetry Review». Ha esordito con la plaquette Diario del disertore alle Termopili (Nuova Frontiera, 2006).

Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni)

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E' uscito il mio nuovo libro di poesie 
Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni). 

Domani metterò la prefazione di Paolo Donini, con le indicazioni per chi volesse acquistarlo.

Oggi posto una poesia tratta dalla sezione Canti coniugali
Segue il mio commento al testo, uscito in Punto. Almanacco della poesia italiana 2 (puntoacapo, 2012)



Nel frattempo, al bivio


Come l'ala sfrutta il peso, chiedi un gesto
che porti in tavola o a dormire. Viene il mese giusto
intanto, con la sua muta affacciata ai frutti
in strada, che fanno aprile, nozze e ogni altro
a capo, per un soffio vivo e languido insieme
come se notte e cagna o giorno e angelo
sgorgassero qui, al bivio
con la platea da fare e la scrofa
che tiene il mondo in moto, che dispera
ai quattro angoli della lingua. E non c'è altro
infatti: autobomba, ladro, lavoro, amante
scarico dell'iva, tutto, dalla bocca
scuote le tende e nasce.



Questa poesia, che appartiene alla sezione di inediti Canti dell'amore coniugale,  mette al centro la questione della scelta, del bivio, della biforcazione continua che è la vita, tanto più quella amorosa. Ci sono momenti, tuttavia, in cui l'inerzia domina la relazione e l'agire segue l'abbrivio, le forze che natura ci ha dato: la gravità, l'adattamento, l'abitudine quando questa serve a rendere la ripetizione meno insensata (vv.1-2).
Per fortuna, la ciclicità delle cose porta con sé l'acme, il risveglio, "il mese giusto", quello dove la vita rifiorisce. Qui essa trova la propria allegoria nella "muta" dei cani (ma anche nella "muta" che fanno i serpenti, rinnovandosi), con la loro energia esuberante che "si affaccia ai frutti", alle prede, ma anche a quanto è premio, conquista. "Aprile, nozze" sono simboli di rinnovamento, di cominciamento, così come lo è l'andare a-capo (vv.2-4).
Questo tendere a, tuttavia, non è mai univoco, si biforca, invece, porta con sé il desiderio presente e la scia non sempre felice del passato ("soffio vivo e languido insieme"). Ecco allora che il bivio torna centrale e procede per antinomie (notte-giorno, cagna-angelo) che sgorgano "qui", nel tempo storico, aprendo in tal modo un trivio (vv.4-7). Se infatti la relazione di coppia, in principio del testo, sembrava decidersi nella scelta privata, ora si scopre mossa anche da un ramo pubblico, che chiede ragione delle scelte di ciascuno, per cui conviene costruirsi una "platea" disposta a comprendere, a dialogare e, forse, a perdonare. In genere, il ramo pubblico è innervato non dalla pietas, ma dall'aggressività, dalla prevaricazione, anche se talvolta addomesticata (la "scrofa", animale da cortile, ma non pacifico), aggressività presente in tutte le latitudini ("ai quattro angoli della lingua", vv.8-10). Platea e scrofa abitano anche l'io lirico e il tu del testo; "non c'è altro / infatti", e per tutti, null'altro che questa vita, che opera in un mondo inteso quale continua sorgiva (o sporgersi dalla tenda, scuotendola) al di là del bene e del male, continua nascita degli enti, siano essi "autobomba" o "lavoro", "ladro" o "amante" (vv.10-13). Questa verità, per quanto disumana, va tuttavia acquisita, conquistata, potenziata nelle sue zone luminose; nel "frattempo", come recita il titolo, si patisce il "bivio", la lacerazione, trasformando così la vita, da risorsa potenziale, in peso, deriva, inettitudine.


Le "Volpi" secondo Paolo Donini

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Prefazione di Paolo Donini

L’acqua è l’elemento femminile e materno,  l’archetipo iniziale per eccellenza. Ed è con  un poema d’acque, scandito lungo decorsi fluviali tra le rive dei nomi, che Stefano Guglielmin ci aveva lasciato alla sua (fino ad oggi) ultima raccolta: La distanza immedicata. Nel frattempo è apparso il poemetto C’è bufera dentro la madre, ora ricompreso in questo nuovo esito: Le volpi gridano in giardino.
La raccolta – che presenta una struttura binaria: due sezioni prioritarie, Canti dell’amore coniugale e Canti partigiani, ospitano 2 + 3 sezioni interne: Canti dell’amore coniugale la sezione omonima e le Poesie londinesi; Canti partigiani, la ricompresa Bufera, Mamme vermiglie e Sponsor river (per inciso ancora il topos,  qui secolarizzato, del fiume) – la raccolta è dominata dall’emergenza, da uno stato di allerta che lampeggiando riverbera ora l’emisfero privato, ora quello pubblico; ora la dimensione individuale, ora quella di relazione; l’area culturale, linguistica e quella biologica, organica;  il piano concettuale, speculativo e la sua resa stilistica, metrica, morfosintattica, lessicale.
Va detto che se c’è, nella vicenda compositiva e editoriale di un poeta, un libro che apre nella piena maturità una crisi, una presa d’atto e distanze – che non significa solo disincanto ma approdo a una sorta di innocenza ulteriore, spuria, compromessa e tuttavia renitente,  recuperata, eppure stranamente (e nuovamente) illesa, certa a posteriori della sua credenza, – ebbene per Stefano Guglielmin quel libro è, con buona probabilità, Le volpi gridano in giardino.
La raccolta infatti traghetta una funzione inclusiva e superante. Il che significa, quanto a cifra stilistica, la concessione di pieno credito a una sperimentazione (talora anche a un virtuosismo), crossover rispetto a generi e a registri, ma soprattutto la rottura del lucchetto della compattezza, quasi sempre apposto a sigillo della certezza o personalità della voce poetica.  Della compattezza, suggerisce questo libro,  occorrerà sempre più chiedere conto, non fidandosene di per sé, nello sbriciolarsi degli orizzonti empirici e nell’ibridarsi delle poetiche.
A questa rottura di un cliché stilistico coincide immediatamente sul piano tematico lo stridio di un altro guscio che si apre scontrandosi: l’hortus conclusus dell’esperienza personale, quando va a cozzare con l’indeterminato di una crisi, di un allontanamento, e quando rivede affacciarsi nel perimetro duale i volti sfaccettati e conflittuali della polis–  la diade che si lacera commossa per ritrovarsi di nuovo partecipe in mezzo al mondo.

[...]

Uno stilnovismo laico, terrestre, anche sincretico (non rinunciando nella crudezza a un afflato mitico e disordinante), modula l’affermazione iniziale circa la cifra della  donna:  in cui mai cercai casa né prato / ma sprofondo e grido, che si versa poi nella ricapitolazione delle donne andate per monossido o corda fissa /… o per malattia, incendio, pozza /ago. Una galleria di compagne autentiche e imprendibili che si riunisce poi nell’unica donna scelta dalla verità della vita, inoltrata nella nascita seconda / per la tempra e l'olio a trent'anni fatti uovo, via maestra /nuova, dove il verso, scritto all’ombra tutelare della paternità, appoggia il sigillo nuziale a brillare intatto sull’orlo di un crollo, quando l’amore pur fattosi casa e prato ritorna a un tratto sprofondo e grido aperti nello stravolto ordine domestico.

[...]

Libro in questo senso sentimentale, Le volpi gridano in giardino sin dal titolocanta sostanzialmente la passione, per quanto nevrotiche, raggelate, ruvide, irridenti ne siano le varie timbriche interne: un grido che si fa civile nei Canti partigiani, mostrando sul secondo binario della composizione, l’altra faccia della medaglia, quella che dobbiamo mettere fuori casa ogni giorno e che spesso mettono altri per noi, nella sopraffazione. A questo ramo del testo appartengono poesie come Voglio dire, vera e propria ricapitolazione di tracciati stilistici, dibattiti monologanti e dialettiche infra-testuali, dove Guglielmin mostra, in una pluralità di aperture, interessi, frequentazioni, assonanze e ripudi, l’agilità della sua ossatura critica, il fiato, la tecnica e persino l’acrobatica del mestiere dei versi; e componimenti come Incanto, che cede alla vertigine della lista il compito di un commiato sempre impossibile e sempre dovuto: farsi da parte, cedendo la parola, non solo nel senso di consegnarla  a chi legge ( o a chi altri scrive), quanto di lasciarla sola, come in effetti è, nel libro.

[...]

Paesaggi con poeta


Ho visto
paesaggi interiori pugnare col grigio deforme
di un umano niente e poeti ratti raccontare l'oggi
per tratti uniformi, li ho visti arrancare in quelle altezze.
Sciupare. E ruinee alme e altre arcaiche moine
rovinare sul testo, rovinarlo. Ma so per converso
di parole per cui si muore. Parole sole, senza paesaggio
nell'intrico dell'erto e del liscio, dove l'eroe s'immola.
E so di banchieri che asciugano risaie, assetano villaggi.

Io per me vorrei uno sfondo che non decori
ma dilati il senso dello stare, un tavolo di frutta
per esempio, e una figura, che sorrida a morti e vivi
senza strafare. Vorrei narrare, ma con spiacere
di mamme vermiglie nel rione degli infetti e di città
imperfette in cui s'annida l'erosione. E di prigione
vorrei dire, esilio dai prati, dai nomi, dove sognare
non l'ora d'aria, sola, ma il guado, e scrivere di te
di quando sfidi rocce e mulattiere
guardando in valle il torbido che cresce
di te, quieta, presso l'acqua dei nevai.



per acquistare Le volpi gridano in giardino vedi CFR Edizioni
oppure scrivere a Gianmario Lucini, gianmario@poiein.it  



Rosa Salvia

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Rosa Salviaè cugina di Beppe Salvia, del quale ho parlato un paio di settimane fa. La tentazione è metterli a confronto, ma non sarebbe corretto e non gioverebbe a questa poetessa, che ha un bel curriculum alla spalle e che in Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria (La vita felice, 2012) riceve le giuste lusinghe critiche sia di Gabriela Fantato e sia di Luca Benassi. Entrambi rilevano la meraviglia tonale dello sguardo e l’ascendenza classica del suo versificare. Ascendenza che Daniele Santoro riconosce «da alcuni aulici lemmi (“agape”,“cinereo”); da certe costruzioni superlative (impreziosite da enjambement come in “bianchissimo buio”); da talune citazioni latine (“amica silentia lunae”); dagli espliciti richiami alla mitologia greco-romana (“nottola di Minerva”, “canto di Orfeo”); da certe descrizioni del paesaggio che non si risolvono mai in semplice bozzetto naturalistico, bensì invece in sintonico luogo dell’anima, come in questa strofa, per esempio: “uccelli d’anima che incidono / il pensiero / piegato al vento sacro della bellezza” dove l’isolata parola “pensiero” è incastonata efficacemente tra due quadri naturalistici». Verissimo. Tuttavia è altrettanto evidente in questo libro l’inquietudine moderna, la percezione che l’equilibrio classico sia per sempre perduto e ora si viva in una dimensione di sofferenza, di prigionia (“una voglia di liberarmi dalle catene / che la vita mia ha prestato»; “non reggo più questo mondo che c’incalza / dentro la furia della sua agonia”). L’io lirico canta il desiderio di liberarsi per raggiungere non tanto la perfezione atarassica, con la quale il neoclassicismo ci ha fatto conoscere gli antichi, bensì l’immersione bruciante nell’attimo, nella vertigine dell’evento che non dura, sino a sperimentare la tensione degli opposti, quel “bacio che sboccia tra la neve / e il sole”. La sensibilità è romantica, e quindi lo scarto versale risulta imprevedibile, dovendo assecondare, prima che le regole metriche, il guizzo dell’anima ribelle. Sotto questo profilo, i richiami alla classicità di Rosa sono di natura intellettuale prima che esistenziale, com’era invece in Beppe; lei sa che l’equilibrio è perduto per sempre (Beppe lo sente sulla pelle), e tuttavia cerca di ricomporlo nel nido pascoliano degli affetti (la seconda metà del libro aduna madre, padre, amici e persino il cane,  che una nota ci ricorda “morto nella mia casa di Roma il 16 aprile 2009 al’età di diciassette anni”, quasi fosse un umano), nelle maestre di vita e di penna (“Cammino in un ronzio di versi / verso la casa di Simone, Cristina, / Emily ed Antonia”), quasi tutte figure tragiche, dalla vita drammaticamente intensa. E lo cerca, infine, nella fede, che qui non si mostra dottrinale e nemmeno in un orizzonte misticheggiante ma, ancora romanticamente, quale altrove di cui sente la mancanza. Nido primo perduto.
L’originalità di questo libro sta nel combinare la pulsione verso il superamento del finito con la definizione di immagini nitide, spesso sostenute dall’analogia (due esempi: “Vedo la morte per un istante / che chiama a nuova vita / come una campana che suona a distesa / sul frutteto sotterraneo”; e: “Aspetto che la luna rossa / scoppi tra le foglie / come un gong gigante”). Qualche debolezza la si deve all’uso di frasi idiomatiche (“E le stelle stanno a guardare”) o scontate (“chiuse nella loro vanità” e “ti scrivo nelle notti insonni”) e talvolta stucchevoli: “Affondiamo la bellezza nel sangue / dello stupore”.
Un passo ulteriore potrebbe venire dall’assimilare la levità di Beppe Salvia, accentuando la relazione fra i suoni nei versi ed evitando il demone seduttivo del discorso pienamente compiuto, che rende chiaro il concetto, ma appesantisce il dettato, la musica che governa la buona poesia, nella quale il lettore ha margine per muoversi e per far proprie le vibrazioni che il poeta lascia sospese.

        



           
            La parola è un’argentea coppa:
            intatti, precisi gli attimi
            si posano –
            è un movimento d’acqua cui è stata
            data forma,
            un diagramma,
            un disegno d’aria sottile –

            E’ armonia dei contrari,
            alchimia della somiglianza –

            oltre, il pensiero muore,
            e tuttavia resta incorrotto
            come un animale pietrificato, o meglio,
            come il cristallo
            corpo luminoso che brilla,
            fermo orizzonte dell’immagine,
            all’incrocio del tempo e dell’eterno,
            enigma del vero.



                                   


            LA FORMA DELLA SORTE

            Corre, corre,
            la forma della sorte,
            stordisce il rumore del tempo
            e mi trascina con sé nella corsa

            volto di cera nel centro d’ una giostra
            concentrato sul vuoto che senza morte
            mi riempie,

            benda di neve sugli occhi
            lingua di incandescenza e pudore,
            oltre le scienze esatte,
            nell’attesa di sedere all’ombra d’un albero d’olivo
            e restare sospesa
            in un bianchissimo buio che raggiunga la pace

            con le parole e i gesti di coloro che amo.



                                       …    


            Spira il vento e non dà frescura –
            le piante si mutano in molluschi,
            l’arenaria si sbriciola,
            un gabbiano morde il fumo coll’ala
            e s’inabissa,
            una biscia strisciante lecca l’acqua –

            all’ombra d’uno scoglio vaneggio,
            qui può stancarsi la malinconia
            perché mi sono dispersa e il mio grido
            s’agghiaccia nella calura estiva,
            mi conduce come un fuoco fatuo
            in cale senza via d’uscita.

            Adagio, verso il mare, una madre
            col bambino al petto
            sventola il pareo bianco della sposa.

Tra il mio viso e il suo viso quella forma
            di bimbo tenera si profila e si cancella.



                                   


            Fuggire in un vuoto del tempo

            fra atomi d’essenze
            in un vortice alato senza senso
            finché il cielo regga al tuo peso
            poi si chiuda alla notte e t’abbandoni.

            Tornare alla vertigine dell’acqua
            scindendo il desiderio in due
            come una mela,
            grano di muschio invisibile
            nei pori della pelle,
            vigna, seminato, orto.

            Sposare la vita con la morte
            col pensiero vicinissimo a ciò
            dove il suono si mescola alla luce

            al bacio che sboccia fra la neve
e il sole



                       




Fra merletti di pietra
il mare
ingovernabile nella sua
 mutevolezza
cola come un filo di sangue
e lambisce i miei piedi nudi
che calcano il tuo sonno in
quell’altra vita ora sommersa



            …       



DUE PICCIONI ARGENTINI

Sotto un angolo del mio balcone
due piccioni hanno fatto il nido
due piccioni argentini
battito di vena viva
fra mura di silenzio.

Quando li sento tubare
scandire il ritmo dell’aria
          in un fruscio
una mano di luce
mi trascina sulla scia
di memorie di talamo

nella balugine
del bacio fino al cuore

puro
come il canto di Orfeo
che nelle terre di Tracia
ammansiva le fiere.



                       


ISABELLA


                                    Alla poetessa lucana Isabella Morra


Là dall’onda arrabbiata i pescatori tornano a riva
con le loro vele gonfie di vento
i volti arsi dal sole.
Tirano in secca una barca che si chiama
Isabella,
la corda bagnata scorre fra le loro dita e cade
sulla sabbia lambita dalla schiuma
formando misteriosi disegni che fissano lontano
come lo sguardo di Isabella simile
all’aria senza respiro accesa dalle stelle
che il mare mescola alla matassa della sua penombra.

                                                                                               


Rosa Salvia, lucana di origine, vive a Roma dove insegna Storia e Filosofia in un liceo. Ha pubblicato due romanzi brevi: La parabola di Elsa e Fermagli, e il lungo racconto Nihada,  nonchè le raccolte di poesia Intemittenze, Aletti, 2003; Luce  e Polvere, Aletti, 2005;  Le parole del mare, a LietoColle, 2007.  Ha ricevuto riconoscimenti in numerosi concorsi letterari e fra le poesie qui presentate A tutte le donne del mondo e Il mio corpo senza utero sono state premiate nella sezione inediti rispettivamente  al Premio Internazionale Nuove Lettere,  2008 e al Premio letterario Le donne   raccontano, legato alla Fondazione medica del prof. Umberto Veronesi, 2009.

Andrea Donaera

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Nel segnalare la scelta oculata degli autori da parte della Marco Saya Edizioni, mi soffermo su Certe cose, certe volte di Andrea Donaera, giovanissimo pugliese, già al sesto libro di poesia. Il registro basso, d'impianto narrativo, mette al centro un inetto goffo e grasso, che ha letto Montale, ma parla come un analfabeta e che ha la netta percezione di stare svanendo. L'effetto è tragicomico; il grado di realtà, denso.  Personaggi così li abbiamo già incontrati, soprattutto nella narrativa, da Luigi Malerba ad Aldo Nove, ma è un bene che  entrino anche nell'alveo della poesia (lo aveva fatto benissimo Matteo Fantuzzi in Kobarid): la riportano per terra e soprattutto rimettono in questione quell'alto tasso di egocentrismo che sporca la creatività contemporanea. Danaera è un giovane colto, per questo usa l'arma dell'ironia. Non è un tragico che racconta la propria inattualità sofferta né un naif che improvvisa una lingua fuori dall'accademia: l'anacoluto, lui, lo sceglie quale sintomo di una civiltà – anche nella sua parte istruita – che non sa comunicare; lo prende in prestito per darle la parola e così mostrarla nella sua nuda inconsistenza. E tuttavia, si dimostra pietoso verso gli uomini persi. Ce li fa amare attraverso questo personaggio dominato dalla tenerezza, che aderisce ai cliché mass-mediatici (la finale dei Mondiali, le scommesse al "Fantacalcio", Dylan Dog), ma soprattutto che cerca affetto in una donna che non lo vede ("Dunque mentre facevi ritorno non vedesti / la macchia nera sul muro bianco che ero io") e non potrà mai raggiungere, tanto da suggerirle: "Dai / fa un bambino", fatti mettere incinta dal tuo uomo, "e chiamalo come me".

Certe cose, certe volteè una dichiarazione d'amore fatta a cuore aperto, dopo aver svuotate le viscere dal sentimentalismo e messo in pari idiozia e purezza; ed è un punto d'arrivo anche sotto il profilo stilistico: lo si capisce dalla dichiarazione di poetica de "il giorno del compleanno, per esempio", dal sublime che ancora contiene. Tutte le altre poesie sembrano passate con la verichina per toglierlo, per stare quanto più possibile vicino alla vita psichica del personaggio. Poesia, qui, significa mimesi emotiva e, nel contempo, sottile distacco ironico. La funzione poetica la dà il secondo termine, difficilissimo da governare, da tenere attivo proprio per la sua effimera consistenza.




Io l’altro giorno stavo affacciato al balcone
e la ringhiera del balcone traballava,
mi faceva paura quel traballare,
e niente, e allora ho guardato di sotto,
c’era la strada, un gatto
investito, e niente, sono rientrato.



*

Il giorno del compleanno, per esempio

L’idea per una poesia
che parli di quei baci che si danno sulle guance –
il giorno del compleanno, per esempio –
ma non dire nulla
delle labbra che si appoggiano sulla barba,
non dire nulla
del piegarsi verso un volto e lasciarsi raggiungere,
dire invece molto – molti versi –
sul passaggio
da una guancia all’altra
rapido, rapidissimo,
e della folata di respiro
che mi hai seminato sulla bocca
nel passaggio
da una guancia all’altra
rapido, rapidissimo,
la sera del 20 giugno.



*

Poi hai iniziato a lavorare e il lavoro,
si sa, disabilita l’uomo, rende
distanti due come noi che mai sono
stati uno, mai tipo Montale e Mosca,
ma che ci vuoi fare, che ci vuoi fare,
adesso che sei un’impiegata a tempo
determinato, che non leggi più
i miei versi ma soltanto scartoffie
da firmare, contratti da redigere,
e porti i soldi a casa e porti lui
a cena, lui che affitta case, lui
che magari ti mette incinta e poi
la smetti di fare questo lavoro
che mi rovina, mi rovina i versi,
questo tuo lavoro è la mia rovina,
mi fa sembrare un narratore che
narra cose senza pubblico. Dai,
fai un bambino e chiamalo come me.



*

Io da te voglio che stiamo su una panchina

Io da te voglio che stiamo su una panchina,
ridere di certe cose che dici,
certe cose che dico,
non lo so, cos’è?, una pretesa?, dimmi,
senza alzarti, resta ferma seduta,
dimmi, che così mi ricordi il mare
d’Olanda, agitato, freddo, stai ferma,
io da te voglio che stiamo così,
che mi guardi e prendi bene la mira,
le cose che mi dici non voglio che mi manchino.



*

Poi è venuta mia nipote, mi ha chiesto:
«Ma è vero che quando uno muore vola?»,
«Non lo so, tu che dici?»,
«Ma io non sono mica morta, ancora,
che ne so? Tu lo sai? Tu sei mai morto?»



*

Il Bar della rabbia

E brindo a chi è come me
al Bar della rabbia.
[Alessandro Mannarino, “Il Bar della rabbia”]


Al bar, dietro di me, c’erano due,
che questi due si baciavano forte –
facevano quei rumori che fanno
i baci, quei rumori –
e niente, mi sono voltato, ho detto:
«Abbiate pazienza, eh,
ma è meglio se coi baci la smettete un pochetto,
che insomma, per favore, dai», ho detto a quei due al bar,
e loro niente, loro continuavano, loro,
che si amavano, è chiaro, pure molto
si amavano, quei due, secondo me,
ma io non li potevo mica capire,
che io di certe cose non ne capisco,
no: io i baci, l’amore, non ne capisco.


Andrea Donaeraè nato il 20 giugno 1989 a Maglie (Lecce), da padre sardo e madre salentina. Vive a Gallipoli, dove studia Filosofìa presso l'Università del Salente, e si occupa di teatro, musica e poesia. Ha pubblicato: De atra Lacruma (Premio Barocco Editore, 2009); Sfoglia me — con Antonio Brunetti (Autoprodotto, 2009); Ombre e Quesiti (ApprodoSalento Edizioni, 2010); Additato (Edizioni II Papavero, 2011); II latte versato (Sigismundus Editore, 2012). Diversi suoi testi sono stati pubblicati e segnalati su riviste web e cartacee nazionali, ed è presente in numerose antologie.

  

la Poesia condivisa di Marco Scarpa

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Dai primi di ottobre del 2012, Marco Scarpa manda una mail a un centinaio di lettori, dentro la quale, sotto un breve cappello introduttivo, si possono leggere alcune poesie. Ciascuna mail contiene un autore, come tanti piccoli messaggi in bottiglia. Ha chiamato questo progetto Poesia condivisa. A dire il vero, il primo autore, anzi autrice, non aveva introduzione: il progetto era in fieri. Gli ho chiesto di scriverla, così che i primi dieci autori del suo canone personale che qui pubblico siano tutti accompagnati dalla sua parola affettuosa.


Il poeta di questo primo appuntamento è Anna Maria Carpi. Profondamente ancorata al vivere quotidiano, alle sue vicende più pratiche ed al contempo più interiori, passa da comuni situazioni come la spesa al supermercato, una mostra, una visita ad un bookstore, passeggiate per le vie cittadine fino al vissuto ed i pensieri che nascono tra le mura domestiche. Le cadute e gli appigli sono spessi aghi nella bilancia. Le voglie di morire che poi rinsaviscono. Anna Maria Carpi riesce a rimanere chiara, trasparente, facilmente comprensibile ma al contempo trattiene la profondità, unisce punti sparsi della vita e apre scenari in cui le domande più ardue dell’esistenza trovano riparo nei gesti quotidiani, nel vivere giornaliero. E poi l’amore, spesso epicentro, ed il rapporto con la verità e con Dio e con noi tutti, la gente, i “compagni corpi”, come lei li definisce. Tutto questo in una poesia onesta, diretta, che si concede con spirito di condivisione al lettore.


SE TU MI AMASSI come io amo loro,
i piccoli di casa che non sanno,
se mi chiamassi come io li chiamo
coi più teneri nomi ed insensati
dal nonsenso del cuore,
e come io faccio con loro
mi raccogliessi tutta fra le braccia –
perché tutto verrà, niente è perduto.
Tu invece quando parli m’inviti alla ragione
e se dico futuro mi sconsigli
di sperare in qualcosa.
Tu non capisci:
non mi devi parlare come a un comune umano,
amore è dire all’altro non hai fine.
O io sono immortale oppure niente.

da L’asso nella neve(Transeuropa, 2011)


Il poeta di questo secondo appuntamento è Umberto Fiori. Attento al quotidiano e alle sue dinamiche, alle abitudini degli uomini, alla (spesso mancata) condivisione, alle città, alle strutture e ai suoi mutamenti, alle difficoltà e semplificazioni dei rapporti umani, alle banalizzazioni e ai minimi gesti. Ed altro ancora tra i versi. Ecco tre sue poesie scelte da tre raccolte differenti.


Visioni
Vetrine, macchine:
è tutto così liscio, così lucido.
La gente in giro,
appena può, si specchia.
Ma fuori, ai capolinea
dove finisce il comune
e più avanti, nei campi, in mezzo al verde,
solo le cose si vedono.
Nel fango oppure lassù, nel cavo
dell’alta tensione, uno
riflessi non ne ha più. Manca, si perde.
Allora viene la paura
di apparirsi di colpo. Come ai bambini,
nelle cantine, il diavolo.

Da Chiarimenti (Marcos Y Marcos, 1995)


Il poeta di questo terzo appuntamento è Edoardo Sanguineti. Poeta non allineato, parte attiva nel panorama delle avanguardie letterarie del secondo novecento, scrittore inesausto, insegnante e politico. La ricerca, la sperimentazione, l’ironia, la concretezza di piccoli gesti o micro situazioni, i giochi letterari, le citazioni colte, questi alcuni dei tratti distintivi delle sue poesie. Un uomo che non si è mai posto il limite del poetico o impoetico e ha sempre rigettato nei versi la sua vita senza preoccuparsi dei canoni, delle regole della lingua, sempre tenendo uno sguardo “diverso”, ricco di guizzi e asperità, tentativi e tracce. Ho scelto due brevi testi che mi sembrano comprensibili, diretti, iniziatici per un curioso della sua scrittura, pertanto sicuramente non esaustivi della sua poetica.


vengo, con la presente, a te, per chiederti formalmente di esentarmi d’urgenza
dal comunicare, con te, per telefono: (io non posso battere zuccate disperate,
contro il primo muro che mi trovo a disposizione, ogni volta, capirai,
appena mollo giù il ricevitore):
                                                          (perché, mia diletta, io non saprò mai
separare, stralciandole, le tue parole, a parte, dai tuoi gomiti, dai tuoi alluci,
dalle tue natiche, da tutta te): (da tutto me):
                                                                             sola, la tua voce mi nuoce:

dalla raccolta Scartabello (1980)



Il poeta di questo quarto appuntamento è Giorgio Caproni. Poeta essenziale del secondo novecento. Ho scelto tre testi di tre raccolte diversi in cui si possono riscontrare alcune caratteristiche della sua poesia: linguaggio chiaro, limpido, quotidiano ma mai banale che fluisce tra i versi con gran ritmo e estrema musicalità. E poi il tema del viaggio, spesso presente e la descrizione della città e delle sue micro situazioni. Descrizioni che svelano l’ambiguità e le difficoltà dell’esistenza, divisa tra forze e interessi che divergono ed estremi opposti entrambi presenti nella varietà dell’esperienza umana.


Ottone

                  A Giuseppe Cauda

Ottone è il nome
Dopo Gorreto, a nord
della Liguria, il primo
grosso borgo emiliano.
Paese di bestiame,
un tempo, e di mercato
grande. Oggi
- dell’antica opulenza –
resta vasto il piazzale
coi suoi tre alberghi, un verde
d’ippocastani, e a picco
sulla Trebbia il mulino
che ancora con la sua ruota
macina acqua.
È là,
in quella conca dove
(raro) il fagiano appare
nel bosco, che ora
vorrei finir la partita.
Là dove la vita stagna
(o sembra) senza
spinta di tempo. Il tempo
senza spinta di vita.

Da Il Mulo della terra (1964-1975)

Il poeta di questo quinto appuntamento è Giovanni Raboni, fondamentale figura nel panorama poetico del secondo novecento sia in veste di poeta sia come curatore di importanti collane di poesia e traduzioni. La sua poesia pesca dal parlato e dalla prosa, ha un andamento narrativo e ad essere messe in scena sono sia situazioni e figure tra le più normali del quotidiano sia quei ripensamenti mentali attorno alle più varie questioni. Durante il suo percorso ha adottato sia forme più libere sia metrica più tradizionale ma sempre usando parole limpide, chiare che sono testimonianza sia di ricordi e opinioni personali sia delle pulsioni e delle percezioni corporali. I temi toccati dai versi di Raboni sono assai vari: si passa da poesie sulle città e sui luoghi (Milano soprattutto), a riflessioni attorno all’esistenza e alla morte, ai versi guerrieri e amorosi (come lui li definisce in un raccolta) sino a versi che scoperchiano il degrado sociale e politico degli ultimi dolorosi anni.


Essere … essere, sì, intimi, nel cuore
nel midollo, con chi è noi, con chi
d’altro noi siamo – forse è tutto qui
il segreto, è così che si fa onore

alla vita se è solo per ardore
che le duecentosei ossa non si
dissaldano innanzi tempo, se è di
estraneità alla vita che si muore

con minima pena, come lasciamo
una casa senza fuoco. E forse, ossa
dimenticate, una provvida mente

ci penserà, due amanti! E nuovamente
vivi, traslocheremo dalla fossa
all’apparirci, all’esserci che siamo.

da Ogni terzo pensiero, Mondadori, 1980


Il poeta di questo sesto appuntamento è Ivano Ferrari. Ci ho pensato un pochino prima di darvi in pasto alcune sue poesie ma sono arrivato alla conclusione che sia necessario. Necessario per capire fin dove un poeta può restituire con i suoi versi squarci, densità e veemenza del quotidiano. Ivano Ferrari è un poeta “estremo”. La sua lingua taglia, fa male, scoperchia, mette a nudo situazioni e primitivi sentimenti. Sono poesie senza mezzi termini le sue, dure da digerire, pugni nello stomaco. Mi riferisco soprattutto alle poesie di “Macello”, edito per Einaudi, da cui ne ho estrapolate tre. Ivano Ferrari lavorava nel macello cittadino e ne narra le vicissitudini, le asprezze, i dettagli più crudi, le conseguenze sugli uomini. Magari qualcuno potrà obiettare sulla bontà di queste poesie tant’è che se ne sente parlare pochissimo anche tra gli appassionati ma secondo me Ivano Ferrari è stato finora uno dei pochi a togliere l’eccessiva letterarietà e ad accorciare la distanza facendo sentire pulsare la vita tra i versi con la stessa intensità di un cuore che batte. Lui ci ha messo testa e corpo e a noi questo binomio arriva intero. Non ho scelto apposta alcuni dei testi più “forti” perché vuole essere un invito ad approfondirlo e a qualcuno potrebbe anche dar fastidio quanto scrive.


Per i problemi dell’anima
la sala stoccaggio:
coi quarti e le mezzene senza sangue
i cartellini del sesso
l’etichetta di destinazione
la delazione cosciente della bilancia.
Ci si confessa pestando reni di scarto
schegge d’ossa e strati di grasso.
Più liberi, dopo, divoriamo
fettine di carne cruda (dei quarti più belli)
appena un po’ di sale
e tanta devozione.

da Macello, Einaudi (2004)


Il poeta di questo settimo appuntamento è Mariangela Gualtieri. Autrice e attrice di teatro il cui percorso avanza parallelo con la poesia e innalza vette figlie di questi ambiti che si intrecciano. Il ritmo del teatro confluisce nei versi e pure quel mettersi a nudo, corpo a corpo con il pubblico, si
ritrova nella scrittura. Mariangela Gualtieri sembra che chieda non solo alla vita ma pure alla lingua, alla parola (testa) ed alla voce (corpo) risposte, lampi, squarci. Sonda, esplora, si lascia trasportare da alcune intuizioni/visioni e si fa largo tra la ragione e l’incanto, cercando un riscontro, sintonie che ci sfuggono, provando a scardinare i dettagli che ci confondono. Io ci ritrovo un forte senso di unione degli opposti, una voglia inesausta di avvicinare gli estremi, facendo confluire tutto sotto un unico tetto, la ragione e l’istinto, la vita e l’oltre vita, il naturale ed il sovrannaturale. Denudare dunque la complessità, sporcare le teorie, affidandosi a quel senso inconscio che schiarisce le questioni non per forza spiegandole.


Noi tutti non siamo solo
terrestri. Lo si vede da come
fa il nido la ghiandaia
da come il ragno tesse il suo teorema
da come tu sei triste
e non sai perché. Noi
nati, noi forse ritornati,
portiamo una mancanza
e ogni voce ha dentro una voce
sepolta, un lamentoso calco di suono
che un po’ si duole anche quando
canta. Te lo dico io
che ascolto
il tonfo della pigna e della ghianda
la lezione del vento
e il lamento della tua pena
col suo respiro ammucchiato sul cuscino
un canto incatenato che non esce.
Ascoltare anche ciò che manca.
L’intesa fra tutto ciò che tace.

da Bestia di gioia (Einaudi, 2010)


Il poeta di questo ottavo appuntamento è Silvia Bre. Per introdurre brevemente i suoi versi potrei dire che il suo canto, le sue parole tendono a cogliere tra i dettagli, tra i minimi accadimenti le risposte o, meglio, le linee strutturali su cui poggia la dimensione umana. Sono sia piccoli segni e piccoli gesti a essere presi in considerazione sia visioni alte, di cieli, di stelle, di mondi aperti, rilevando l’insieme di reale e di immaginazione che compenetra ogni attimo. L’attenzione è puntata alle somiglianze, alle attese, alle abitudini che sono riferimenti chiari e nel contempo mostrano come la vita a volte accada e lasci una distanza tra il nostro destino e il nostro volere/potere. La sua poesia ha le forme di un’occasione, un tentativo teso tra liberazione e volontà di comunicazione, uno sforzo di parole per eliminare limiti di tempo e di spazio e mettere in vetrina una sorta di armonia che la vita nasconde e in cui l’autrice vuole ritrovarsi in questa casa-corpo letteraria.


Angelo vuoto della somiglianza
spingi le nostre mani nella terra
come qualcosa pieno di qualcosa:
e noi su questa labile regione,
nell’ombra di remota parentela
che le tue piume gettano qui intorno,
dedicheremo all’immaginazione
le rose aperte al chiuso dei pensieri.
Noi siamo i soli a poter gioire
del segno che ci lascia una mancanza –
la somiglianza è tutto il nostro regno.

da Le barricate misteriose (Einaudi, 2000)


Il poeta di questo nono appuntamento è Milo De Angelis. Considerato uno dei maggiori poeti contemporanei, questo poeta si è distinto sin dal suo libro d’esordio, Somiglianze (1976) per poi proseguire un percorso di sempre maggior respiro e volontà di comunicazione. Il punto di partenza si aggira attorno all’obiettivo di restituire l’esperienza dura della vita, con i suoi dolori, macerie, difficoltà, attraverso una lingua diretta, partecipata, stretta al quotidiano ed ai suoi personaggi e luoghi che spesso si chiede del senso degli avvenimenti, delle azioni, dei pensieri riducendone e sintetizzandone la portata. La scrittura, negli anni, è poi mutata, pure con ripiegamenti su prose brevi, arrivando, per il sottoscritto, all’apice con il libro Tema dell’addio (2005) che ruota attorno alla prematura scomparsa della moglie Giovanna Sicari. Con questo libro Milo De Angelis apre cuore, scrittura, ricordi e concede ai versi di essere liberazione e tentativo di ultimo approdo e distacco definitivo. La domanda vaga, priva di rassegnazione, sul perché di quest’avvenimento e le parole diventano minime distanze che concedono al lettore di immergersi in una vicenda tanto personale quanto aperta alla condivisione.


V

Ed è Milano: silenzio che chiama le cose,
nostro diritto naturale, la stessa sensazione
degli occhi che cercano un’orbita
finché un passaggio obbligato tra le macerie
ci porta il battito
oltre l’Idroscalo, all’ombra dei reattori
ci divide in memoria e mandragola
ci sprofonda nel sangue senza musica.

tratta da Biografia Sommaria (Mondadori, 1999)


Il poeta di questo decimo appuntamento è Franco Arminio. Il focus delle sue scritture sia in prosa (di cui segnalo l’ottimo Terracarne) che in poesia è la paesologia, come lui la definisce, una sorta di riversamento su carta delle sue molteplici osservazioni dei paesi che continua a visitare e dei quali restituisce sprazzi minimi, puntuali, concreti che racchiudono storia, tradizioni, paesaggio e critica sociale. L’epicentro è la Lucania e parte del sud Italia. Partendo dal piccolo, dai luoghi in cui il progresso è ancora un passo indietro e dalle persone che ancora hanno dentro un passato perso altrove, traccia una geografia umana, rurale e autentica, semplice nelle modalità di scrittura ed essenziale nelle scelte di cosa ritrarre. Resta una sorte di pastore errante d’altri tempi che guarda al disfacersi e ne prende nota, non senza indignarsi. Il tarlo che però accompagna Arminio dovunque è l’idea della fine, della morte e frequenti sono in lui gli attacchi di panico che lo costringono ad un’aspra lotta con l’incedere dei suoi passi. Conseguenza di ciò è il libro “Cartoline dai morti”, sorta di Spoon River, raccolta di mini cartoline inviate da chi se n’è andato, ora ironiche, ora lancinanti, ora amare. Qui di seguito alcune poesie paesologiche ed alcune di queste cartoline.


Questo mio paese ha nelle vene
sangue di mulo
ma nessuno sa mettergli ai piedi
il ferro che serve a camminare
e allora si sta fermi
dentro un dolore cattivo
dentro una gioia piccola e sottile
come gli asparagi di bosco

da Stato in luogo (Transeuropa, 2012)

Marco Scarpaè nato a Treviso nel 1982. Conseguita la laurea in Ingegneria Biomedica, comincia ad occuparsi di chirurgia vertebrale come Product Specialist.
Per quanto concerne la poesia ha collaborato con il teatro Comunale di Vicenza, inserendo sue poesie collegate alla musica, nell’ambito della stagione di musica sinfonica 2011/2012.
Mac(‘)ero (Raffaelli Editore, Rimini, 2012) è la sua prima raccolta poetica.
Tra i riconoscimenti, si segnala la menzione al Premio Lorenzo Montano per la raccolta “Bailamme” nel 2010 e la menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano per la raccolta “MacEro” nel 2011.
Si dedica inoltre all’organizzazione di incontri di poesia in luoghi spesso inusuali, gravitando tra Treviso e la sua provincia.

Luca Rizzatello, Nicola Cavallaro / Prufrock spa

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Luca Rizzatelloè bravissimo a combinare l'enigmistico con l'enigmatico, il lirico con gli ingredienti del noir. Il suo libro precedente, Ossidi se piove, metteva ruggine sugli Ossi montaliani, li virava in calembour post-atomico, porta infernale di un mondo che, in mano morta con dita (Valentina, 2012), diventa dark, di dentro e di fuori. Arricchito di 12 interessanti incisioni a puntasecca su zinco o rame in bianco e nero (che meriterebbero un post a parte), copertina della stessa fatta, e rigida come un cadavere fresco di giornata, il libro custodisce 11 perle endecasillabiche dal ritmo spesso saffico: un metro barbaro per raccontare, in strofe di 11 versi, l'avventura gotica di una monaca, il cui padre è affetto da "psoriasi psicosomatica", che schiaffeggia una mistica appesa e sanguinante. Lo spazio è angusto, tanto che un nano terapeuta, "travestito da neonato", esercita dentro uno sgabuzzino. C'è anche miss Massachusetts in questa storia, che sculaccia se stessa con gusto, e una bara portata a spalla da due becchini part-time. La monaca è stagista e pratica la spanking (vista la passione, qualcuno potrebbe sospettare che, da giovane, sia stata miss Massachusetts); qualcun altro ha messo la stricnina nelle mele cotte del refettorio procurando diarree a catena. Vien presto il sospetto di essere dentro a un pasticciaccio che Rizzatello gestisce con l'occhio attento di un Ingravallo. E, come nello "gnommero" gaddiano, non conta chi sia davvero il colpevole perché colpevoli lo siamo tutti. Nessuno escluso.

Il lettore, dopo aver fatto il viaggio in queste 11 stanze non creda tuttavia di esserne uscito con il bandolo in mano. Torni invece indietro, e legga la dedica: per Rossano Onano. Uno psichiatra-poeta che ama, come Rizzatello, i cortocircuiti della lingua e del cuore. Si chiede Andrea Lorenzoni nel suo blog, recensendo il libro: è se fosse lui il nano? Il sospetto – lecito, visto che il poeta-psichiatra ha scritto di recente Il nano di Velazquez– potrebbe essere un indizio per dare dignità al personaggio, qui altrimenti ridotto ad emblema dello sfiducia nella pseudoscienza psicoanalitica. Non ci fa bella figura quest'essere compresso, che si finge neonato, come fosse un personaggio pirandelliano, che esce dalla maschera dominante per indossarne un'altra, liberante. Anche se, in mano morta con dita, nessuno è libero davvero. Potremmo essere in un manicomio conventuale o in un convento per suore dementi, dove le sorelle giocano a wrestling con la playstation e talvolta godono come diavolesse sado-maso. Ma il nano di Velazquez è un uomo bello e mansueto, ci ricorda Anna Ventura nella prefazione di quel libro, che porta in effige uno dei tanti nani velazqueziani. Tutti pieni di dignità e tenerezza.
Il nano di Onano "accosta la mano mancina" a un "panno viola, per farci vedere l'altra stanza; la destra, invece, è "raccolta a gucchiaio" in attesa "dell'obolo dovuto"; domanda: forse è questa a diventare, in Rizzatello, la mano morta, anzi, a fare la manomorta, quel gesto impudico del toccare le pudenda che qui diventa la sculacciata liberatoria della monaca? E se invece, il coltissimo amico, intendesse il termine nella sua accezione giuridica longobarda, ossia il divieto di trasmettere per via ereditaria beni feudali. E quindi il conflitto, cui la mano rinvia, è giudiziario prima che patologico? Ad ogni modo, monomorta  è un francesismo che allude alla rigidità cadaverica della mano la quale, appunto perciò, non lascia libero il bene, che trattiene, al godimenti di terzi. E siamo di nuovo al principio del noir, al titolo, dove una mano morta è forse "con-dita" perché godereccia (potrebbe essere quella della monaca che, nella prima lirica, ha la vestaglia "macchiata di sugo"); oppure, il titolo, allude a una faccenda di eredità impossibile da spartire perché bene comune, come un monastero, appunto, o un manicomio. Il dubbio è levito, la risposta ogni lettore la dia per conto proprio, senza illudersi di avere ragione. Sotto questo profilo, la verità polisemica del racconto è l'allegoria stessa dell'esegesi poetica: anche qui, ogni lettore ha il diritto-dovere di avventurasi, con cognizione di causa, nell'interpretazione del testo.

Rifatto le 11 tappe con questo nuovo zaino, uno potrebbe pensare: bene, finalmente sono uscito dal labirinto. Illuso! vada a leggersi la notizia sugli autori: scopre che Luca Rizzatello è Nicola Cavallaro e Nicola Cavallaro è Luca Rizzatello. E sì che io, una volta, li ho incontrati insieme, e ci ho persino parlato a Nicola. Non mi stupirei se fosse stata una controfigura, ingaggiata per seminare zizzania nei nostri cuori ingenui, che credono nell'uno anche quando, è evidente, al mondo non esistono che copie. C'è tanto Pirandello in tutto questo e l'insegnamento del grande Calvino. Ma nella  mano morta con dita c'è anche tanto Rizzatello, uno dei migliori poeti in circolazione.

da mano morta con dita (Valentina Editrice, 2012)




1.

All’occorrenza andrebbe stabilita
la distanza standard tra la monaca
macchiata di sugo sulla vestaglia
che chiacchiera sul muretto del chiostro
e la mistica isterica che ride
dietro la parete della celletta
sul fondo della cabina del camion
miss massachusetts sculaccia nei mesi
estivi in successione la collega
anonima sé stessa il nano avanti
con gli anni travestito da neonato.







5.

Il nano lo gnomo o come si dice
sta tanto bene nello sgabuzzino
dei detergenti chimici perciò
la seduta d’analisi la fa
stando dietro la porta e così fa
l’analista che sta dietro la porta
per il resto l’atmosfera si carica
di varechina che produce sempre
la medesima visione con charles
dickens visto di scorcio e gli orfanelli
contriti col tritacarne a testuggine.

                                  incisione di Nicola Cavallaro

In principio [2005] Prufrock spa (di cui Rizzatello e Cavallaro sono i fondatori) è il pretesto per realizzare un album musicale, omonimo e autoprodotto, e con la voce di Alice Chinaglia. Con la trasposizione di quattro brani (Panopticon, D.D.T., Sharazad re-tell-me, Radiorama) nella forma video, si sviluppa un processo di incubazione di quello che sarà uno dei fondamenti di PS, lo studio dei rapporti tra materia sonora e materia visiva. L’indagine si concentra sulle possibilità della narrazione per immagini, con l’utilizzo prevalente della tecnica stop motion. La seconda fase [2006] coincide con l’allestimento di reading poetici: La pergamena delle mutazioni (testi di Renzo Cremona), Le donne abbandoniche (testi di Rossano Onano) e Demhooneysm. Ci si propone di superare l’idea di reading come performance in cui musica e immagini siano a servizio del testo letto; da qui la costruzione delle tre componenti (testuale, visiva e sonora) come momenti strettamente connessi ma potenzialmente autosufficienti. Se nella prima fase il fulcro della ricerca musicale era la scomposizione della forma-canzone – e, parallelamente, la composizione di testi in cui le ascendenze letterarie di partenza tendevano al punto di rottura della comunicazione non lineare – ora l’organismo sonoro si nutre dei suoi elementi materici, applicando agli stilemi della musica concreta le potenzialità dell’editing digitale. Nella terza fase [2007-2011] la costruzione di architetture visive e sonore viene estesa alle possibilità reali offerte dagli spazi fisici; è il caso del progetto di riscrittura Make it Happening, ideato con frederico f. (Father Murphy, St. Louis & Lawrence Books): un classico della tradizione viene riscritto e adattato al luogo ospite, trasformando la cornice in opera e in contenitore di eventi. Viene inoltre curata la rassegna Precipitati e composti, l’altra faccia del Premio letterario ‘Anna Osti’ di Costa di Rovigo. Nel 2012 nascono le Edizioni Prufrock spa. Altro su prufrockspa.com

Mario Meléndez

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Introduzione di Emilio Coco

In questo breve scritto introduttivo mi preme ancora una volta sottolineare l’utilità dell’antologia, la quale ci offre principalmente l’occasione di un rinnovato incontro col poeta attraverso alcuni dei suoi testi più rappresentativi che si offrono a noi con la forza della loro urgenza comunicativa.

Ho conosciuto Mario Meléndez qualche anno fa in occasione di un incontro di poeti del mondo latino in Messico. Mario è un giovane poeta cileno che ha trovato in questa generosa terra messicana la sua seconda patria e qui ha stabilito la sua dimora, impegnandosi in varie e lodevoli iniziative.

Nella sua poesia si coglie qualcosa di impetuosamente fresco e agile: una ricchezza di movimenti e di aperture fantasiose quale di rado capita di trovare nella giovane poesia italiana. È il suo un cantare inesauribile nel suo immaginoso inventarsi e reinventarsi. È la singolarità di una voce che dissotterra, che architetta e musicalmente compone.

La traduzione di alcuni suoi testi poetici qui riuniti ha costituito per me la scoperta di un poeta originalissimo, col suo carico di energia appassionante, persino entusiasmante.

Accade di rado di fare un incontro fortunato. Uno di quegli incontri che generosamente ci ripagano della nostra fatica col loro dono di poesia che si concede a chi abbia la pazienza e il gusto della letteratura volenterosa, non prevenuta. Mario Meléndez è uno di quei poeti da annoverare tra le conoscenze non sterili.

Grazie Mario. La tua poesia è stata per me una delle ultime più care e coinvolgenti letture.



daAppunti per una leggenda, Città del Messico, dicembre, 2011(traduzione di Emilio Coco)



ARTE POETICA

Una mucca pascola nella nostra memoria
il sangue scappa dalle mammelle
il paesaggio è ucciso da uno sparo

La mucca insiste nella sua routine
la sua coda spaventa la noia
il paesaggio risuscita al rallentatore

La mucca abbandona il paesaggio
continuiamo a sentire i muggiti
la nostra memoria adesso pascola
in quell’immensa solitudine

Il paesaggio lascia la nostra memoria
le parole cambiano nome
ci soffermiamo a piangere
sulla pagina in bianco

Ora la mucca pascola nel vuoto
le parole stanno sulla sua groppa
il linguaggio si burla di noi

 


RICORDI DEL FUTURO

Mia sorella mi ha svegliato molto presto
stamattina e mi ha detto
«Alzati, vieni a vedere
il mare si è riempito di stelle»
Meravigliato per quella rivelazione
mi sono vestito in fretta e ho pensato
«Se il mare si è riempito di stelle
io devo prendere il primo aereo
e raccogliere tutti i pesci del cielo»




MI AVANZA UN MORTO

a Pablo de Rokha

Mi avanza un morto
mi avanza
mi avanza un morto e quello
non sono io
e viene dal lievito e dai precipizi
mi avanza un morto
un morto che mi martella la pelle
mi avanza un morto e non sono io
perché sono vivo e lo presento
lo respiro
e cade dal manico di un altro morto
e cade e passa per la mia camicia
e fa il giro
e prosegue prosegue nel mio scheletro
un morto
un morto nel mio scheletro
installato per la vita
un morto mi avanza e non sono io
e piange e ride con una risata demoniaca
un morto
un morto sacro
un morto nel gemito dello spavento
un morto sparso nella mia gola e nella mia sete
con la sua cenere di elefante
nell’aceto
nel condimento degli anni
un morto che graffia i vetri
fra tafani
e formiche
e vermi affamati
che defecano un morto le sue parole
o nella somma delle volontà o in nessuna
o sulla roccia delle rocce
soffocato l’invincibile
il morto bucherellato dagli altri
immutabile nell’unghiata
nella stoccata dell’oblio
mi avanza
mi avanza un morto e non sono io
perché dà pedate e raschia
inghiotte con la sua dentatura cavernosa
fino a sfiorare alla fine il sale dell’universo




LA FIGLIA DI RIMBAUD

La bambina dal vestito aperto
si alza nel momento
in cui le parole sono in festa
perché lei stessa è una festa
quando stende le sue cosce al sole
e il vento la percorre
con le sue dita infinite
Un triciclo di vetro l’aspetta
vicino ai fiori del cortile
e un nido di farfalle cieche
si spoglia tra le sue ossa di miele
E nel suo letto di piume azzurre
lei appende le sue trecce di grano
e conta le sue api morte
fino a che si addormenta
mentre la sera l’avvolge
con le sue labbra gialle
La bambina dal vestito aperto
si sveglia nel momento
in cui gli orologi sognano
perché lei stessa è un sogno
quando apre il suo vestito
e i passeri si ammucchiano
pazzi d’amore
sui suoi seni di carta



Mario Meléndez (Linares, Chile, 1971). Ha studiato Giornalismo e Comunicazione Sociale. Tra i suoi libri figurano: “Autocultura y juicio” (con introduzione del Premio Nacionale di Letteratura, Roque Esteban Scarpa), “Poesía desdoblada”, “Apuntes para una leyenda”, “Vuelo subterráneo”, “El circo de papel” e “La muerte tiene los días contados”. Nel 1993 ottiene il Premio Municipale di Letteratura nel Bicentenario di Linares. Sue poesie appaiono in diverse riviste di letteratura latino-americana e in antologie nazionali e straniere. È stato invitato a numerosi incontri letterari tra i quali ricordiamo il Primo e Secondo Incontro di Scrittori Latino-americani, organizzato dalla Società di Scrittori del Cile (Sech), Santiago, 2001 e 2002, e il Primo Incontro Internazionale di Amnistia e Solidarietà con il Popolo, Roma, Italia, 2003. Agli inizi del 2005, è pubblicato nelle prestigiose riviste “Other Voices Poetry” e “Literati Magazine”. Nello stesso anno ottiene il premio "Harvest International" alla migliore poesia in spagnolo assegnato dall’University of California Polytechnic, negli Stati Uniti. Parte della sua opera è stata tradotta in italiano, inglese, francese, portoghese, olandese, tedesco, rumeno, bulgaro, persiano e catalano. Per quattro anni ha vissuto a Città del Messico dove ha impartito lezioni di letteratura latinoamericana e realizzato diversi progetti culturali. Ha diretto la collana sui maggiori poeti latinoamericani per "Laberinto edizioni" e realizzato diverse antologie sulla poesia cilena e latinoamericana. Attualmente vive in Italia. Ha collaborato con l'Università di Urbino "Carlo Bo" dove ha tenuto alcune lezioni di poesia e lettaratura ispanoamericana e dato lettura delle sue opere tradotte in italiano dal poeta e saggista Emilio Coco. Recentemente ha partecipato al Festival Internazionale Daunia poesia di San Severo e al Festival Internazionale Dire poesia di Vicenza.

Cristina Annino su "Le Volpi"

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Esce su Samgha, rivista di rete attiva in Italia e in Nord America, la recensione di Cristina Annino su Le volpi gridano in giardino 


La trovate qui 



Interessante confrontare questa lettura con quella di Paolo Donini, qui

Le volpi in giardino e i pesci nella pancia

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Due notizie:

il post in Reb Stein su Le Volpi
(con nota critica di Silvia Comoglio)

Bologna
dentro l'evento
 Mentre sto a questo lago

Pesci vivi nella pancia

a cura di 
Linda Rigotti, Roberta Sireno, Anna Franceschini



Rita Pacilio

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Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice, 2012) di Rita Pacilio, conserva già nel titolo una distanza di sicurezza dal pregiudizio di chi non ha il coraggio di incontrare la malattia. Da chi chiama bizzarro tutto ciò che non capisce. Differentemente da loro, Rita Pacilio entra nel vivo del mistero dell'essere umano, declinato, sul "lago di Nemi", in quegli umani dalle "labbra di rosa vermiglio" e le "ginocchia conficcate nella gola": immagine ossimorica, dove la salute delle labbra confligge con il dolore tutto raggomitolato, fetale, di chi ha rinunciato alla distensione degli arti ossia, metaforicamente, al cammino che porta verso l'altro, verso la guarigione. Qui "non si torna indietro" ci dice subito l'autrice, poetessa-sorella che racconta il suo viaggio, anche nel tempo, incontro al fratello Alfonso, la cui prigione "ha le finestre sorde". 

Anche il paesaggio d'apertura mostra le piaghe: l'acqua s'increspa, il lago morde nuvole, in affanno, i visitatori "fissano / l'inquieta luce della sera". Il mondo reale sta tutto in questa scena, tragica e dolcissima, e in quelle che raccontano il disagio, normale negli spazi manicomiali. Luoghi incomprensibili con gli strumenti del moderno: Pacilio, non soltanto dialoga con il fratello, in un tenero e, in parte colpevole, versificare privato, ma denuncia ogni pretesa di comprendere l'umano con la razionalità o il buon senso, come faremmo tutti noi visitando quei cerchi infernali. Per questo sceglie talvolta metafore surreali, vive d'immaginazione: vuole entrare in contatto simbiotico con lo sguardo scaleno dei folli, per dire loro, siamo fratelli, tutti. E tutti prede del medesimo silenzio. La vita è crudele perché non possiamo comunicare, se non per vie traverse, con il grido o sottovoce, e con il contatto fisico, anche se magari passa per sentieri violenti e incestuosi, come Pacilio ci racconta nel suo monologo Non camminare scalzo (Edilet, 2011).

"La voce di Alfonso / mi entra nella mano tutta intera" dice appunto l'autrice, coniugando suono e tatto, parola e corpo. E per lei, cantante jazz e performer, non può che essere così, non per scelta estetica, bensì profondamente esistenziale: il suo corpo a corpo con la voce e con la parola fa tutt'uno con l'attraversamento autobiografico, che trova, in queste quartine orientate all'endecasillabo, temporanea pacificazione. Ma solo formale, perché il lessico è espressionista e la visionarietà tragica.

Gli imperfetti sono gente bizzarraè una dichiarazione di appartenenza al genere umano dolente, l'unico davvero umano e per cui valga la pena parlare. Indipendentemente da quale tenaglia lo stringa: è l'esistenza terrestre a piagare le carni, il vivere stesso. Bizzarro, anzi spaventato o arrogante, chi finge il contrario. Pacilio, mi pare, parla anche agli spaventati fuori dalle mura, insegna loro di non temere la debolezza, ma anzi di farne una forza per rifondare la comunità dei viventi.


da Gli imperfetti sono gente bizzarra



Si increspa il lago di Nemi
in un gesto di doloroso silenzio
a vederlo mordere nuvole
l’affanno arriverebbe in cima.

Salgono visitatori
in una strada scoperta riaffiorano
in mezzo alle piante
ragazze di colore nude a metà

pascolano paure
e cosce raggelate. E fissano
l’inquieta luce della sera
come fosse un contatto.



**


Verso nord-ovest aumenta la scogliera
si arrampicano le acque
dove si posa la clemenza
le alghe consegnano umori tra dita.
Convulsi baci a pieni polmoni
all’abisso che rimane tra i denti.

I folli hanno labbra di rosa vermiglio
ginocchia conficcate nella gola
quelli del primo piano chiedono l’ora
collezionano dossi per l’inverno.

Scrivono sui marmi con il trucco
e sbavano meduse sul mento
quelli del secondo piano tremano
il morbo che cresce nell’addio.



**


Le vertebre hanno il petto impreciso
e aprono la pace imbavagliata
sanno sbarrare fiumi impacciati
colpevoli della fine del tempo.

Sui boschi la luna torna a Nemi
scivola trasparente dai canali
e sembra una sposa innamorata
ti rimbalza addosso senza piedi.

Alfonso ha le ali di angelo bianco
due voli che si moltiplicano
come non ho mai visto fare all’onda
un rotolare nel fondo del sonno.

E come un affanno in superficie
mi accade di cercare la bocca
per affidarmi a quel vuoto
il tocco della lingua dalle cose.

Cosa posso farci se sono neve?
Sospesa come raggio o lanterna
chiunque può contare le mie rughe
e cadere in ogni insenatura.

Sprofondare all’imbrunire in me.



**


Nel passo lento ascolto
dalla suola si staccano battelli
sono le prime ore del mattino
quando l’alba è ancora appannata.

C’è un giorno in cui ti ricordo
come un’ombra allungata sul muro
diminuire il dolore in un tuono
la nascita anteriore al bene.

Offro undici candele pietose
come simbolo liberatorio
come il resto di una bugia
il pezzo di pelle che amavi di me.

La crosta e il gemito di viscere
in mezzo all’ordito che baciasti
meridiano sotto il derma freddo
nome vero della mia schiena.

Sono la campana che sei stato
il lume della tua finta guerra
un camion sull’autostrada vaga
adesso niente ritorna dal niente.

Accarezzandomi entrasti nella pena.



**


Ha tolto lo spillo dalla costola
dove la Santa si scioglieva rossa
nello specchio del cielo cotonato
nell’orologio che lo ignora.

Che è un gioco del dio cieco
sotto le crepe limpide di acqua
rimodella i collant
mezza sorda di perdono e vita.

Sigilla il rifiuto e il peggio
strappa le dita ai guanti di carta
si traveste lumaca nel parco
per salire alla guancia umida.

I riccioli finti hanno un ventre
lo spazio di un occhio
la fronte allargata dai segni
è urgente qui il suo guardarmi.

I respiri ridono grinze verdi
si spettina vestita nella fiaba
mentre un pugno smarrisce le mani
continua a masticare la noce.

Non distrarre l’oltre della mattina.



**


Mentre sorride al lago superstite
diventa forcella imbalsamata
sgozza i riccioli in diagonale
come la nuova rotta della luce.

È il terzo occhio della poesia
con le scarpe colorate di rosso
sembra sia uscita dal suo disegno
o forse dalle quinte del suo uovo.

Si imbratta le mani con la vernice
conchiglie infilate sono collane
conosce bene la sua presenza
e piano, piano apprende l’assenza.

Quando le sagome diventano fosse
alcuni autunni tornano prima
dal lago di Nemi intreccio le dita
con i piedi porto avanti le dighe.

L’amore prevede due bugie
una crepa nel monte
un verbo finito sul petto
dove i canneti hanno smesso di dire.

Lontano dal battito dell’altro.


L'autrice sarà a Padova il 2 marzo, a presentare il suo libro. Qui il dettaglio.

Rita Pacilioè nata a Benevento, Sociologa e Mediatrice familiare, si occupa di Poesia e di Musica jazz e di Orientamento e Formazione nell’ambito dello Sviluppo delle Politiche del Lavoro e nelle progettualità della Casa Circondariale di Benevento, di Mediazione familiare e dei conflitti interpersonali, di Prevenzione delle dipendenze.
Alcune poesie edite e molte inedite sono state declamate durante serate di degustazione letteraria da attori d’eccezione come Enzo Garinei nell’anno 2004 e molti suoi testi sono stati rappresentati in manifestazioni teatrali.
Ha pubblicato:
• “Luna, stelle…e altri pezzi di cielo”; Edizioni Scientifiche Italiane – Prefazione Felice Casucci - anno 2003 (Primo Premio sezione “libro edito al Concorso Nazionale “Calicantus” I Edizione indetto da “ Il Gazzettino del Tirreno” - ME anno 2005)”.
• “Tu che mi nutri di Amore Immenso” Silloge Sacra, Nicola Calabria Editore (Patti, ME) settembre 2005
• “Nessuno sa che l’urlo arriva al mare” Nicola Calabria Editore (Patti, ME) settembre 2005
• Ciliegio Forestiero” LietoColle collana Erato maggio 2006
• “Tra sbarre di tulipani” LietoColle collana Aretusa giugno 2008 (Menzione d’onore Premio Bellizzi anno 2010),
• “Alle lumache di aprile” LietoColle collana Aretusa giugno 2010 prefazione A. Rigamonti e postfazione G. Linguaglossa (segnalazione speciale della 15^ Edizione Premio Letterario Nazionale di Poesia e Narrativa ‘Città di San Leucio del Sannio’ - Sezione C-Poesia edita -, il riconoscimento di Merito Artistico Premio Made in Italy S. Agata de’ Goti per lo stesso anno 2010 e la medaglia ArTelesiaFestival 2010 Premio speciale all’Autrice Rita Pacilio distintasi quale migliore Artista Sannita dell’anno.
• “Gli imperfetti sono gente bizzarra" La Vita Felice 2012, prefazione di D. Rondoni.

Per chi ama la poesia e vive nei dintorni del vicentino

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Alcune informazioni di servizio, utili a chi vive nei dintorni del vicentino e ama la poesia. 
Ma prima un link che  riguarda le mie Volpi: una lettura di Alessandro Assiri ne La stanza delle poche righe

Appuntamenti

7 marzo, Thiene, ore 20,45. Biblioteca civica,  presento il libro Voci dassenza di Stefania Bortoli.

13 marzo, Schio, ore 20,30 Palazzo Toaldi-Capra. Tengo la conferenza: “La rappresentazione del corpo nella poesia femminile italiana contemporanea” entro il progetto L'altra metà del cielo,organizzato dalla sezione vicentina della Società Filosofica Italiana e dal Comune di Schio.

24 marzo, ore 20  Rovolon (Pd) presso La Castigliola Via Rialto, 62. Leggo assieme a Giovanna Frene, Laura Liberale, Marco Scarpa, Giulia Rusconi.

4 aprile Thiene ore 21,00 Auditorium Fonato, leggo con Stefania Bortoli e Annamaria Girardello. Musiche di Giuseppe Dal Bianco.

6 aprile, Verona ore 18,00 Alessandro Assiri mi presenta  “Le volpi gridano in giardino” e io ricambio, commentando "In tempi ormai vicini" (entrambi editi da CFR)  presso la libreria Bocù (Galleria Mazzini 1/B).

13 aprile, Vicenza ore 18,00  presso lo spazio Voll (via Della Robbia 19), presentazione di “Le volpi gridano in giardino” (reading con Beppe Castagna alla fisarmonica)

Cristina Alziati

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Ho conosciuto la poesia di Cristina Alziati nel 1989, quando uscì, per il Bagatt, le giornate di poesia 89, il libretto fascicolato di un premio con una giuria prestigiosa (Majorino, Conte, Cucchi, Spaziani, De Angelis, Del Giudice, Pazzi). Già allora scriveva versi come questi: "nulla ci sia più così vicino / ad una terra, se la fronte / chiama e alta (dove, ora che / vivi, prenderà piega il mondo?)". Evidente, qui, l'iperbato, di cui è ricco anche il suo nuovo libro, Come non piangenti (Marcos y Marcos, 2012). Figura alta, l'iperbato attesta una scelta di campo, ossia il desiderio di inserire la propria parola nel solco di una tradizione importante, scritta piuttosto che orale, tensiva anziché fluida. Eppure, in generale, la Alziati cura tantissimo il registro comunicativo, limando lo scarto ritmico, arrotondando l'impatto fonetico. L'artificio retorico, come in Petrarca, le serve per acquietare, nello stile, quanto la nuda vita racconta, tra malattie e drammi, personali e storici. Le note finali rinforzano l'assunto. In esse si legge, infatti, di fosforo bianco, uranio e ossido di etilene usati nella prima guerra del Golfo, e di baraccopoli, di acquitrini e cumuli di immondizie, del potere quando smette d'avere legittimazione. Ma appunto questa cronaca feroce, persino quella incisa sulla carne, sfuma gli "aculei", s'addolcisce nel verso senza perdere potenza, si fa segno di una lingua che preferisce guardare il mondo da una stanza e "chiamare per nome ogni cosa" prima che sia perduta. Ogni cosa che piange, ma che sa trattenersi; ogni cosa che ama, proprio perché mortale.

Il titolo ci consegna questo spirito creaturale, attraversato dalla vocazione al finito, nella sua versione più estrema e filosoficamente densa, quella di Paolo di Tarso: "Gli aventi donna come non aventi, i piangenti come non piangenti”. E' Giorgio Agamben, in un densissimo studio su San Paolo (Il tempo che resta, Bollati-Boringhieri, 2000) a sottolineare l'importanza di quel "non", che porta all'essere la negazione quale dimensione dell'aprirsi senza mai risolversi dialetticamente, senza mai essere tolta dal sì della vita. Perché – potremmo dire, semplificando la riflessione di Agamben – il sì senza resto, senza ombra, senza parola ferita, diventa volontà di potenza, diventa dominio. Mi pare sia questo il messaggio che Cristina Alziati vuole infondere al tempo che ci resta, un tempo pieno soltanto se animali, uomini e piante partecipano dell'infondatezza radicale, che li chiama alla scelta ontologica, al decidersi per l'impossibilità del definitivo, dell'assoluto, sia esso luce o buio, salvezza o dannazione. Come non piangenti, ma piangenti, come non parlanti, ma poeti.



Presto, dai vetri aperti stamattina
un baccano di uccelli s'è levato. Folli,
che fate, ho domandato alle chiome
ossidate nel giardino, è novembre.
Sbrigatevi, andate. Lasciate ch'io qui
resti ancora a chiamare per nome ogni cosa,
il grido la piazza. l'arrotino, a ripetere
il fosforo, il fosforo, il cargo, è mattina.
Il mendicante anche se giura
non verrà creduto. Lasciateci.
Che qui resti ancora a guardare, e altri
attraverso il deserto dei rami
tralucano, alberi.


A mio padre

Ti sei lavato, hai indossato abiti intatti,
poi la mente mi slitta ad ogni passo.
Non ho voluto vederti, di certo
ti avranno sdraiato.
Solo vorrei sapere, oppure è un sogno,
che non fu angoscia la tua meticolosa
cura – i documenti posati sulla panca
la sedia che portasti nel giardino, il nodo -
ma un qualche imperscrutabile, ma lieve,
stato. Tutto è con te, segreto.
Forse a spartirne il peso io serbo,
dell’ atto tuo, l’altro versante – il tonfo
della sedia sulla pietra, e la tua assenza
e il dondolio, che cullo, lento, lentissimo
del corpo sotto il pergolato.


da I riccioli della chemio

1.
Come vuoi che racconti dei mesi
di quello straordinario inverno
di gemme anche quassù, e sole
fra i rami nel dicembre, quando il manto
di neve ero io, la corteccia glabra
lo scricchiolio del gelo nelle ossa – per quale
voce straordinaria dirti l’inverno,
quando l’inverno ero io?


Ora risorgi. Chiudi un libro. Esci.
Entri nei varchi fra le gocce, nella pioggia.
Quello che deve sopravvivere viva.
Ancora vuoi sapere il capezzolo
dov' è, dove le carni e quale impresa
prelevi, dove porti, come
venga smaltito questo Sondermùll,
ancora vuoi parlare con l'estroso
chirurgo cucitore, che nei lembi
della pelle ti ha cucito
la discarica all' anima.


*
Tracce II


a Etty Hillesum


Non riesco a inginocchiarmi, scrivevi
e hai portato, dentro i giorni dannati dei campi,
per proteggere dio una gioia.


Forse pregare fu quello - le tue ginocchia,
ossa d'ombra sulla pietra, e tu
per questa terra a camminare in volo.


Ora tu credi che basterebbe un niente,
sedere ad un tavolo sgombro
in un'ora propizia, e lavorare ai versi
lavorare ai frammenti. Io sono fatta invece
di questo non scrivere giorno per giorno ;
dentro il sedimentarsi delle piccole
cose, e delle grandi, sono
l'anima ingombra del loro farsi mute.



Terza lettera ad Antigone

Non ti mando la foto, ti descrivo.
Sulla riva, distesi sotto il sole, vedi,
i bei bagnanti, e i pueri, e il cadavere
poco discosto, soltanto dall’acqua lambito.
Non fosse per i vestiti – per gli stracci -
diremmo che è uno del gruppo, fra quelli
ridenti, uno vivo. È un giorno di festa.

Arriveranno gli addetti, più tardi,
a sgomberare quel corpo; altrove
si sbrigherà una pratica,
faranno un’autopsia, verrà inumato.
Questo però non c’è, nella fotografia.

E nemmeno la bava, domani, dei giornali
né la pena beghina per quel morto,
“zingaro – dirà qualcuno – ma bambino…”
C’è questa roccia, invece
fra il cisto e i rosmarini,
questa roccia residua da cui scrivo,
e dentro l’aria una preghiera
e il mare intero, lento
che prima degli addetti il corpo
si porta via, l’istante prima.
C’è il resto del paesaggio a sua custodia.


Su you tube una bella intervista 

Cristina Alziatiè nata nel 1963 e ha studiato filosofìa. Il suo esordio poetico risale al 1992, quando una sua silloge, presentata con grande convinzione da Franco Fortini, esce in un'antologia. Suoi versi vengono poi pubblicati in varie riviste di poesia, e lei stessa distribuisce copie ciclostilate della sua prima raccolta poetica, suscitando reazioni entusiastiche. Nel 2005 pubblica il suo primo libro, A compimento (Manni), che si aggiudica il Premio internazionale di poesia Pier Paolo Pasolini e giunge finalista al Premio Viareggio. Cristina Alziati vive a Berlino, traduce poesia e narrativa dal tedesco e dallo spagnolo.

Ma quante cose buone, madama fascista...

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Il fascismo ha fatto anche cose buone. Di sicuro, come sempre in un sistema dove gli interessi di parte sono in gioco. Tuttavia, chi sostiene questo in modo acritico, dovrebbe rispondere anche di quanto segue:

Squadrismo

E' il termine con cui si indica un fenomeno caratteristico del fascismo, consistente nella militanza all'interno di squadre d'azione fasciste fra il 1919 e il 1924. gli squadristi delle campagne distrussero, usando la violenza, le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra, leghe bracciantili e cooperative, a tutto vantaggio dei proprietari terrieri, degli affittuari e anche dei commercianti che soffrivano la concorrenza delle cooperative rosse. Gli squadristi si avvicinavano a bordo di camion aperti (generalmente i BL 18  in dotazione all'Esercito) cantando inni e mostrando le armi ed i manganelli, quindi assalivano l'avversario praticando una sistematica devastazione: venivano colpite le sedi ed i luoghi di aggregazione dei partiti (principalmente il partito socialista), le Camere del Lavoro, le sedi di cooperative e leghe rosse. Queste venivano danneggiate o, spesso, completamente devastate, le suppellettili e le pubblicazioni propagandistiche bruciate nella pubblica piazza, gli esponenti o i militanti delle fazioni avverse bastonati e costretti a bere olio di ricino. Tali azioni di norma davano luogo a scontri fisici o con bastoni, spesso però, specialmente nelle fasi più calde del conflitto, diventava frequente l'uso di armi da fuoco e persino da guerra, terminando le azioni con feriti e morti sia tra le diverse fazioni in campo che tra le forze dell'ordine.


Delitto di Spartaco Lavagnini

Fu un militante socialista, precursore della "svolta" comunista, ucciso dagli squadristi fascisti il 27 febbraio 1921.


Delitto di Don Giovanni Minzoni 

E' stato un religioso e un antifascista italiano. La sera del 23 agosto 1923,  venne ucciso con una bastonata alla nuca in un agguato teso da alcuni squadristi facenti capo a Italo Balbo.


Gran consiglio del fascismo 

Massimo organismo direttivo del Partito nazionale fascista, istituito nel 1923. In seguito allo sviluppo del regime fascista assunse un rilievo sempre maggiore, sancito dalla l. 2693/1928, con cui esso, direttamente dipendente dal capo del governo, estese le competenze anche in materia di prerogative della corona, divenendo organo di massima rilevanza costituzionale. Il suo ruolo istituzionale fu confermato dalla riforma del 1929, che stabiliva il controllo del partito da parte dello Stato; quest’ultimo imponeva al partito uno statuto proposto dal capo del governo, cui spettava anche la nomina delle cariche dirigenti. L’ultima riunione del G. (24-25 luglio 1943), con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato da D. Grandi, segnò la caduta di Mussolini 

Delitto di Giacomo Matteotti

Il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti pronunciò alla Camera un duro discorso contro il governo, accusandolo direttamente di essere il responsabile dei soprusi che avevano accompagnato tutto il periodo elettorale finanche il giorno delle elezioni. Un discorso che animò il Parlamento e che si concluse con una diretta e inequivocabile richiesta: “Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni”.
Qualche giorno dopo, il 10 giugno 1924, l’onorevole Matteotti fu picchiato e rapito dai fascisti all’uscita della sua abitazione di Roma e poi ucciso; il suo cadavere venne ritrovato solo diverse settimane dopo. [...] Mussolini chiuse questo caotico periodo con il celeberrimo discorso tenuto alla Camera dei deputati il 3 gennaio 1925, con il quale si assunse “la responsabilità politica, morale e storica” di quanto era avvenuto in Italia negli ultimi mesi, discorso che è ritenuto dagli storici l’atto costitutivo del fascismo come regime autoritario.

Leggi "fascistissime"

 Si comincia con la legge n. 2263 del 24 dicembre 1925 che definiva le attribuzioni e le prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri il cui nome mutava in Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato e la cui posizione gerarchica. La successiva legge n. 100 del 31 gennaio 1926, dette facoltà al potere esecutivo di emanare norme giuridiche, senza efficaci garanzie d'intervento da parte delle assemblee legislative. Pochi giorni dopo, il 31 dicembre 1925, entrò in vigore la legge sulla Stampa, la quale disponeva che i giornali potevano essere diretti, scritti e stampati solo se avevano un responsabile riconosciuto dal prefetto, quindi dal governo. Erano assolutamente vietate la diffusione e circolazione di qualsivoglia altro tipo di giornale considerato illegale. In conclusione, la legge 3 aprile 1926 proibì lo sciopero e stabilì che soltanto i sindacati "legalmente riconosciuti", quelli fascisti (ormai detenenti il monopolio della rappresentanza sindacale dopo la conclusione del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 fra la Confindustria e le corporazioni fasciste) potevano stipulare contratti collettivi. In sintesi, le leggi completate ufficialmente nel 1928, stabilivano di fatto e non di diritto che:

  1. il Partito Fascista era l'unico partito ammesso;
  2. il capo del governo doveva rispondere del proprio operato solo al re d'Italia e non più al parlamento, la cui funzione era così ridotta a semplice luogo di riflessione e ratifica degli atti adottati dal potere esecutivo;
  3. il Gran Consiglio del fascismo, presieduto da Mussolini e composto da vari notabili del regime, era l'organo supremo del Partito Fascista e quindi, dello Stato;
  4. tutte le associazioni di cittadini dovevano essere sottoposte al controllo della polizia;
  5. gli unici sindacati riconosciuti erano quelli fascisti; erano proibiti, inoltre, scioperi e serrate;
  6. le autorità di nomina governativa sostituivano le amministrazioni comunali e provinciali elettive abolite per legge;
  7. tutta la stampa doveva essere sottoposta a controllo, ed eventualmente censurata se aveva contenuti anti-nazionalistici e/o di critica verso il governo.
Va ricordato infine che, nel 1926, fu istituito il Tribunale per la sicurezza dello Stato, che aveva il compito di ammonire o di condannare le persone politicamente pericolose per l’ordine pubblico e la sicurezza del regime. Con la stessa legge che creava  la succitata istituzione, fu ripristinata la pena di morte  per chi attentava alla vita del Re o alla libertà della famiglia reale o del capo del governo e per altri reati contro lo Stato.Il Tribunale emise 4596 condanne per reati politici. 3898 erano operai e contadini.


Delitto di Piero Gobetti

Fondò e diresse "Energie Nove", "La rivoluzione Liberale" e "Il Baretti". Fu anche il primo editore di Eugenio Montale. Mori a 25 anni, nel 1926, in seguito alle violenze fasciste.



Delitto di Giovanni Amendola:

Al programma giolittiano, che intendeva sfruttare l'illegalismo fascista in fase elettorale per decimare i deputati socialisti e popolari, Amendola contrappose più volte il programma di far entrare nella legalità il fascismo, legandone i deputati, direttamente o indirettamente, al governo. Per questo, fino a dopo la discussione parlamentare della riforma elettorale Acerbo nel luglio 1923, anche l'A. fece sempre buona accoglienza alle dichiarazioni di legalitarismo che Mussolini andava alternando all'illegalismo e alla violenza. Fu nettamente ostile alla marcia su Roma. Il delitto Matteotti lo indusse, insieme con le altre opposizioni eccettuata la comunista, a ritirarsi dalla Camera e a dar vita al cosiddetto "Aventino", del quale fu l'animatore politico. Concepì l'Aventino come sede della legalità, contrapposta al governo e alla Camera, considerati illegali; e si oppose sia ai vari tentativi, caldeggiati da repubblicani e garibaldini della "Italia Libera", di insurrezione armata, sia ad alleare l'opposizione aventiniana a quella comunista. Nell'aprile 1925 si fece iniziatore presso B. Croce, in risposta al manifesto Gentile, del manifesto degli intellettuali antifascisti, che fu pubblicato sul Mondo del 10 maggio.
Intanto l'A. subiva una seconda aggressione a Roma, in via dei Serpenti, il 5 apr. 1925, poi un'altra ancora, ben più grave, il 25 luglio, sulla strada fra Montecatini e Pistoia. Ammalatosi in seguito alle percosse, si recò a due riprese in Francia. Sempre malandato in salute, rientrò in Italia dove, ai primi di dicembre, sciolse di fatto l'Unione nazionale. Alla fine dell'anno tornò a curarsi in Francia. La morte, provocata dai postumi dell'aggressione di Montecatini, lo colse in una clinica nei pressi di Cannes il 7 apr. 1926.


Il confino

Fu lo strumento più utilizzato dal regime fascista, a partire dal 1926, per contrastare la nascita di un’opposizione politica organizzata. Fino al 1943 furono attive in Italia ben 262 colonie di confino, situate prevalentemente nel Mezzogiorno, e 13.000 circa furono i cittadini sottoposti a questa misura restrittiva, il 90% dei quali per ragioni di natura politica.


Lista unica elettorale

Con la legge 17 maggio 1928 n. 1029 ed il Testo Unico 2 settembre 1928, n. 1993, fu introdotto un nuovo sistema elettorale di tipo plebiscitario, come già allora lo si definì. La nuova legge elettorale prevedeva un Collegio unico nazionale chiamato a votare o a respingere una lista precostituita di 400 deputati, lista formata dal Gran Consiglio del Fascismo a partire da una rosa di 850 candidati proposti dalle confederazioni corporative nazionali, 200 candidati proposti da associazioni ed enti culturali ed assistenziali ed ulteriori candidati scelti dal Gran Consiglio stesso. Gli elettori potevano esprimersi con un "sì" o un "no" sul complesso della lista, esprimendo il proprio voto su schede recanti l'emblema del fascio littorio. Nel caso in cui la lista non fosse stata approvata dal corpo elettorale, era previsto che la consultazione si ripetesse con il concorso di liste concorrenti, presentate da associazioni ed organizzazioni che avessero almeno 5.000 soci elettori. La lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti, avrebbe avuto tutti i propri candidati eletti. Nel corso degli anni '30 anche gli ultimi residui della concezione liberaldemocratica della rappresentanza politica furono cancellati e, con la legge istitutiva della Camera dei fasci e delle corporazioni (legge 19 gennaio 1939, n. 129), l'organo legislativo cessò di essere eletto.

Guerra chimica

Con il termine guerra d'Etiopia o seconda guerra italo-etiopica(talvolta nota anche come guerra d'Abissinia o campagna d'Etiopia) ci si riferisce alla guerra condotta dal Regno d'Italia  contro lo Stato sovrano d'Etiopia, a partire dal 3 ottobre 1935. La guerra si concluse, dopo sette mesi di combattimenti caratterizzati anche dall'impiego di armi chimiche da parte italiana. La guerra finì il 9 maggio 1936


Asse Roma-Berlino.

Accordo stipulato tra Germania e Italia il 24 ottobre 1936, sanciva il primo concreto avvicinamento tra i due paesi, divisi in precedenza dalla questione austriaca e dalla collocazione rispettiva nel quadro delle potenze europee. L'Asse era stato preparato dall'appoggio diplomatico che la Germania aveva offerto all'Italia impegnata nella guerra coloniale con l'Etiopia (ottobre 1935-maggio 1936) e nella reazione alle sanzioni. Le prime conseguenze dell'accordo furono la partecipazione di Italia e Germania alla guerra civile spagnola, in appoggio alle forze franchiste, e l'adesione dell'Italia al patto anticomintern (autunno 1937). Nel maggio 1939, avvenuto l'Anschluss(Annessione dell'Austria), dopo la conferenza di Monaco e l'occupazione italiana dell'Albania, egli si decise a firmare il cosiddetto Patto d'acciaio con Hitler. Nello specifico le parti erano obbligate a fornire reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettevano a rischio i propri "interessi vitali". Questo aiuto sarebbe stato esteso al piano militare qualora si fosse scatenata una guerra; i due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di guerra, a non firmare eventuali trattati di pace separatamente; la durata del trattato era inizialmente fissata in dieci anni.

Delitto fratelli Carlo e Nello Rosselli
Attivisti  dell'antifascismo e fondatori del partito "Giustizia e Libertà", vissero a lungo in esilio a Parigi e furono uccisi in Francia nel 1937 da formazioni locali di estrema destra, molto probabilmente su ordine proveniente dai vertici del fascismo.

Leggi razziali
Serie di decreti emanati tra il 1938 e il 1939 dove si estromettevano gli ebrei dalla scuola, dal mondo dal lavoro, dalle ordinarie relazioni civili, per la difesa della purezza della razza italiana. Durante la Repubblica Sociale Italiana, circa 7000 ebrei morirono nei campi di sterminio dopo essere stati consegnati ai nazisti dai repubblichini. (Solo il 16 ottobre 1944, a Roma, ne furono deportati a Auschwitz 1023)
  

Augusto Blotto

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La scrittura di Augusto Blotto procede per sequenze impietose di materiale linguistico in cui il mondo viene scomposto e riconsegnato al suo disordine. Con la convinzione che la scrittura non partecipi della fluidità dei corpi nell'aria, ma semmai viva in una conserva semisolida, dove anche l'occhio fatica a procedere. Verso dove? Nella dimensione dell'interstizio, linguistico e ontico, e comunque in circolo spiralidoso. Più che il principio del piacere, in questi picchi e rimasugli, domina il complesso dell'artificiere, la convinzione che nessuno meriti d'attraversare il ponte che collega il segno al referente. Blotto fa saltare la convenzione, secondo la quale il mondo sia rappresentabile. Lui ci mostra il rovescio, la cucitura, indicandocela come più vera. L'irrapresentabile, ci dice, è la costola del corpo in cui inabitiamo, lo scabroso che ci procura l'inquieto sostare, l'andare spaesato. Certo non del buon selvaggio né del travet: Blotto parla la lingua dei libri, dei folli per troppa lucidità, di chi usa il cannocchiale rovesciato per principio. con spirito colto, ovviamente. Che poi non si dica che la poesia non è dirompente: poesia come anarchia e pratica lessicografica ad uso dei sabotatori, alla faccia dei poeti col cravattino, piagnucolosi e/o servi della lingua del potere. La critica militante lo sostiene, il mondo lo ignora, come dev'essere quando il poeta riscrive non le trame dell'esperienza filtrare dal principio di non contraddizione, bensì i modi in cui il simbolico si muove sottotraccia, e non ha altro essere a porgergli l'orecchio, se non il rumore miasmatico dei fonemi e gli scricchiolii del senso quando questo diventa rizomatico.



Giunture inerti della collinosa
terra, vertebrata in deserti, o toraci
quadri, con punzoni all’insù, sistono
ad aspettare, in formicolo d’aria, accadere
fermo nella consapevolezza del mondo:
anche allegro, perché l’abbondante ricchezza
di atti mangerecci o peggio tra poco
(e gioisco, dietro scatto d’elastico)
(che manifesti intenzioni di catapulta)
sveglierà, infallibile freccia del noto,
le maglie dei postini (l’acido), le compere
svasate delle mogli o il campanile
presso tabaccheria, addetti a sogno della
- purulentetto in corruttela –
cultura; brioches azzurre nei casamenti
- stessa tinta dei grembiali e intonaci –
vaporanti come oblò turgidi (Sakhalin
veda gente che si appresta ad alcunché?
il mistero curioso accerterebbe,
in tentativo, nerumi, così intimi);
ferrovieri arretrar Tempo a fornelli
di locomotive, con strascico di militarizzato;
clangore porta (in cielo!) le teorie luminose
nell’avvivarsi incarnato, tra i costoni
d’autostrade udibili in confortato
continuo, cioè già da sempre o molto,
e ci confidano giusto aeroporto
ormai con le gialle chiazze di chiaro;
il fluido lungo i grattacieli asiatici
corona di principe le figure scorrenti
in faccende ignote, melogranate  vistose
di risorse, anche per noi, forse, pensive:
la seria camera della contemporaneità
cala bianca su piane e trasversali
               le catene, girandoci, tipo a scimmietta,
il capo nell’assicurarci che c’è
del nuovo, a cespo di smeraldo bagnato,
ben disposto, al di là degli artigli navali
sotto la cui forma si afferma, duri e franchi,
la stellina del proponimento a viaggio, seta
ancorata a lidi popolari, angoso
pasciuto frastagliare [promontori]
                               Gli stretti, le calcidiche
minuettan lancette di manometri
mentre l’olio se ne va calmo, premio
rimandato scivolar fra rotelle la rosa;
torti a quello che sta preparandosi
la vetrata, ghiera alma, da cui contenuti
guardiamo, non dà per sua scelta
confusa, nudinamente regale
di inadatto accertato e poco spinto
in là (tanto, basta il bel riposo, zeppa
che linearmente ci satolla di “avanti!”

Il presente che non ci sconfessa è gonfio di Saŏne


(sperando che terrazze botticellin poc’umido);
la traiettoria del prossimo corpo ne dedurrà
inconcludenza bennata, quel compagnìo
che con sponde universe guida il toccare
or sì or no dei bracci su pedana
fluminosa; il vetrettino del riporsi
tranquillo cèlla una sua cunetta, da dove
rivoluzion vera un po’ è scattata,
lo ammetto, per intervento non so,
ma certo perchè i pori siccome configurati
se ne son stati, in fermo gruppo, a influire
    
                                            dicembre 2009

                           = = = = =

Da un viadotto si scopre un orticello
                                                            Prima
di sera arriveremo, dopo migri
d’acquitrini, a un blu d’occluso
fortificato, una magra, sclerotica
camera quasi zeppa d’avventura

I nascondigli che il tragitto ha via via
nel rivelare scorto, poggiano su acqua
del volerci dormire vicino: almeno
 per una volta, confortare la corsa
in un futuro tutto ridentii
d’industrie, da cui scappellino gilé
(non disgiunti da erba in filo all’angolo
della bocca, siepi in notturnare danze-
-reccio con luminosità che non finisce)
e tèntino di non lasciarci andar via

La voglia di raccontare straripi-epopee
sui casi degli abitanti intravisti
mulina in giravolte carta d’aria
mentre non dobbiamo difenderci da nessuno:
il piede rapido è infatti trasportato
sì come un’elegia longanime non
lo lasci farci festa con alcuno
dei posti in cui, canuto, pur potrebbe
stendere o tessere il drappetto del risiedervi

Tale tipo di protezione notturna
effervesce per tutta la giornata
inveduta da propositi pignoli
e febbrili: recanti, se non oggi,
in un sicuro non trattenere il presente
dalla sua stasi, beatamente quasi
cieca, fibrata di dote energia


gennaio 2010


                   
= = = = =

Nell’alto mondo, e le cose non finiscono.

Nulla è da piangere e un commento al ricco
che si trova nella felice casa o campi mi butta di là,
dove s’apre la radura dello star bene e i suoi piedi
sono robusti, essa è bella e intelligente,
comportamenti non sono sminuzzati più del dovere,
io stesso sopravviverò, comunque non pretendevo

L’aria da mongolfiera di sapersi disposti
a un malleato tacere come il bruno rivierasca
un origano in giri, di notte, l’affronto
solennotto a uno stiracchiarsi di morte: un ritorno
le cose di me pasce d’un aver segni
del diniego quasi finti tanto zitti,
simili a un cartaceo di lingua il farsi spostare
è dolce della mezza brunatura, e non saper proprio
come tocchi, di lato, un qualcosa d’uno
fra gli attorni, a partire da domani
oppure questa sera medesima fa ingresso

Quasi un appello a amici di niente o vento
o dita che si pìcchino, far capire; e non so
se era l’ora,
                                     un nutrito assai caro e bello,
elencante poderosità, è l’altra persona
georgicamente disponente, e viva di studiar luce:
grandi cose sono toccate a chi fu normale
nel rigeneratore, base di famiglia giovane,
e bisogno accompiuto fu questo nei grandi animi:
fra tale senato io sarò, potrei meritarlo,
meritare è un presente che pensa su di sé lo scopo,
l’accingersi a un giovane intellettuale e accettabile
di illuminata vigorosità non tralascia il suo caro
ricco e uno si fidanza con fisitura?

Quando gli anni lasciano che le cose vadano
il modo che avrò di parlare dà un consueto molto serio;
quando si pensa a un avvenire prossimo e quasi ricevente
la formatura di me riordina calmo come morire,
e non è troppo, un solido vento di commiati a sbuffo sorpasso moro.


Cravanzana
marzo 1967
                         = = = = =

La terrosità, la luce che intercide
- tamerici e dossi cedui - abbassa
i pensari al fimo sui marciapiedi,
leggero in pagliuzze, quando le città
glàucano e nèurano la frettolosità,
quando cioè ogni via appare invasa
da aspetto solo da donne delle pulizie
e autobus barrirebbero (aeroporto
è il finale, scarpate erose, di questa strada
slargantes’anatra al celestino?);
                                                                           eccomi (gnòmico),
son gli stessi ritaglini su polvere
di ghiaie che sforbician le feste
finienti con campane rosa
a cinerare bandiere, bambini
- e le precoci mamme paion frastagliate
di mordicchio, tanto disavvivate -
usanti il commiato: la presenza
d’ugne (un po’ molli, dunque) di terriccio
quasi la povertà estendesse, plaghe,
pallor di ritardato su voi – grappa
formicolante particellata o crespo
argenteo da specchio – montoni
- di altimetria maculo, costola -
glabri di vetrate acceca, corno
duro di ciò che si clama altopiano o necessi-
-tate tedia in sferruzzi mini chi detta

L’incapacità di volere di aver voglia
sbocca e rompe i tubicini bombé
che vegetano in un liquido da ciglia
piegandosi a ditone: è circostante
negare d’aver mai vissuto, pinza
su martingala esponendoci putti,
conigli ritti in fila, maninati,
a uno sciabordo più che sporchetto indeciso,
l’aria al cui ignoto siamo indaffarati

Si tratta d’insipido e Spagna, città
di cui l’alba tardante arrondisce
bordi acquei e l’odor di cavallo
supino a gronde di marciapiedi occlude
sapor di non tirarci via di qui
nemmeno depositando oncia, bisaccia;
è anche di prosciutto, il bigio del clima
pesante, le inesplicabili in mestieri
o sorti dimore cui si accede
con porte da non-approvo e latro di androni
(l’evanescenza delle marche in cibarie
e vesti, più che l’orror-ributto è, grince,
il fischio puleggia tesa della poca disponibilità
di mezzi – risipolate in nero
perfin più nari e visi che ascelle -)

Brùmano di difficoltà economiche
i grandi quadrangoli della calura
- quasi la noia mortale di visite a Regge -
cassonanti le mesetas (bastioni
di terra erta da accompagnar a abbevero
belve di giallo-nero, o retiforme
l’acqua fra arena giganteschi alberi
fatti a gonnella di dama assèta
di staglio da pericoloso sforarle (uscirne), cerchio)

Se esci in blocco di vie che non capirne
i cespiti e gli ambiti è un azzurro
stiacciato di mulo (con le farfalline
che vi àlitan gialle), il fetidume lieve
è sempre che si fa giorno, sarti
o altre occupazioni calpestano
le cartine sul sollucido, sbrecciate
quasi semi sian stati sputati
di lato (e il comptoir nero bottiglia
torchia lubrifico)
                                                L’asciutto esalo
di pneumatici tondi o formaggi
rotolati, avviso di città
spenta in sesso (di tregua disarmata
ma pronta) naviga flesso col fiuto,
che è la dote frequentata e utile
per non soggiacere troppo
                                                I parchi pubblici
limitano la speranza, tagliandola;
più quando son percorribili di vasto,
accidentati di non tanti metri,
muniti di asfalto su cui con sollievo
si esce dalla crusca di sterrati
magari anche elicoidali, o con isole,
stretti, lagune: il non meglio
respirato della sottile lamina
(calcare, lingua bianca)
                                                Tacchi, slaccio
delle mediocri marsuine che legiònano
chissà perché autoritarie d’affanno
a pulir sedi o condomini o madri
di famiglia a badarsi segretarie
- smodato e madornale, pettorale, occhiale,
penso al sudicio che non ha età,
cuticagna fornente renseignements -,
oh, buttate, in non accorgentesi innocua
dispensa, qui da noi quel solito piccolo
risparmio (così rastrella margine
il cordino dell’onda flutto): una tela
di bianca gonna né troppo sporca né corta,
un rampicar desistente ad ascelle,
un corvino irritato muglio; il poco,
e strano, comunque non sentenza
pretendendo da noi al balzo della risposta

Basta non porsi mete; il tòsco del sonno,
lana massaggio pregna di giornata,
sussulta uno per uno, ma nel bell’
insieme, i tappi delle reti che,
schietti e fidi, non sapevamo d’aver gettate


Madrid
agosto 2010


Augusto Blottoè nato a Torino il 12 marzo 1933. Ha scritto 58 libri, non tutti editi. Quasi 20.000 pagine.

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