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Da un incontro a Bagni Froy, una recensione di Andrea Zambotto al "Beato confine"

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L'estate scorsa, sono stato invitato da Mario Bertasa a leggere le mie poesie in Alto Adige, precisamente a Bagni Froy: un ex colonia termale immersa nei boschi, a 1150 metri di altitudine, dove decine di volontari organizzano una vacanza alternativa, tra escursioni, incontri culturali, e laboratori di ogni genere. Il pubblico offre delle sorprese straordinarie, come questa: la recensione a Come a beato confine, scritta da Andrea Zambotto, persona gentilissima, che non conoscevo. Me l'ha spedita un paio di mesi fa e io la posto con entusiasmo e gratitudine. Qui informazioni su Bagni Froy.

 

Il poemetto Come a beato confine di Stefano Guglielmin mi è parso ad una prima lettura un viaggio, come il titolo pare suggerire. In realtà sottende una dichiarazione di poetica, che nel suo motivarsi assume la forma di un obiettivo: superare quel confine dell’io, entro il quale la tradizione letteraria ha relegato il poeta.
L’intento, configurandosi in più tappe, da un “io terza persona” al riconoscersi in un “noi” ad un perdersi nel “Dappertutto”, può nel suo aspetto formale prospettarsi per l’appunto come un percorso, che nella ricerca d’oltrepassare il confine dell’io, porta a chiedersi, a lettura ultimata, se tale scopo sia poi stato raggiunto.
Però non è il superamento del limite io, a stabilire la legittimità della poesia di Guglielmin, quanto il tentativo, di per sé giustificato dall’intima esigenza di uscire da quel confine, quale presupposto di un altro porsi di fronte alla e nella realtà.
Quindi una metamorfosi in divenire, che nella prima parte del poemetto, dal programmatico io dovrebbe alle successive tappe, aspira ad un noi, (attraversiamo l’orto/ insieme/ la terra le parole il perfetto/ svanire dell’orco/ il suo farsi parte di me/ di te....), che di fatto diventa il confine, dove l’oltre permane spazio dell’assoluto, del mistero, dell’inafferrabile, eterno miraggio al quale necessita dare concretezza, che è il motivo stesso dell’universalità della poesia.
La presa d’atto di una condizione esistenziale relegata nell’aldiquà del confine, non è la notifica di un fallimento, perché, nel progressivo tentativo di rispecchiarsi/riconoscersi in un tu/egli/noi, pur mai definitivamente acquisiti, vi è tuttavia l’antidoto al precipitare nel caos di un io disancorato e frantumato in un Dappertutto, che non a caso titola la conclusiva seconda parte del poemetto.
Questo l’impianto concettuale avvalorato nella prima parte da uno stile nitido, che conduce il lettore nella quotidianità poetica di Guglielmin, vissuta come ardua difficile conquista di una fratellanzanecessaria per riconoscere la propria individualità.
Quando manca l’urgenza a ricercare nell’altro da sé il senso del proprio esistere, si prospetta invece l’annichilente solitudine dell’individuo perduto nel labirinto di un oggi, governato apparentemente dalla tecnologia, in realtà dominato dal caos. Un riscontro anche stilistico, perché, a differenza del pacato intenso verseggiare della prima parte del poemetto, le strofe di Dappertutto, dall’apparente struttura grafica ben ordinata, alla lettura rimandano invece ad un susseguirsi di caotici impulsi e rimandi, riecheggiante il ritmo sincopato ossessivo di un’estraniante musica rap.
Si avverte nelle poesie di Stefano Guglielmin una tensione che non insegue facili effetti, né tanto meno appare succube di trascorse suggestioni letterarie, vi è soprattutto la ricerca di un linguaggio capace di testimoniare la complessità di questo nostro tempo.



Come a beato confine (Book, 2003)



da Io dovrebbe

2

io dovrebbe
con la lingua mettere a fuoco
l’esatta dimensione del vuoto
               e stare in bilico sul bordo                    
capro del suo piede



3

io dovrebbe
vagare al laccio d’un cavallo
a dondolo per croste e nervi e
corse d’altra natura
scrivere di quella cosa che la luce tarla



10

io dovrebbe
cavalcare la lama, il passo
l’orlo, così che intera
la deriva sfumi ed in bilico
sull’ora la festa sposti
i sassi in cerchio, l’asse
del dio instabile nel centro


da io fatica e migra

2

alla leva che volta
in luce il vuoto dell’occhio
io preferisce l’orfano gridare
e darsi in cibo a chi soccorre



5

nell’assurdo che crepa
l’ostia e il tempo, io s’invena
come topo in fuga nei sifoni
pregando nella corsa l’ombra
e l’infanzia che riluce



6

io salva
all’inguine e alla lingua
la giustezza delle carni
il cedevole lo sposta invece
nella vena aperta dalla voce



da a nuovo rivo egli s'avvia

1

passando
io trova l’identico frutto
che nel rifugio le foglie
dopo il volo e l’estate



6

sulla lunga scia distratta
alla luce io contende
segreto e golfo
alle parole la volontà del seme


da Noi


1

io seme parola prato
arto malato
io che
io quando
io dunque
e dunque tu
benedetto a sete e fame
a ruggine che in lievito muta
palpito e misura



6

non l’ammaestramento dei folli
né dei fanciulli in fiore
bene invece il nome allo spazio
che trema e insieme
li sposa, a quel tempo
dove esilio e morte
all’infanzia volgono lo sguardo
come ad anello iniziale



da Dappertutto

 chiaro che conoscere il ferro e l’effetto del calore sul ferro il suo diluvio là dove qualcuno veglia il giorno la salita dei titoli il proprio piccolo cuore chiaro che sapere l’effetto del fuoco sulla carne sull’equilibrio della borsa chiaro che tutto questo precipitare lontano sposti il peso la forza dell’occhio ogni suo precedente candore meno evidenti il rovescio che in quelle piaghe spurga e il selvatico che ancora adesso la pietra rilascia


se fosse uno spot se questo testo fosse una voce multipla una spinta a stare in piedi ad applaudire o a piangere se fosse un ordine o l’insieme dei modi in cui stanno le cose se fosse una forma stabile un covo da far saltare se fosse un fosso dove le mani come in principio e le parole e i bambini come in principio s’addormentano se non fosse un filo teso una lingua stesa tra due vuoti somiglierebbe ad un paesaggio in guerra ad un vetro a scaglie dove rilucano primavera e tralcio l’insieme delle pasque da cui muovono i livori











Andrea Zambotto, nato a Padova nel 1945, ha dovuto coniugare la sua irrinunciabile passione per la letteratura con il lavoro di tecnico in una grande impresa di costruzioni idraulico stradali, che dal 1967, dalla permanenza in varie parti d’Italia, l’ha portato a lunghi trasferimenti all’estero: Libia, Algeria, Germania, Romania, Ungheria, Slovenia e Croazia.
Laureatosi nel 1985 in Lettere all’Università di Trieste, dal 1986 ha collaborato con le riviste: Letture, dove ha pubblicato un saggio su Ferdinando Camon e recensioni varie su autori italiani e stranieri; Scienza Duemila con articoli su Konrad Lorenz e l’etologia.
Dal 1988 fino al 2003 le sue recensioni su tematiche letterarie sono apparse sulle pagine del quotidiano Il mattino di Padova e Il giornale di Vicenza, dove in quest’ultimo, oltre alla letteratura, i suoi articoli hanno interessato il cinema e fatti di costume.
Nel 2009 per I Nuovi Samizdat ha pubblicato Sándor Márai dall’oblio alla scoperta di un grande scrittore.


Antonella Anedda a "Dire poesia" (Vicenza)

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Mercoledì 20 marzo, ore 18,00
Palazzo Leone-Montanari
Vicenza

ANTONELLA ANEDDA

Qui i dettagli

La "Chanson turca" di Cristina Annino

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Curata per LietoColle da Maurizio Cucchi, Chanson turca di Cristina Annino mette in opera quello che altrove Donato Di Stasi definisce "ragionamento emotivo" ossia quel cortocircuito prodotto "fra le pulsioni profonde e gli strambi sillogismi di superficie". In effetti, la poesia anniniana, così come la sua pittura, ricava il proprio oggetto da un magma imperscrutabile che, lungi dallo scomparire nella forma, chiede udienza per sporcarla, contaminandola con i suoi detriti. Il ragionamento, infatti, non perdendo il contatto con l'ipocentro tellurico, viene a galla con sintagmi luminosi quanto enigmatici, deliranti eppure perfetti nella loro persuasività: "Ognuno / conduce in terra le sue passioni, / è chiaro. Per questo l'hanno / aspettato sempre seduti / sulle panchine". Per converso l'emozione, carica di pulsione, si cristallizza in immagini debordanti, talvolta di matrice dadaista, come "Koko accende polmoni a spiovere con / le orecchie" talaltra nella decisione imponderabile degli a-capo, mai come ora asintattici, nervosamente slogati da preposizioni semplici e articoli.

Se la prima sezione della Chanson ci fa entrare nel laboratorio più affascinante della Annino, poetessa amata da differenti generazioni proprio per la sua capacità di comunicare lo scarto fra evidenza del reale e sua interrogazione, la seconda ci porta nel conflitto sociale, tra cronaca e storia, ma anche nel grande tema leopardiano del rapporto uomo-natura. Lo fa costruendo un'operetta morale in versi, in cui ironia e tenerezza verso i deboli, preoccupazione per il destino collettivo e affetti familiari –primo fra questi Koko, il gatto siamese – si combinano in un dettato più comunicativo, ma sempre alla maniera anniniana, con inserti vocativi, modi di dire, procedure analogiche e metafore sorprendenti. La novità stilistica più evidente, nel libro, è l'uso insistito del corsivo, che amplifica quel "senso tribale / dell'idea ritmica" che guida la voce inconfondibile dell'autrice, qui e altrove.

(uscita in "Caffè Michelangiolo. Rivista di Pensiero e Arte, Anno XVI - n.2 Maggio-Agosto 2011) 


Oltre Mosè

Koko accende polmoni a spiovere con
le orecchie. Quel suo fischio – non lo
nego –, le vibrazioni
smilze, le acca, l’esclamativo, spartiranno
onde nel corridoio. Eppure vorrei un
pensiero più grande, atomico, da Madonna
di strada, madonnaro; lo
dipingerei sull’impiantito coi piedi. E’
questa lentezza di cottura che
ci incatena, ci formalizza, ecco, la
valanga l’avvertiamo ma ancora non
ci tocca. Siamo pura
virtualità, anzi scolo di maniera direi, stipati
in bomboletta cadiamo tutti
insieme senz’ossigeno più, uccelli senza
gola né nubi, fusi già in volo. Neppure
la bellezza molecolare dei gay!



La griglia del dispiacere

Ha girato sui cardini: la mamma nel
ciclone dà i numeri e il
tempo ha le bende. Niente più
sudditi, doni, domani, son finite le gemme
sul serio. Eccoci! Ha sognato come
nessuno, la cenere. Che
tutto fosse lì, ormai da spazzarlo via col
pensiero oppure le mani.
Con gli animali, lei lotta anche in
sogno, tossisce fino al palco
dell’alba di quel granaio.
Ché, se togli libertà a una
persona, questa altrove se la
rifà e diventa più dolce
la marmellata! Ma uno schiavo
di meno conta, nel bilancio dello
spirito. (Lui fu
lasciato solo: non volle quel
dolore, quell’altro, né le sagome
del discorso che chiudono porte,
allacciano scarpe magistralmente.
Neppure
le carte scoperte, non volle l’odore
medico delle bocche; né il facchino di
quelle nuvole o il carico dei materassi. Lo
spazio e l’ozio non ebbero
limiti, e ogni eccesso.) Il resto finiscilo tu.



Destino del giovane Enrico

Sa che deve affrancarsi ed essere
svelto.  Disonorare i
capolavori che l’ hanno fatto. Sarà
anche fioco, perdiana, sarà
opaco in qualche prato senza
estasi. Proteggendo le mani com’un
pianista, suonerà a dovere con le
spalle magari, senza  niente in
vena, posate
le ali sul pezzo di sé rimasto
intero. Lento, se lo fissano, piano, poi
fingendo, poi ruberà giornalmente
se necessario, un  gradino intero; ché
salire appena di meno è tremendo.



.Ricordo, terribile maglio

Non sa pensare a quel ricordo, né
starci dentro; una gran fatica! Cielo
fatto in due di cotone umido. Sarebbe
posarsi sul sacrificio d’un santo, con
gli spini come si dice. Troppo alcol,
miseria e la tossina pesante
dell’aria quando
arrivi davanti alla fine. Ma
non può uscire da lì. Dice
mezzano è il pensiero, però non
c’entra e lo sa, dovrebbe passare il
fumo che la getta indietro! Non ha
niente perché lui l’ha
resa innocua: né amici, speranze, via
segreta. E’ cosciente al
massimo dell’allerta, ma ormai fatta per
il consumo.



Plagio, invasione, imitazione piccina

Ora l’ossessiona  la Cina, che si
mangia paese su paese come
fragole per merenda. Diventeremo 
lei! dice in
stile da scuole medie, piagnistei.
Chiacchiera, poi gira
pagina, e non
vede quel che dovrebbe: che
biada d’ogni Storia è il
plagio. Anche la
terra agli indiani ma anche
prima, pare strano è
così (pensaci, California!).
Anche l’invasione
tranviaria - dietro le spalle uno
ti becca quel che può. Lei
copia la scrittura di lui
staccandola dai rami, col
salto dello stesso
tramvai. Roba da Cina, mica
ruba le mele! La mente, le 
parole, l’ abc, se li mette nel
piatto titillando quei bottoni
del pigiama com’un malato
le flebo.

Qui e qui due interviste interessanti.
sul sito di Lietocolle la biobibliografia.

Leopoldo Attolico

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La poesia di Leopoldo Attolico non trova tantissimo seguito oggi: l'umorismo alla Palazzeschi, ironico e scanzonato, fanciullesco più alla Lucignolo che alla Pinocchio, pare vapor leggero rispetto al tragico-orfico di altra tradizione moderna oppure all'elegiaco crepuscolare, che ragiona a suon di spazi domestici (e spesso addomesticati) di contro a chi va a spasso trainando Euridice e il buio che le soffia dietro. Attolico, epigono di Vito Riviello ma anche dello sguardo ludico di certa poesia barberi-squarottiana e dell'ironicissimo Troisio, sceglie la via del flaneur attempato che guarda le fanciulle come a prede irraggiungibili; senza lacrimarsi addosso, tuttavia, ma godendo appieno della parola che le racconta e con una certa dose di autoironia, che non guasta e che gli evita, forse, il maleficio delle femministe in cerca di un Orfeo da dilaniare. Ma, appunto, Attolico non è Orfeo; si capisce che lui, probabilmente, nell'Ade non sarebbe sceso per salvare la propria donna, tanto ce ne sono infinte altre sotto il sole, in quella vetrina che è il mondo, da cantare con l'arme della retorica anziché con il bastone della fallocrazia. La rinuncia al bastone, lo colloca dalla parte delle bambine, per citare un noto libro di Elena Gianini Belotti, pur con quella ambiguità che, vista la violenza contro le donne che ancora impera ovunque, qualcuno potrebbe non perdonargli.
Da parte mia, questa giocosa orchestrazione mi diletta l'orecchio e l'animella selvatica che entro mi rugge, e tuttavia non mi basta, nella misura in cui rinuncia a interrogarsi criticamente sulla posizione di chi dice io nel testo, dandola per innocente, in tal modo – per quel tanto che l'autoironia tace –  giustificando la sua indole predatoria, come se questa fosse naturale e non effetto dello sguardo del dominio maschile, pur raccontato dal margine, strizzando l'occhio alle prede, che tuttavia rimangono tali.
Capisco bene, sapendo Attolico una persona intelligente, gentile e certamente contro il machismo contemporaneo, che la mia lettura potrebbe sembrare fuorviante; eppure, mi piacerebbe sentire il punto di vista femminile su queste poesie, che mettono in scena l'appetito e il suo movente, il lupo e il suo boccone. Un lupo scalcagnato, ma pur sempre padrone del gioco.



CARE  TEEN  AGERS  !


come siete belle quando correte
con quel bacino che si accende
con quelle gambe che alimentano il fuoco
e il seno al vento che declina
la velocità di fuga di un piccolo terremoto !
Siete una forza !
Siete le imprendibili fuoriserie
di tutti i matusa di serie del pianeta

Per fortuna però, ogni tanto
può accadere che , gazzellando
andiate per le terre ,
ed allora , sciorinando noblesse tentacolare
finalmente vi si può toccare ,
ma come pesci che ritrovano il mare
in un amen siete già lontane, all'orizzonte
rovinose stelle di un desiderio bifronte
che malgré tout non smette di remare


Da Scapricciatielle, El Bagatt, Bergamo, 1995
Pref. di Vito Riviello, con due chine di Giacomo Porzano




TRANSITI  DEL  VAFF !  /  MAVAFF !


I -

Da più parti ci si chiede come mai
la tromba delle scale non suona mai .
E' certo strumento inesemplare , infigurabile
c'è ma non compare …

E' allora uno strumento virtuale ?
Un sortilegio … condominiale ?

Affatto ! E' solo entelechia aristotelica :
quando un portone si richiude su un bacio
su un vaff , su una mezza frase o un commiato
ecco che immantinente la tromba sublima i suoi squilli
                                                                            di silenzio
li isola e li decanta
restituendone la consonanza
soltanto a chi l'avrà pensata inane ma infervorata
climax del transeunte
consecutio senza temporis
di un suo spartito celeste




II -


Per alto gradimento
per nitore
per sguardo e per umore
per musica infine
la parola “alta” è fondamentale .
Infatti un mavaff ! che con cognizione di causa
ti manda in quel posto
ha il segreto suono di chiamata della parola
quando verifica se stessa e il mondo :
la valenza cangiante del segnale rivelatore !

Convocato per un viaggio senza ritorno
avrai per destinazione sempre e comunque
l'avamposto solare di quel retroposto
la pregnanza del suo smalto
la maestà del suo alto profilo :
un microcosmo onnicomprensivo !

W quindi il motto propositivo talentuoso
totalizzante definitorio e definitivo !
Fa velo a una certezza
che si ritira altissima nel cielo :
dopo la sua pronuncia nulla sarà più come prima !

A questo mi riconduceva la sintassi del suo sguardo
quando la fermai la prima volta in mezzo alla strada
dicendole lei signorina è bellissima
posso darle un bacio ?



Da Siamo alle solite , Fermenti Editrice , Roma , 2001
Pref. di Giorgio Patrizi , con due tavole di Giuseppe Pedota





CRISI  DI  COPPIA  A  CANALE  CINQUE


Il plusvalore è evidente :
la terapia del valzer travolgente
è avallata dalla Brava Presentatrice ( ? ! )
e il tubo catodico è il garante .
Ben venga quindi la metafora della danza
per proporre una strategia di coppia :
danzare insieme
tra comunicazione conflitto e mediazione !

( Se proprio non funziona
c'è la Sacra Rota di Sua Santità
che risolve
con la modica quantità
dell'obliterazione )






IL  ROSARIO  DELLE  VECCHIETTE


Se nunc et in hora
diventa 'ncatanòra
è scorbuto celeste
ma anche picco DADA di grande suggestione .
Lo sanno le fiammelle delle candele
nel divertito tremore
che sposa il fai da te del latinorum
al top dell'invenzione verbale
(s)conciata per le feste





SUBLIMAZIONE


Dopo il botto
non irritiamoci
siamo cortesi
restiamo calmi :
c'è la constatazione amichevole
d'incidente automobilistico ,
malincomica prassi che inaugura un'aria nuova
di liberazione
un'epopea di intenti !

Per lo scontro all'arma bianca
sublimato dal flaneur precompilato
pas de peur :
stami e pistilli in comunione
stanno a sangue e arena
come metti una sera a cena
sta a un amplesso di radiatori volti verso il sole .
Non c'è problema !


Da La realtà sofferta del comico ,  Aìsara , Cagliari , 2009
Pref. di Giorgio Patrizi , postf. di Gio Ferri





DUE  INEDITI  2012 / 2013


Padre , sogno ragazze col seno di neve e le ciliegine .
-E lo vieni a dire a me figliolo ?
E a chi altri padre ?
-Ma alla tua poesia perbacco !
Quale monitoraggio responsabile
può dribblare un disastro incoronato
da un sapore colorato ?
Lui monitora l'adagio
che tra scrittura e vita non c'è frattura .
Fanne tesoro  !
Fatti coraggio !





UNGARETTIANA


Una intera giornata
con l'assenza di carta e matita penetrata nell'ossa
buttato su una panchina dei giardinetti pubblici
a guardia dei nipotini che si mangiano la ghiaia
ho pianto lacrime laiche da taglio di cipolla

Ma crepuscolosa
annunciata in lontananza dal verde transitivo di un semaforo
e dalla marcia trionfale dell'Aida
una figura in nero di straordinaria ineleganza
colmava di futuro la mia disperata inanità :
-Leopoldo , sarai ampiamente risarcito
da trent'anni di poesia à la carte




Leopoldo Attolico vive ed opera a Roma , ove è nato il 5 marzo 1946 .
E' autore di sei titoli di poesia e di quattro plaquettes in edizioni d'arte .
Ha collaborato e collabora alle principali riviste letterarie .
Una selezione dei suoi testi è stata pubblicata negli USA presso Chelsea , New York , 2004 ,
per la traduzione di Emanuel di Pasquale .
Il suo libro più recente , La realtà sofferta del comico, Aìsara , Cagliari , 2009 , è prefato da Giorgio Patrizi , con postfazione di Gio Ferri .

Qui il suo sito.



Una vecchia, ma sempre attuale, lettera a Giuseppe Cornacchia

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Mi scrive di recente Giuseppe Cornacchia: "Sono stato sollecitato da alcuni post recenti su “Nazione Indiana” circa la neoavanguardia, la sua eredita’ e lo scontro col lirismo-paroliberismo. Ho dunque avuto modo di rivedere le mie noterelle teoriche costruite negli ultimi anni. Vorrei adesso organizzare un articolo formale in modo da non perdere il lavoro. Credo dunque sia il momento giusto per rispondere alla tua lettera aperta su razionalita’ scientifica e pensiero della poesia che mi indirizzasti qualche anno fa, tramite la rivista “Atelier” n.50, del giugno 2008."

Colgo l'occasione per ripubblicare quella "lettera", poi uscita, in altra veste. in Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009)

Razionalità scientifica e pensiero della poesia (lettera a Giuseppe Cornacchia)1



Caro Giuseppe,
vorrei proporti alcune mie considerazioni, nate intorno al tuo inter­vento al convegno su La responsabilità della poesia. Di cosa siamo poeti?, organiz­zato qualche anno fa da «Atelier»2. Mi preme soprattutto esplicitare il nucleo verità e scienza, da te appena accennato eppure fondamentale per comprendere la diffe­renza fra la razionalità scientifica e il pensiero della poesia.
Entrambi condividiamo l'assunto dell'epistemologia post-positivistica secondo la quale nessun sapere ha l'esclusiva sulla verità. Mi viene in mente in particolare la posizione di Karl R. Popper a proposito dell'oggettività della scienza: essa, afferma, «non è una faccenda individuale» bensì riguarda l'«amichevole-ostile divisione del lavoro» degli scienziati, «e quindi dipende, in parte, da tutta una serie di condizioni sociali e politiche, che rendono possibile questa critica»3.
Vorrei approfondire ulteriormente - non tanto a te che ben conosci la cosa, ma ad un potenziale lettore in cerca di risposte - la posizione del filosofo austriaco appunto perché tiene aperta la relazione fra conoscenza e linguaggio, ma in un'accezione assai differente da come la istituisce il poeta. Allora, posto che l'oggettività sia espressione della democrazia (la «società aperta», che difende la libertà di scelta individuale dalle chiusure totalitarie), bisogna ora chiarire quale logica la fondi. L'unica valida - scrive Popper, capovolgendo la procedura induttiva che fonda il criterio di verificabilità - è la «logica deduttiva», nella quale «se le premesse di una deduzione valida sono vere, deve essere vera anche la conclusio­ne»4. La confutazione mira a mostrare la contraddittorietà delle conseguenze e cioè: se le conseguenze sono false (inaccettabili dal punto di vista logico) vuoi dire che false sono anche le premesse. In questo senso, l'esperienza (il vedere, il tocca­re ecc.) non è il punto di partenza della conoscenza scientifica, bensì il punto d'arrivo. L'avvio è sempre proposizionale, attraverso un procedere per enunciati elementari, aventi la forma di «asserzioni singolari non autocontraddittorie» (es. in via x abita y; il treno è partito alle 10,40 ecc.)5.
Il principio di falsificazione popperiano, tuttavia, non si limita ad affermare che «una teoria è falsificata soltanto se abbiamo accettato asserzioni-base che la con­traddicano»6, bensì ribadisce la necessità di scoprire «un effetto riproducibile che confuti la teoria». Insomma, se esiste un evento falsificante rispetto ad una teoria e se abbiamo individuato asserzioni-base che contraddicono l'ipotesi di partenza, allora la teoria è scientifica e questa costituirà un passo ulteriore delle conoscenze umane verso una verità oggettiva mai raggiungibile completamente (per questo egli preferisce parlare di «verisimiglianza»)7. Quanto invece non rientra in questa proce­dura non è scientifico, bensì appartiene alle verità dogmatiche o metafisiche: verità certamente sensate (cioè che noi possiamo comprendere perché logicamente inec­cepibili), ma che non possiamo confutare e, dunque, definire scientifiche. È per questa ragione che Popper nega lo statuto di scienza sia al marxismo e sia alla psicoanalisi, essendo appunto apparati proposizionali che hanno un'impostazione di tipo teologico o, quantomeno, «teistico», e ciò impedisce di individuare un evento o un'asserzione-base - un «falsificatore potenziale» - capace di confutarle8.
La questione, per la poesia, è sostanzialmente differente: essa infatti - almeno per il modo in cui la intende una certa tradizione giunta a compimento nel Novecento - non risolve né pone problemi, non decostruisce fenomeni e nemmeno li ricompone logicamente. La poesia dunque non ragiona (cioè non lega elementi noti per produrre l'ignoto, che pure era presupposto nella formulazione del proble­ma), ma pensa direttamente l'infondato, che è l'uomo stesso nel suo essere qui, davanti al foglio bianco, in una tonalità affettiva imprescindibile, ma anche impren­dibile nella sua radice e che il linguaggio trattiene nella rete multipla delle sue regole. Ciò che il poeta conosce è la vertigine di quel trattenere senza proprietà, che è pensiero ossia dialogo sguarnito di protezioni con la parola che avanza, che chiama alla responsabilità dello stile. E dunque scrivere poesie non significa addita­re qualcosa che si ritiene vero, conoscendolo attraverso il doppio cappio della nomi­nazione e del metodo, e nemmeno, più semplicemente, consiste nel tradurre il mondo «a chi non capisce o non ha la sensibilità» per farlo9, bensì si concretizza nel lasciar-essere ciò che siamo nella sorpresa che questa esposizione comporta, uno stare dis-locati eppure adesso e qui (qui nella mia città, con l'acqua che manca, oppure che abbonda, con mia moglie o senza mia moglie, con un libro in mano oppure nel bosco, con la paura del nucleare o con l'entusiasmo per la sua possibilità complessiva). La poesia mette al mondo questo incontrarsi multiplo di possibilità, mosso e patito dal poeta, sorta di «apparecchio sensibilissimo» che, come scrisse Antonio Porta, percepisce «il movimento nel suo stato nascente»10. In quanto auctor, tuttavia, egli conosce una tecnica per conservare tale complessità; ed è a questo livello che la conoscenza strumentale incontra il pensiero poetante, giacché lo stile altro non è che la formalizzazione rigorosa di una sostanza mobilissima, di una nuvola linguistico-retorica il cui impasto tiene corpo e mondo, affettività e ragione, passività e desiderio, ma anche il tramandarsi delle tradizioni entro il cui orizzonte (plurale) noi operiamo.
In questo senso, non si tratta di superare i padri o di rinnegarli, come infatti tu stesso affermi, giacché loro non ci privano di nulla: io, infatti, sono qui, adesso. Non mi manca antropologicamente nulla, se non il senso definitivo per cui sono qui, adesso. E allora scrivo e magari leggo i padri, per sentire il loro tremore, la loro stessa fiducia o sfiducia nella parola. Così facendo scelgo una tradizione e poi necessariamente (con fatica, ci ricorda Harold Bloom nell'Angoscia dell'influenza) cerco di liberarmene, per sopravvivere in quanto autore. Sotto questo aspetto, la conoscenza, in poesia, viene a coincidere con la ricerca della propria voce e della sua radice, a partire dalla consapevolezza che questa cresce nel ceppo di una tradi­zione mai definitiva, e sguscia sulla pagina attraverso il corpo e la tecnica, le cose fatte e da fare, gli amici e i nemici vivi e morti.
Da parte mia, apprezzo molto il tuo tentativo di cercare la tua voce, indipenden­temente dalle tendenze di comodo. E sono certo che la poesia «sicuro dal punto di vista delle eccezioni»11 ne sia il frutto necessario. In verità, è come se tu avessi scritto una poesia in latino o in aramaico, oppure avessi steso alcune note sul pen­tagramma o usato l'alfabeto morse o scelto il sistema gestuale: in ogni caso la que­stione, per la poesia, non è quella di mostrare la dimestichezza con un codice, ma piuttosto, come scrive Montale, di dire quello che il codice che sto usando non è programmato a dire. E dire l'indicibile significa proprio dare voce a quello scarto indomabile eppure atteso, carico di futuro, dovuto probabilmente alla meraviglia di ciascuno di noi di fronte alla propria presenza ingiustificata, che ci muove verso la domanda sul perché siamo qui e non altrove. In questo senso, il problema che pone il tuo testo è lo stesso del Montale della Casa dei doganieri, quando scrive che «il calcolo dei dadi più non torna», soltanto che tu trasfiguri lo stupore per questa verità (che è di matrice umanistica), in «template» di matrice informatica. Dal punto di vista della polis (prospettiva dalla quale un poeta non può prescindere), occorre chiedersi: «In che senso la tua scelta è vincente, rispetto a quella dei padri? Quale instabilità dell'ovvio mette in gioco? Che forza ha nel presente e come lo apre, come gli consente insomma di essere ciò che è?». Tu potresti rispondermi sottolineando il fatto che non è il codice ad inte­ressarti, bensì la possibilità «di scrivere "metallico"» ossia con «la pesantezza, la "piattezza" del discorso puramente deduttivo», eliminando «del tutto la componen­te umana»12; io invece ribadisco che è proprio questa componente ad essere l'imprendibile che ci scarta dal modello, che ci tiene nell'aperto di una gettatezza già sempre situata e irripetibile. Credo dunque che poesia sia conoscenza nella misura in cui rilancia queste domande, le gioca nel singolo testo, si gioca in quanto possibilità che non incancrenisce, estasi diveniente che si spazializza in differenti dimensioni (grammaticale, retorico-stilistica, semantica, immaginativa, simbolica ed etica), adunandole in un corpo testuale, che «non trova riparo», direbbe la Szymborksa, un corpo che, come scrive Franco Rella, è «limite e oltranza [...] confi­ne e sconfinamemento»13.


note
1giuseppe cornacchia (1973) lavora come ricercatore in Inghilterra. Variamente impegnato e segnalato su carta e su web, co-gestisce dal 2002 il portalino nabanassar, di cui è fondatore e webmaster. Ha pub­blicato Aladar (Pistoia, Ass. Cult. Press 2003), Nabanassar - atto unico (Ass. Cult. Press, Pistola 2003), Ottonale (in Sei Autori. 3 x 2, a cura di Alessandro Ramberti, Rimini, Farà 2006) e Vampirnacchia — molti scrìtti letterari 1996-2002 (Lulu 2007).
2 Gli atti del convegno uscirono su «Atelier» n. 24, dicembre 2001.
3karl R. popper, La logica delle scienze sociali, in aa.vv., Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, trad. it. A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972, p.114. Si confronti inol­tre karl R. popper, Conoscenza aggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad. it. Arcangelo Rossi, Armando, Roma 1975, p.186: «L'oggettività, anche della matematica intuizionista, si basa, così come l'oggettività di ogni altra scienza, sulla criticabilità delle sue argomentazioni. Ma ciò significa che il linguaggio diventa indispensabile come medium dell'argomentazione, della discussione critica». Invero, la scienza contemporanea ha abbandonato lo stesso paradigma di "oggettività conoscitiva". Si pensi alle acquisizioni sulla complessità, in particolare le riflessioni di werner heisenberg, jacques monod, ilya prigogine, edgard morin, e fritjof capra relative al rapporto ordine/disordine, caso/necessità, scien­za/arte/filosofia. Ancora più radicale è il pensiero di paul K. feyerabend, che riconosce la possibilità della scoperta scientifica proprio nella trasgressione dai metodi codificati, con ciò negando «l'idea di un metodo fisso o di una teoria fissa della razionalità», compresa quella popperiana. Scrive infatti il filosofo che la conoscenza «non è una serie di teorie in sé coerenti che convergono verso una conce­zione ideale, non è un approccio ideale, non è un approccio graduale alla verità. È piuttosto un ocea­no sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili)». Io., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. it. Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 21-29.
4karl R. popper, La logica delle scienze sociali, in aa.vv., Dialettica e positivismo in sociologia, op. cit., p. 116.
5karl R. popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, trad. it. Mario Trincherò, Torino, Einaudi 1995, p. 74.
6Ibidem, pp. 76-77.
7«Lo scopo della scienza è la verità nel senso di migliore approssimazione alla verità, di maggior verisimiglianza. [...] La ricerca della verisimiglianza è uno scopo più chiaro e più realistico della ricerca della verità», per questa ragione «possiamo spiegare il metodo della scienza... come il procedimento razionale per avvicinarsi maggiormente alla verità» (karl R. popper, Conoscenza aggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, op. cit., pp. 84 - 85); «Le nostre teorie congetturali tendono progressivamente ad avvicinarsi alla verità; cioè a descrizioni vere di certi fatti o aspetti della realtà» (Ibidem, p. 66); e ancora, con piglio quasi romantico: «Noi siamo cercatori di verità, ma non siamo suoi possessori» (Ibidem, p. 73).
8 Si tratta del celebre «criterio di demarcazione», il quale non è «netto», ma ha «esso stesso dei gradi. Vi saranno - continua popper in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (trad. it. Giuliano Pancaldi, Bologna, II Mulino 1972, p. 437) — teorie ben controllabili, altre difficil­mente controllabili, ed altre non controllabili affatto. Quelle non controllabili non rivestono alcun interesse per gli scienziati empirici. Possono essere ritenute metafisiche». Si veda inoltre karl R. popper, // mito della cornice. Difesa della razionalità a della scienza, trad. it. P. Palminiello, Bologna, II Mulino 1995, pp. 115-122.
9 Sostiene cornacchia, infatti, che «il poeta non propone, ma rende quello che il mondo già dice, tradu­cendolo a chi non capisce o non ha la sensibilità per distinguerlo» (giuseppe cornacchia, La responsabi­lità della poesia. Di che cosa siamo poeti?, «Atelier» n. 21, p. 16).
10antonio porta, /( progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Roma, Fondo Pier Paolo Pasolini 1991, p. 14.
11 Riporto la prima strofa così da chiarirne il lessico e la struttura. «template / class fixed_population / { / public: / typedef human* conscience; / typedef const human* common_sense» (giuseppe cornacchia, Ottonale, op. cit. p.104 - 105).
12giuseppe cornacchia,  La responsabilità della poesia. Di che cosa siamo poeti?, op. cit., p. 18.
13franco rella, Ai confini del corpo, Milano, Feltrinelli 2000, p. 80. Anche il verso della Szymborksa, tratto dalla terzina «Ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è / e non trova riparo»), è citato da Rella nel medesimo libro (p. 203). 


Alfredo de Palchi

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Alfredo de Palchi (1926) è il poeta, bravo, più rimosso d'Italia. Forse per ragioni politiche, forse geografiche (vive negli Stati Uniti dal 1956), forse perché in Italia la sua voce "implacabile" non è facilmente ascrivibile a una linea poetica novecentesca. E questo disturba l'editoria.


Gradiva Pubblications, nel 2011, ha pubblicato una serie di interventi, curati da Luigi Fontanella, dal titolo Una vita scommessa in poesia. Da questo "Omaggio", riporto quanto serve per farsi un'idea della persona e della sua poetica che, mai come in questo caso, sono intrecciati.

L'arché


Scrive Fontanella: "Quanto poi al suo lavoro di collaboratore e/o corrispondente per alcune riviste italiane, vale la pena almeno ricordare - lo farò più avanti - come nacque la sua collaborazione a La Fiera Lettera­ria, indubbiamente uno dei periodici letterari più importanti del Nostro Novecento. Siamo all'altezza del 1950. Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L'accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto "il biondino", a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest'omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c'era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l'insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. [...] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all'ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Precida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un'esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell'esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni [...]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un'esperienza atroce che l'avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un'esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il '46 e il '47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena".


Sulla  poetica, Fontanella parte da Foemina Tellus trovandola coerente con gli scritti precedenti:
"De Palchi-poeta si pone come denudato di ogni inutile fronzo­lo - quasi a voler sottolineare ciclicamente il suo stato di mor­te/rinascita 'ab ovo' - di fronte al Creato, alla sua Bellezza e al suo Disfacimento. Il quale Creato è destinato a restare incomprensibile, nel suo evolversi, nel suo sfacelo e nel suo continuo rinno­varsi. Ma ecco che resta pur sempre la Parola dello scrivente; paro­la tesa, intransigente, essenziale, implacabile, che fungerà da testi­mone e saprà documentare quella incessante consunzione, quasi volendo - baudelairianamente - indicare una 'salvezza' o una stellare utopia dentro la carne del linguaggio.
Davvero al poeta forse non resta altro che documentare lo sfilacciamento di ciò che gli ruota incurantemente attorno: luoghi, circostanze, momenti fugaci, gesti e volti lampeggianti. Le parole del poeta diventano battiti d'ali che velocemente 'lapidano' faccia­te di palazzi e costruzioni a lui familiari. Questo sembra essere il destino della 'bestia umana'; questa la storia che va spurgando i suoi ultimi rantoli; ma questa, anche, l'eterna identificazione del sesso-ventre femminile rigenerante, che 'ingoia crescite e pianeti' senza interruzione. Al poeta resta il volare con le parole (significativamente 'volo', 'volare' e simili sono stilemi ricorrenti nella sezione Foemina Tellus, quasi a esprimere un desiderio fantastico (leonardesco), quasi bramando, lui, il poeta, d'essere rapito in volo, per ri-identifìcarsi, spoglio di membra e di arti, in altra creatura, purissima, come un lenzuolo al vento. È questo, in ultima analisi, il desiderio centrale del poeta che emerge in questa sezione: Angelo Sterminatore o Messaggero del Marcio Totale da una parte e, al contempo, Angelo Purificatore dall'altra, rimbaudiano aspirante alla Bellezza (simbolo di Eterna Giovinezza) e al candore di un Nuovo Incominciamento, categorie perseguite ostinatamente attraverso la parola espiatrice della quoti­diana peste. Da qui anche quell'afflato "religioso" cui accennavo prima: i versi si offrono nudamente a chi li legge come espressioni sacrifi­cali al Male, quando solo la vera Poesia, spoglia di ogni orpello, come questa di De Palchi, è in grado di fronteggiarlo (il Male) e sconfiggerlo. La tanto reietta Morte, "birichina famelica di novizi", sarà allora anche la livellatrice di tutto e di tutti, quando tutti e tutto non saranno che un mucchio di polvere.
[...] Il destino del poeta-De Palchi si conclude dunque, almeno per ora, con un significativo ritorno alle origini, con un'unica sostanziale differenza, e cioè che oggi, a distanza di oltre sessantenni, egli non esita a nominare luoghi, circostanze e personaggi della sua martoriata adolescenza, ma mantenendo inalterata - ieri come oggi - la sua dignità, il suo coraggio, il suo inossidabile orgoglio di vero quanto controverso Poeta, dantescamente ben tetragono ai colpi di ventura"

Scrive Gabriela Fantato, sempre nell'antologia di Gradiva:
"Alfredo, a mio avviso, si immette direttamente nella linea di una poetica realistica, proprio per l'uso di immagini e di termini concreti, per un continuo riferirsi alla vita vissuta, ma anche per i toni incalzanti, oltre che per i ritmi 'esplosivi' che il testo spesso assume. Tuttavia nei versi si coglie anche una carica spiri­tuale, quasi di una religiosità pagana che si fa a volte 'culto della Grande Madre', direi che è poi devozione al Femminino del Mon­do, come direbbe Alfredo: devozione corpo della Donna e al corpo della Natura. In una visione molto particolare, che però va connessa anche a una forte presenza di figure della religiosità cattolica, so­prattutto penso al Cristo, pascolianamente inteso come 'vittima innocente' dell'iniquità del mondo, collegata a quella della Maddalena, insieme donna carnale e simbolo di un amore unico e sublime... Per coglier la particolarità del poetare di de Palchi, ricordiamo che negli anni Cinquanta, quando il poeta Veneto ha iniziato a scrivere, dominava ancora in Italia un certo Ermetismo, spesso di maniera ed esangue [...] e per questo risulta ancora più originale ed 'eretica' la parola poetica di Alfredo, dove troviamo detta la vita, colta nei suoi aspetti concreti, persino bassi e carnali. [...] Pro­prio questo modo di sentire la parola poetica in modo corposo e mistico insieme rende la poesia di de Palchi prossima a una certa linea di ascendenza dantesca (peraltro più volte il poeta veneto cita nei suoi libri anche brevi versi del maestro fiorentino), con tutta la carica carnale e sperimentale che in essa è compresa. Si coglie anche nei versi di questo poeta un legame con certo acuto filone di poesia comico-realistica, e penso soprattutto al grande Cecco Angiolieri, a cui de Palchi è prossimo per lo spirito irridente e ironico, oltre che per la vis polemica."

Plinio Ferilli: "Il male di vivere di Alfredo de Pal­chi - poeta spontaneo e all'inizio di certo maldestro, istintivamente anti-ermetico - resta orribile maleficio privato, condanna pubblica prima ancora che intima. L'inconscio-ragazzo, in lui, ha sempre un nome proprio, quello suo, egocentrico ed egotista, il battesimo sprezzato e sprezzante del proprio Io"

De Palchi editore

Donatella Bisutti: "La figura di de Palchi, in quanto editore e, se vogliamo usare una parola oggi pur­troppo un po' desueta per mancanza di soggetti che la incarnino, e che a lui invece calza perfettamente, mecenate, è una figura assai ragguardevole, cui dovrebbe andare tutta la nostra riconoscenza. Come si sa, da anni de Palchi infatti amministra con grande genero­sità la Fondazione intitolata al nome della moglie defunta Sonia Raiziss per pubblicare a New York, nelle edizioni Chelsea, o anche sostenere in altre edizioni, prestigiose traduzioni di grandi poeti contemporanei italiani. Oltre a questo, sempre attraverso la Fonda­zione, finanzia anche un premio alla traduzione. La sua intensa attività per far conoscere la nostra poesia negli Stati Uniti supplisce alla scarsa attenzione della nostra amministrazione pubblica che, a differenza di quella della più parte dei Paesi europei, non mi risulta finanzi traduzioni ed edizioni all'estero"

Paolo Valesio: "Alfredo De Palchi è stato un editar, nel senso inglese, della rivista Chelsea, la cui esistenza abbraccia un arco di quasi mezzo secolo (1958-2007), e che ha un suo posto nella storia delle lettere americane e non solo. Poi Alfredo è divenuto editore nel senso italiano, con le già menzionate "Chelsea Publications," benemerite per la diffusione della poesia italiana in traduzione inglese (basti ricordare le pubblicazioni di Giorgio Caproni, Camillo Sbarbaro, Bartolo Cattafi, Carlo Betocchi, Amelia Rosselli). E la sua attività editoriale non si limita alla poesia italiana: è appena uscita per le edizioni Chelsea una scelta di poesie e prose di Philippe Jaccottet. [...] A proposito di strade e di poesie: debbo ad Alfredo l'ispirazio­ne e l'incoraggiamento a fondare una rivista di poesia italiana in contesto internazionale. Si tratta dell'organo che, nato presso l'università di Yale col titolo di Yale Italian Poetry (YIP) si è poi trasferito con me a Columbia sotto il nuovo titolo di Italian Poetry Review (IPR)."


da Alfredo de Palchi, Paradigm, selected and new poems 1947 - 2009

da LA BUIA DANZA DI SCORPIONE
1947–1951


Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

*

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido—ed amo il fiume
inevitabile
in cui l’intrigo del mio tempo
si accomoda
osservo nel fondo rotolare l’isola
verso il nulla
                              l’età muta calore
il vespaio del gorgo
e l’uno vuole il perché dell’altro:
tu sempre uguale, io
dissennato


**

Ad ogni sputo d’arma scatto
mi riparo dietro l’albero e rido
isterico
alla bocca che sbava
un’ossessione di mosche



da SESSIONI CON L’ANALISTA
1948–1966



4

A cenno del Capo
dai fianchi si sfilano cinghie grosse
cuoio del dio assassino
cuoio che cade, mani
accarezzano il cuoio grosso largo, odore
di animale seviziato di uomo odore
di assassino;
a labbra tirate di livore mi vengono
alle spalle il mondo alle spalle
il mondo cade

tremo paura o freddo
febbre di mota, pallore tratto al volto
e arsura in gola
roccia da cui l’acqua dei millenni non sgretola
il sale del mondo
il mondo sale;

parole suoni indistinti
nell’orecchio, lontano brusìo, vicinanza
di insetti e vermi
insetti
e vermi si domandano l’accaduto
domandano la provenienza il nome
— sono Meche, mi avete portato qui —
ridono mascelle d’osso bianco
chiedo acqua acqua
il Capo ride e porge la tazza
— bevi —
è acqua sapone e peli di barba.


9

Campane di mezzogiorno
erba matura piega
un parlottare piega:

i tre Tipi
siedono, ecco pane e mela a foma
di mondo a me

che piego
mangio silenzio il suo verme
alla riva bevo silenzio,
eco di sasso cade e cerchi si allargano
si espandono nell’universo d’acqua
il suo verme divora.

In piedi attendono—andiamo—
— son nato qui, mi ci avete portato
consegnato, era
notte della mia nascita che affievolisce —

laggiù case strade uomini
la deliquenza onorata, volumi di leggi
la città informe, verme che si divora.



**
(New York)

1

Mezzogiorno

lacerandomi i visceri per ricordi improvvisi
la sirena brutale mi sobbalza dal sopore
sulle carte burocratiche, sosta
uffici fabbriche
costruzioni accerchiate d’assiti:
nelle fondamenta martelli pneumatici
scavatrici chiudono il motore
e ingegneri muratori carpentieri in elmetto
impiegate segretarie agenti della borsa
sodomiti della pubblicità aprono il cartoccio
di panini o si arressano nei ristoranti

quest’ora è fretta —
eleganti scorie s’ammucchiano alle vetrine
di manichini antisettici             ognuno
studia come colpire, ingannare
(il vaccino migliore è lo scambio)
fiuta il passeggio senza fiore o colore
che allegri la vista
si fa largo a colpi di gomito
prende l’incerto per il colletto della camicia
e, affari combinati,
offre la sigaretta
un bicchiere
il pranzo —



2


sul pietrificato fra macchine autocarri
autobus (sudaticcio afrore
di crematorio) fumo di benzina
nera polvere granulosa
osservo
la elettro-
esecuzione
dei colombi che piovono dalle finestre
e cornici
sputi catarrosi
escrementi di cani
allineati alle gambe lustre delle signore
l’avvampo del catrame
uccelli avidi di verde rasentare
la desolazione piatta delle muraglie di vetro
tralicci impalcature
barboni con bottiglia all’ascella
stravaccati su carta di giornale
intossicati lesbiche ninfomani
ragazzi col rossetto baciarsi
nel parco della biblioteca
voluminose mulatte
l’imminente fornicare negli alberghi
l’appetito delle Nazioni Unite:

tutto è splendore che godo
— ma al bar
strepito la mia ostilità: doppio whisky,
prego —



New York 1961


1

. . . qui / esilio
migliore di quello vissuto al paese
con la sua crudeltà indecente
quotidiana, le prigioni e le mie impossibili
fughe /

è a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione

mi dicono, perché ricordi
— quello è tuo padre —

bene, non dimentico / però chi può dire
se non io, dell’ingiuria:
l’inquisitivo tono
ronzando all’orecchio mi svergogna
per ragioni diverse, ma non ho pena.
Da anni
aumentato di conoscenza con tanto sangue
riesco a considerare nella misura indifferentemente
cristiana quelle voci remote.
Che ne riparlino
mi ridicano
non importa, non mi toccano: le riconosco
nel disprezzo, nelle azioni —


**

a 12 anni
meschino nella tuta lurida di grassi
per motori a nafta
consegno 5 lire
(la settimana—domenica compresa)
nella busta troppo larga al nonno anarchico
mangiato dal cancro. Non sai che
dopo una sovente cena di aringa
mani tagliuzzate, nere di ruggine acidi unti
imparo il disegno industriale
il violino e l’altrui invidia per la borsa di studio;
non sai delle mie colluttazioni con i compagni
per l’esistenza animale—del gobbo Toni,
dal ponte, che mi getta nell’Adige
il cane a zampe legate
uno straccio nella bocca —


**

vivo quest’altri malefici: religione
scuola testi falsi
adunate nelle piazze
leggi ammirate col silenzio la fuga dei mitomani
della resistenza
(ultima ora)
che calati dalla Svizzera si avventano ora
irragionevolmente
su me adolescente forzato all’arma —


**

esempio: ragazzo timido, chiuso
colmo di vergogne concrete
— si tratta del paese —
considera le provocazioni morbose;
non chiederle a me, direi una reale
storia ma diversa
— e del coniglio —
sotto la tettoia di zinco
ondulata nel cortile:

lo tolsi dalla gabbia per le zampe
posteriori, il taglio
della mano (debole) colpì;
il suo lamento di bambino chiuso
— ancora mi è vivo —
evitò la mia fine indecisa;
e mollandolo a terra scappai
sugli argini dell’Adige
(di marzo ogni anno tra i ghiacci
del fiume St. Lawrence a migliaia le foche
sono suggellate a colpi di remo e il belare
delle spellate vive . . . )
per tre giorni, iniquo
con il coniglio (il suo lamento di bambino chiuso)
negli occhi, sotto la pelle
— è ancora vivo il lamento —
e ancora, non pace
      “perché”

              non so, o forse so
il perdono del lamento di bambino chiuso


**

—anni dopo il coniglio (dicembre 1944)
la notte è lucida; nel salone della mensa
si balla al giradischi
— il fornaio all’uscio, sulla piazza,
fuma la caporale—
le ragazze ci sono: Adele Clara Lucia: tutte —

nel chiuso dietro una porta picchiano oppure
usano una dinamo a manovella: le grida
d’un malmenato sconnettono la canzone
ma che tristezza in cor
mi sento stasera
e la Clara, grassa, “perché”
notte senza luna notte
senz’amore

sì, senza amore —
esce, corda al collo, il picchiato:
la faccia maciullata:
inosservato passa in mezzo al ballo
e poi dalla piazza
— a pochi passi dal fornaio —
al raschiare del giradischi
più non penso a te
si ode lo sparo
— capisci, non c’è “perché” —

ghigno che ride il capitano Carella della ferroviaria
dice divertito al comandante
— è caduto, si è fatto male —
una macchia stesa


**

— non capisci? —
mi rivelo in modo indiscutibile

sono fatto e mai riuscirò a cambiare
— l’intelligenza è corruzione della natura —
oppure capisci ma lasci a me il lavoro
di ricuperarmi, organizzare la mia confusione
mentale e psicologica

tutto si trasforma: io stesso:
circonciso: una libertà
una pulizia, un’apertura di pelle che sfoga
un filo di sangue—un testo febbrile
per un circolo di . . .

la sociologia del cuore
la grafica multeplice dei circoli
familiari enfatici con tanto
di mamma nel mezzo
—nessuna nostalgia mi rattiene
spingo la vita oltre dove
non mi occorrono radici per sapermi
sentirmi esistere:
una valigia di libri
un pacco di carta
macchina per scrivere e una donna
mi conchiudono

il resto non importa, basta
che la mia sofferenza sia pari a quella
dell’animale sul tavolo delle ricerche —


(la prossima settimana le poesie delle raccolte successive)

Qui il suo sito web. 
Ricordo anche il numero monografico su de Palchi uscito nel 2000 nei Quaderni di Hebenon, curato da Roberto Bertoldo.

Alfredo de Palchi (altre poesie da "Paradigm")

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da COSTELLAZIONE ANONIMA
1953–1973


4

e più oltre,
vedo me, uomo

la sua agonia di animale
di sentore mortale
di mente s-centrata

che in una stretta si uncina e sulla sabbia
fiotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla voragine
desolata della terra promessa.

Milano 1961



**

Ritenendo che una vita vale un’altra
nel mio laboratorio combino alchimie contro
leggi della scienza e natura:
asserita visione delle inssolente legge
del vano aguzzino vistoso
soggiogato alla propria alienazione;
se mi lascio fare e parlare
riesco a pormi al muro
e annullarmi / bianco delitto
prendimi a calci, buttami nel fondo
della vampa e staziona il presente
incolume alle origini.

*

Sono
— questo il punto / idea connettivo —
l’unto dell’acqua l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale, l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile alimento
e grossezza — coriaceo predatore, secco
rogo di pinne dorsali e pettorali
su peduncoli o trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non estinto.


**


L’insettivoro incendio allo zero
compila un miasma—afrore di cadute
nel pugno visibile mette insetti
—io
l’incendio che brulica la specie
spermatozoi
come la mantide predatrice
che progenita divorando.

*

Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno
su me un cadere continuo di polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie dalle pareti
che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa
polvere che rassodata nello spazio gira su sé stessa
e intorno il sistema termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me stesso:
costellazione anonima.



da LE VIZIOSE AVVERSIONI
1951–1996


Preliminare:

Carica arrivi di felina
antichità e ti accosci nel sofà;
anche a me apri
la dimora in cui già qualcuno
vi sbatté dentro un figlio
a me simile.

Parigi 1952


**

6

e come nella Bibbia impalmo
nella sinistra
la mammella sinistra,
nella destra la carezzevole concisione;
nella bocca inghiotto la mammella destra
e tu dici che lo sperma ti nutre,
esatto.
“come carne e uova”—


12

voglio inserirti nel sistema circolare
della mia origine arborizzata ma ancora
auspicante d’intemperanze,
come io esigo includermi nel tuo
usurpando nel triangolo il sole che a ruota
gira illuminando—


**

Il vento sibila tra lo steccato e sbatte
il bucato appeso sul cortile, i vetri sporchi.
Non so cosa fare; chiudo gli occhi e fumo;
vorrei telefonare alla ragazza; voglio
mettere il capo dentro il vaso di terracotta e urlare
il fallimento della mia divisione di uomo o denudarmi
sulla scala del fuoco e lasciare che il vento
a bocca di lupo geli
questo corpo martirizzato—
ogni oggetto animato o inanimato è donna,
la fogna luminosa dove sta in agguato il mio sesso
di topo ossessionato.


**

Non è il bruco che per corte altitudini buca
il bozzolo che m’importa—è la seta
che le fascia i fianchi
il reggiseno sganciato: rogo di seta
crepitante nel colmo della camera
il giradischi urla sul letto, il tavolo
(col mio resoconto)
sbarra la porta
e secco nudo
sul linoleum non so decidermi . . .

*

Seguo quelle che
entrano nelle auto:
queste ambulanti
gettano una lenza che di preciso acchiappa
lungo i marciapiedi, o di profilo sostano
accese dalle vetrine.
L’insistenza dello sguardo sapiente di soldi
un ondare di natiche
il bisbiglio che non intendo sono
l’invito. Non ne usufruisco; ho moglie
e altro, mi dico—ma ecco
ce ne è sempre una che mi mette in panico.



da PARADIGMA
1950–2000


L’assenza

Dall’oltresuolo
viene mio nonno, il grande assente
che mi fu padre e visse anarchico
numerosi anni tra la iuta
colma di cereali per un’oncia alla settimana
di olio e riso—dolorosamente giganti
i diti contorti all’insù sbucano dalle scarpe
con ciuffi di bambagia per conservarli nel male;
incarnato nel cancro
si scheggia le nocche per abbattere al muro
la bieca lingua che gli raschia la cornea

(il cranio lucido ghigna
alla cancerosa che ancora lecca l’assito
spruzzato di canfora
. . . l’afrore mi pizzica le narici)

Tramite la mente patita e l’orto
lasciato alle gramigne del mio essere
ritorna a casa—questa
è dovunque un ridotto di mutati oggetti
senza fiato, e di quest’uomo forte
sento le ascelle acute di tabacco stringermi
nella mai riscattata sicurezza.

1954


**

1

La finestra incornicia la torre
carnivora di poiane—
dietro la casa cresce l’orzo e la faina
in cucina con la collana d’aglio, il ciuffo di spighe
e il lunario, questa sonda d’imprecisi giorni
della giovinezza.
Un compagno mi striscia di verde la blusa
mi schiaffa nel letame, concime per il pensiero fertile;
guardo con interrogazione i compagni e gli anziani
sorpresi e vili.
La lesciva non cancella il verde d’erba,
la sentina guasta la mente che si abbuia, e mi sigilla
fossile.


**

Sul fiume Delaware il temporale
rotola dalle crepature, capovolge
melma dalle colline
violenta le mezze-vive
piante che arsicciano di carne
e gli scoscesi razzolati dal tedioso bollire
della pioggia; il canale
intenso di fiamma precipita il castoro
zampa nella trappola
allo stagno d’alluvione sotto
il bosco di muschi
e nidi allagati; poi uno strisciare
nelle frasche e la faccia cupa al vetro . . .

questo, l’avvento del già autunno che sfolla
la mente ormai usa alla violenza
degli atti—non parola
o mano che ascolti il polso di chi si spegne
ora—e delle scaltre azioni
che gigante mi assurgono agli occhi
di chi, come il castoro
che non sa e non può presentire alla diga,
soggiace alla bufera che brama potenza,
non amore ragione o senso,

così l’insistenza dell’acqua
con involuto fine svuota il bosco.

1961


Fungo amletico

1

Addomesticarti
imperfetto discendente dell’atroce
sbaglio che ci persegue

2

è un bulbo
il cuore non ancora
artificiale—un giorno, così fuori luogo,
unicamente migliorerà

3

niente nessuno riesce a calcolare la mente
disturbata
da ciò che il sangue vi filtra dentro

4

la lumaca quanto la testuggine
è lento orgasmo

5

la dimora contenente la nascita
è la stessa—ottusa fissa
intrisa di ripetizioni
in cui da sempre si vive

20

tutto si decompone
— fungo
amletico
uomo spostato: ogni azione
risulta in fallimento

21

il mare accoglie le ossa
ma il neutro me stesso
sciama in cubicoli
di sonno grave

32

per la tua negligenza d’un tratto
termina la mia storia—
perché mai una fine così ebete.

1960–1970


**

Cara Sonia Raiziss,
sabato 19 marzo 1994, nella melma
di pozze, di sedimenti e di arbitrii
il miasma ammorba la serata quanto la colma
quietamente macera, quanto il turbare dell’io
schianta la faccia e stempera la memoria.
Il marchio che certifichi mentre dormi nei sogni
della giovinezza è il marasma
in te moribonda che cedi alle radici masticate,
morte—mort—muerte—death:
exactly a year ago in the morning you left life
while I was rushing to bring it back precisely
as you were turning it away
sbavando libidine a un bivacco acceso di rose.
Sai, il mese della neve si chiude
appena il gelo consolida la ghiacciata
per i territori dove mi sollievo
da un luogo all’altro, cercando qualcosa
usurpando persino il mio posto, perché è così
che il gelo del tuo sabato si abbina alla fanghiglia
perché è così che si ghiaccia ogni cosa.
Ormai indosso la fatica come un abito—
è la pratica dei giorni svegli
con te defunta alerta minacciante
se dopo dodici ore al giorno dall’alba al tramonto
sono stanco, sventagliato dagli alberi e allucinato
di afflizioni senza rimorsi,
dopo la colpa e dopo la sera
quando sono il corpo che sprofonda
per risalire con il mattino.

19 marzo 1995, un anno dopo


**


Salgo all’intaglio dell’altura che scende
e sale a scalinate verso il marmo circolare del sepolcro
circolante di venti mortuari, e da qui balzo da un salto
all’altro seguendo ramaglie, ciottoli, piedi di donne
scarpe avvilite tra ciuffi d’erba
e piante lacustri di sottobosco attorno la collina
con la prora spaccata del monumento al mare—
è così che inciampando nello sterco d’uno zotico
proseguo arrogante, fingendo il nulla
per non menomarmi come superstite
della perfidia delle tribù infime.

Vittoriale degli italiani, 1996


**

a Luigi Fontanella

Nota — la mente stermina
nell’atmosfera desertica dell’asfalto
con il vapore, il bollore in sospensione
all’altezza della fronte; vedi—l’acqua persevera
e penetra da uno strato
all’altro nel penetrale del sottosuolo
così compatto e così capace di purificarla goccia
per goccia lentissima a salire alla fonte
di pietra; dovrei riflettere il perché.

Come definirti ora
che defluisci con le onde della sera innestata
ancora alla vampa del sole che adagio
si abbassa sulle piante stese tra le case
e le rocce,
come esclamare aspramente la vergogna
intanata come l’embrione del male
perenne nelle corsie del sangue;

ti hanno declamata “dolce”
io ti chiamo “sublime,” il chiasso della terra
il mostro del vivere in mezzo
al verde brutale, acido
il silenzio nel silenzio del silenzio.

1997


**

Fedeli alla stessa privazione
con la testa che smemora tra la folla
si attende l’imprevisto;
la centralità dello sguardo si narcotizza
nello spacco magnetico della tua figura
la sola imprevedibile solidità
d’un mondo ignoto—seguimi
per dedicarti alle stagioni
che oltrepassano senza modificarti
ed insieme ritroveremo la ruota dei sensi,
dimenticati, perché già previsti.

15 febbraio 2000


**

Ascolta—
questo uccello antico ancora sboccia di piume
e con mutezza nella gola efficace ti arrossa
le guance su quel terreno d’erba
rasa al sole che ci bolle le ossa quasi liquefatte
addosso lo sfondo drammatico di biacca calcarea
frastagliato a guizzi
nel rettangolo d’acqua acidula di vespe;

so come aprirti il sangue a sgocciolare purissimo
dal mensile ferimento alla mia bocca,
come violarti
propizia al mistero di voler essere violata
e come esaltarti per l’uccello che t’impazza nel profondo,
so quanto vuoi l’urto
il bruciare che ti stravolge le viscere e nella mente;

che io capisca la perfetta lineare denudazione,
che io con fervore ami
la serenità e le offerte dell’adolescenza prolungata
senza inquinarti l’acqua salina
la saliva
la densità del fiotto albugineo che ustiona
e il sangue che splende oscuramente e profuma
del fiore compatto dalle cosce a perpendicolo.

8 giugno 2000



da ULTIME
(2000–2005)


**

a Giovanni Raboni

In rue de l’Arbre Sec ti osservo
a seccare il becco di merlo felice
slavato dall’acquata recente
a rantolare “frères humains” dallo splendore
della gola che ti prosciuga e che soltanto io ascolto
strozzarsi di paura testarda

ti cercavo nei secoli di vicoli viscidi
della tua città che derubi a coltellate
e t’incontro finalmente sulla forca d’antan
in questa via, al Caveau François Villon,
che ospita il tuo gradito compagno di sventure
alfredo de palchi.

Parigi, 29 giugno 2003


**

Spinto al calvario che si compie
nella signoria medievale del palazzo
su per le scale
tu nel resoconto di donna intuisci
che in me rivisito
il cielo torrenziale che sbianca di schiuma
il macero dell’infossato vivo
da “resistenti” ignobili nella fossa,
melma che a mano e vanga scavo
per esumarlo dalla coscienza di vomiti
e quel giugno 1945
incenerirmi in questa assise di musi storti
che a centinaia salgono sanguinari le scale –
è possibile
che questi figuri di ingiurie
indemoniati dal mio “sarcasmo, risolino insolente
e sguardo bieco” quando mi si vuole fucilare
si impersonino dei loro clichés perfidi dentro l’animo
mio di “rozzo” ragazzo travolgente.

Verona, 13 dicembre 2003


da FOEMINA TELLUS
2005–2009



**

Younger than springtime, am I?
a ottanta
la mia giovinezza che ha il florido
colore del cadavere ripristinato
a te che sei eterna
grida la gioia
non l’orgoglio di trascinarsi
alla caverna che abbaglia
per il bagliore della tua presenza
maligna malevola malefica.

11 dicembre 2006


**

per il mio compleanno di errori
Martedì 10 dicembre 1926
l’anagrafe è un deposito di ceneri
dove venerdì 13
per la seconda volta
io, carta da bollo o da gioco,
urlo al mondo la truffa
fino alla fine della finalità
là che aspetta di segregarmi
al reticolato di denti sgretolati.

13 dicembre 2006


**

Ti ricevo a schiaffi
per stanarti i denti marci dalle mandibole
a calci sugli stinchi per crollarti
in mucchio di ossi
nel tritume che si apre in una voragine

domini la rissa
alla concezione che benedice
in nulla d’ogni gesù
e che abbaia quello d’ogni cane
condannati alla brutalità
non prima di beffeggiarti
sputarti nelle occhiaie il veleno
e per sempre rinnegarti per sempre.

24 dicembre 2006

**

l’obeso pezzente in cui ti spacci
con tavolino a drappo rosso
sul marciapiede di casa mia
stridente scocci i passanti:
“un centesimo,
nessuno dev’essere affamato”
ed io che stravolto so cosa intendi
ti reputo un volgare
becchino
che sfido di correre
senza fissa dimora per deperire
come deperiscono i passanti
che pagano un obolo di dogana
per calarsi nella tua chiavica.

7 luglio 2008

**

a Roberto Bertoldo, alla sua onestà

Di sabato notte
scendi dall’ultimo piano
e controlli chi esce e chi rientra
sostando al piano appena sospetti
che un inquilino aspetta
la tua presenza

sdentato, biascica litanie
al crocifisso alla cabala alla mezzaluna
all’ultimo istante chiede perdono
per aver tradito tutti
e incassato ricchezze rovinando famiglie
e aziende in crisi

così alla domenica
il palazzo dorme di inquilini
reduci da Wall Street,
a mezzo giorno scendono in mutande
e salgono con il giornale per leggervi
gli annunci funerari e varie notizie
mai a corto di brutture

la sola giustizia che ho io
sei tu che lo spacci senza perdono
e senza aspettare una risposta—
te la dò io che nulla mi appartiene:
entra nei palazzi e
liberaci dal male.

20 luglio 2008

Le déluge

Nota dell’autore

**

La voce di questa breve silloge, dà concretezza all’aldilà (se
l’aldilà, con il suo inferno, esiste) e senza timori prorompe in
accuse definitive verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli
uomini grondanti malvagità, e le vicende grandi e piccole che
hanno fatto la mia storia.
Dopo oltre sessant’anni di angherie e di ingiustizie politico-legali
e politico-letterarie, il rigurgito mi è venuto spontaneo: un testo
al giorno, dodici testi del mio lascito. Senza rancore, senza
cattiveria, ma con una continua sete di giustizia.

**

Aggiusto la mira delle sassate alle finestre
alle teste disorientate dei carrettieri
e dei preti con il potere
della crudeltà
raccapriccio dell’esistenza
nei pagliai e nei tuguri,

la tua benedizione dal portale di cotto
Giuseppe Girelli prete Bepo zoticone
così tanto insozzi
che ti spaccio alla tua personale inquisizione
usando insulti da pulpito
corde al collo e chiavistelli ai testicoli
e sfoderarti la pancia all’ultimo urlo
che voglio udire
in questa immensità di silenzio
con la mira della sassata

eccoti a bocca spaccata tra gli ossami
a sentenziare le donne che mai
riposi di predicare veleno cristiano—
che il tizzo del tuo involucro di fanghiglia
sperperi urli atroci
per la mia sassata che fa giustizia
precipita nel baratro
che il cranio scoppi laggiú sulla pietra
del Bussé il canale
per sempre il tuo inferno.

23 giugno 2009

 **
Tu sei Sandrini Giovanni l’immondo Nanni —

usi il convincente potere sulla donna per fotterla
fisicamente e moralmente senza dannarti o danneggiarti
anzi la plebe mala carne da stritolare ti considera fortunato
e ti sostiene con ammirazione

soltanto lei colpevole la colpita e con questa sicurezza
morale sparisci mentre lei attende la nascita di tuo figlio
che per tutta la vita ti assomiglia

neghi la paternità ma rifiuti la prova del sangue

la negligenza documentata ti punisce nell’inferno terrestre:
beni immobiliari e fondi bancari di uomo e padre naturale
periscono nel buco nero della bancarotta purtroppo non
per mia intenzione

la certezza è che non mi manchi nemmeno in quest’altra
dimensione

e da qui mi concedo di infliggerti la giustizia delle donne
desiderate: di girare intorno alla mia eternità morsicandoti
continuamente il cazzo.

24 giugno 2009


Alessandro Assiri

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L'inquietudine che si agita nel libro di Alessandro AssiriIn tempi ormai vicini (CFR, 2013) si sente già nel titolo, che fa da porta a pagine dove si attraversano gli ultimi quarant'anni d'Italia, a partire dalla strage di piazza Fontana. Quei tempi, ci dice allarmato l'autore, non sono lontani, come il detto suggerisce, bensì prossimi venturi. O forse non sono mai finiti, costituendo una sorta di spada di Damocle sovrastorica, che incombe in ogni democrazia, ma soprattutto nella nostra. E' appunto questo, mi pare, il tema forte del libro: raccontare per sommi capi il passaggio italiano dalla lotta all'omologazione, adottando il punto di vista di una generazione, prima in conflitto con il sistema e poi omologata, "ovvero dalle file di aut.op al selciato delle coop" come recita l'incipit di vamos a la plaza, l'ultimo atto di questo libro feroce.
Anche qui, il calembur del titolo unisce la lotta di piazza alle canzoncine da playa, dai pugni chiusi di autonomia operaia (ma anche di Ricky Ganco e di Demetrio Stratos) alle manine agitate del pubblico che in bermuda va in piazza ai concerti estivi, ad ascoltare, mettiamo caso, i Righeira. Una delle ultime liriche del capitolo ribadisce il concetto: "adesso [...] se senti due urli / o è un ubriaco o una festa di laurea" (verità sacrosanta se non teniamo conto degli Indignados, dei No al Dal Molin, dei No Tav; ma, come detto, Assiri fa i conti anzitutto con la propria generazione).
Certo non era meglio quando in piazza mettevano le bombe e le inchieste erano deviate; non erano migliori i tempi dei muri di gomma, anche perché non sono ancora finiti. Ed "è questa ironia che fa figli insicuri" scrive Assiri nella poesia d'apertura, che tiene insieme, sotto il titolo Il malore attivo (quello dell'anarchico Pinelli quando precipitò dalla finestra della questura di Milano, secondo la sentenza del giudice D'Ambrosio), la Banca dell'Agricoltura, Piazza della Loggia, l'attentato alla stazione di Bologna e persino la morte di Pasolini, che entra a segnare con il sangue il nostro destino di tardo moderni costretti in una democrazia malata, dove "pensare al futuro è pensarlo da ladri". Una chiusa epigrammatica, che tiene tutti fuorilegge: chi ha rubato perché potente e chi ha rubato per sopravivere. Ma ladro, qui, potrebbe essere addirittura figura archetipica: quella del viandante parassita, che vive sulle spalle delle formichine operose. E quella di chiunque sfrutti una situazione senza assumersi responsabilità, in politica, in amore, nella cultura.
In tempi ormai viciniè un libro che invece si assume il fare responsabile, anzitutto mettendo a fuoco la precarietà dell'esistente, dove nessuno è innocente: "far finta di essere sani", scrive Assiri citando Gaber, è una pratica dell'ipocrisia italiana che ha pervaso ogni nostra cellula. Si esce da questa melma rifondando il patto tra generazioni, dall'eskimo al loden, "far pace con il morto / coi fratelli precedenti". Una pace che nasce hobbesianamente da un contratto, non dalla disposizione dell'anima candida, bensì dalla rifondazione della civis, con regole precise, per uscire finalmente dallo stato di natura. Questa pars costruensè soltanto sfiorata nel libro, dove invece domina la maceria di quanto siamo diventati dopo le promesse della repubblica antifascista. Maceria che trova nelle forme gergali e basse, nelle frasi idiomatiche, la sua cifra: "pagherete caro pagherete tutto pagherete un cazzo" sintetizza Assiri con l'amaro di chi, in quella minaccia, aveva forse intravisto l'inizio di un futuro differente. E ironizza, altrove, mescolando Nilla Pizzi con le toghe rosse e il gergo da osteria: "Entra la corte svolazzan le toghe papaveri alti il resto son seghe", misura lunga che bene incarna il proprio scheletro metrico-stilistico: stringhe versali, citazionismo, soluzioni retoriche frequenti (la sineddoche "papaveri" per "rossi" che subito, per analogia, aggancia la canzonetta sanremese "i papaveri sono alti alti alti") e il costante sguardo volutamente rasoterra, dove "seghe" sta per cose di poco conto, cose piccoline, come la Pizzi quando canta Papaveri e papere.
   Soltanto una osservazione critica: qualche nota sarebbe stata utile a chiarire i riferimenti di cronaca che entrano e escono all'improvviso, disorientando anche il lettore più accorto. Un esempio per tutti: per capire a che cosa allude la terzina "Marco con la voglia nella pancia / 23 chili circa di sorelle più viste e di parole grosse / che hai imparato a consolare" ho dovuto chiederlo all'autore stesso, che mi scrive: "Marco è la più piccola vittima della strage aveva 3 anni, fu riconosciuto da una voglia che aveva nella pancia  e l'esplosivo usato era il compound b un esplosivo militare del peso di 23 chili".




Pietro a letto con la febbre o in piazza con le bombe
a non sapere chi era l’uomo con la borsa, il taxi, la mancia, la corsa
l’acqua al mulino, la finestra poi pino
il rumore dei baci e dei pianeti in scorpione
e stare in silenzio che è già meglio di niente
verificare le note rintracciare la fonte
per competenza si cambia procura
è questa ironia che fa figli insicuri


**

Sotto le unghie dove tenevi il mondo
consumavi maggio di lenzuoli tutti in fila
senti come tace il tuo pugno alzato
adesso che indietreggi perché sei rimasto vivo
tra una scarpa calzata e un’altra perduta


**

I ragazzi dal coro: presidente a fan culo
c’è rimasto del sangue tra la testa e la schiena
Pierpaolo sa i nomi ma senza gli indizi
le colpe le talpe il golpe e son cazzi
il cancello la casa lo sciopero i quadri
pensare al futuro è pensarlo da ladri.


**

Entra la corte svolazzan le toghe papaveri alti il resto son seghe
tutti i colpevoli trovati in serata con alibi pronti e corsia riservata

si parlava così in fretta di pericoli e stagioni
si confondeva amore con incontrarsi qualche volta
il nostro immaginario che non controllava il movimento
così che ogni richiamo ci sembrava un cambiamento

differenza che spariva tra chi il segreto proteggeva e chi lo percepiva


**

Argomentare il ritornello di una rivoluzione al giorno
è come avere in bocca qualcosa di meraviglioso
le costellazioni imparate tra i denti sani e quelli guasti
sui libri imprestati da amici ammazzati o da quelli rimasti


**

La propensione all'amore delle stanze in affitto
ti piegava come la latta delle valda
qui è da ore che non si spara in italiano
e il discorso si rovescia una gamba dopo l'altra


**

Quella manina svelta che parlava come noi
tirando piccole ore da gelosi
non come adesso che se senti due urli
o è un ubriaco o una festa di laurea




Alessandro Assiriè nato a Bologna nel 1962. Da molti anni vive tra il Trentino, Bologna e Verona, città dove gestisce la Libreria Bocù insieme alla sua com­pagna. Si occupa di arte e promozione culturale e collabora a vario titolo a riviste e iniziative letterarie. Pubblica da anni opere in versi per le quali ha ottenuto significativi riconoscimenti. Tra le ultime cose, Morgana e le nuvole, Aletti editore; // giardino dei pensieri  recisi, Aletti editore; Modulazione dell'empietà, Lieto Colle; Quaderni dell'im­postura, LietoColle; Sui passi per non rimanere, con Chiara De Luca, Fara Editore; La stanza delle poche righe, Manni  editore;  Cronache  delta  città parallela, poemetto in versi insieme a Serse Cardellini, Thauma edizioni.
Qui il suo blog.
  


Il j'accuse di Gianmario Lucini sul pasticciaccio parlamentare

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Gianmario Lucini, sull'elezione del dodicesimo Presidente della Repubblica:


Io accuso
-il Partitodelle Cinque Stelle per aver preteso di candidare alla carica di Presidente della Repubblica, persone che neppure lo sapevano, con una prassi consultiva inventata e fantasiosa, senza discutere con nessuno l’opportunità del metodo adottato né la pertinenza degli strumenti e la loro coerenza rispetto all’obiettivo. La democrazia è trasparenza (e non soltanto, ma anche competenza).
-il capo del suddetto P5S, sordo a qualsiasi tentativo di dialogo, in cui unico scopo è stato fare i giochini e gli sgambetti da scolaretto mentre l’Italia sta andando alla malora. La democrazia è responsabilità, non una play-station.
-ancora il suddetto, per aver con ostinazione evitato il confronto con gli altri eletti e rappresentanti del Popolo, ingiuriandoli e sbeffeggiandoli, salvo poi avere la pretesa che costoro accogliessero le sue proposte come una verità metafisica e indiscutibile perché sancita da qualche migliaio di votanti. La democrazia è rispetto per l’avversario e confronto, non è lo slogan che recita: “chi non è con me è contro di me”.
-ancora il suddetto, perché teorizza come nuovo modello di democrazia il cosiddetto web, che è di gran lunga lo strumento che offre le più scadenti garanzie di democraticità (come peraltro è stato ampiamente dimostrato in questa occasione), almeno in questa fase storica e tenuto conto del gradi di informatizzazione delgi italiani e della loro pratica nell’usare correttamente l’informatica e nel difendersi dai messaggi subliminali che essa nasconde. Le regole si cambiano trovando un accordo con l’avversario, non con i colpi di mano e neppure con la fantapolitica.
-Stefano Rodotà, che è caduto nella grossolana trappola di coloro che vogliono agire dettando regole che non sono sancite da Leggi e Costituzione (l’elezione del Capo dello Stato avviene, per legge, sulla scorta di una proposta che scaturisce da una contrattazione interna ai partiti e non da 10.000 webcogitantes che si divertono al PC). Esiste democrazia soltanto se ci sono regole condivise, non le regole di chi sbraita di più.
-La destra italiana, che non è capace di presentare di sé un volto pulito da ogni equivoco e un pensiero coerente con il bene di tutto il Paese. La democrazia è il vantaggio di tutti e non di pochi più uguali degli altri.
-la destra italiana, che ha manovrato proponendosi come forza di governo, dopo il disastro economico imputabile alla sua mancanza di iniziative e al suo altissimo grado di litigiosità interna. La democrazia è alternanza, non ammucchiata.
-La sinistra del PD per aver dato prova di una impressionante mancanza di cultura, sostituendola con il traccheggio, il tatticismo, il navigare a vista. La democrazia è limpidezza di linea e comportamenti e non una manovra per vincere a tutti i costi.
-i franchi tiratori del PD, perché hanno preferito dare ascolto alla grancassa massmediatica e non alla Costituzione che prevede prassi e passaggi non riconoscibili nel metodo, pur da altri proposto, che essi hanno appoggiato. La democrazia è coerenza, non calcolo opportunistico.
-Il Centro, perché proponendosi come ago della bilancia, in realtà invoca il cambiamento perché nulla cambi realmente. La democrazia è dire la verità, non far finta di dirla.
-         gli italiani tutti, perché si comportano come una folla e non come un popolo. La folla non è mai democratica, specialmente quando vuol marciare su Roma.
-         me stesso di pervicacia, perché ancora mi cruccio per questa democrazia da Bar Sport.

Salvatore Violante: poesia e neuroscienze

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Noterelle sulla poesia e sul cervello che la produce
(a proposito di una discussione sull’utilità della poesia oggi)


Questi nostri tempi moderni ci presentano un uomo alle prese con il mercato, sempre più teso ad adattare se stesso e ciò che lo contorna alla ricerca di beni che possano dargli una qualche requie.  Tutto questo, con una irrequietezza che lo porta avanti e indietro, con moto circolare, simile a quello del cane che si morde la coda: una fatica insensata che dà la dimensione del mare di vacuità in cui nuota l’uomo moderno. Come salvarsi da questo? In cosa poter sperare?  Può la poesia dare una mano? O è davvero morta come certifica il post-moderno? Cos’è  che si intende per poesia? Qual è il suo terreno? Chi è il poeta? A queste domande l’immagine più familiare e immediata, che mi si presenta è quella di due lunghissime, diritte rotaie parallele, analoghe a quelle di una linea dell’alta velocità che si leva al di là e al di sopra del visibile.  Luccicano, perdendosi nell’orizzonte remoto e sembrano, per una prospettiva falsata, incontrarsi in un punto lontanissimo.    Sempre la stessa immagine, a suo modo vicina e a suo modo lontana dalla realtà di ogni giorno. Il luccichio della rotaia, la gioia estetica, del visibile che si prova incamminandosi  verso la conoscenza, la percezione corporale di questo piacere che è partecipazione ; questo aspetto può ridursi in “maniera” quando si riduce ad una beatitudine epidermica. Occorre rimuovere le ombre del visibile, che fanno da contrasto e si allungano costantemente di fronte al punto luce dell’orizzonte lontano. Le due rotaie sono l’itinerario obbligato lungo il quale scivolano e si formano le parole della poesia che, in parallelo, inseguono  fantasie drammatiche, oscillando e incrociando speculazione ed immaginazione, cielo e terra, veglia e sonno, ombra e luce, silenzio e suono, eccesso e difetto, carne e cuore, terra ed aria. Sempre in bilico, in equilibrio instabile tra speculazione razionale ed immaginazione cosciente. Il campo di forze prodotto, condizionando il reale  ne sconvolge le connotazioni naturali, in un vortice caotico dove dimensione e distanza intrecciano possibili polarizzazioni affettive. Ecco una prima utilità della poesia: quella di vestire con più garbo e naturalezza la circolarità di rapporto che le nuove scoperte delle neuroscienze sembrano mostrarci  tra neuroni  e natura corporale, tanto che gli stessi fenomeni neuro-mentali interattivi finiscono per modificare la  stessa natura corporale e dei neuroni e dell’intera struttura emotiva e motoria. L’essere umano, per sua natura, non riesce ad accontentarsi. La stasi gli provoca noia, il muro di fronte, una sofferenza alla libertà visiva e quindi ha la necessità di ricorrere alla immaginazione per uno slancio cosciente. Di là dal muro c’è il divino, l’impercettibile, l’infinito. Da qui nasce l’istanza di poesia. Ed ecco perché, tutti sentono la necessità di esprimere poesia. È naturale ed è un modo di rapportarsi con se stessi e con il mondo. La seconda utilità è consequenziale perché realizza uno strumento per conoscersi e modificarsi e per conoscere e modificare l’apparente visivo. Ho parlato di parallele e di cerchi, le prime non s’incontrano mai se non in un punto lontanissimo, i secondi sembrano limitare uno spazio ma non un movimento. Questo perché la poesia è utopia è rincorrere all’infinito la vita per irretirne il profumo o la puzza in una manciata di parole. E mentre tutti sentono il bisogno di esprimere poesia, questa però si presenta a pochi e non sempre per vie costruite.  Il poeta è un condannato ad una instabilità perenne, che si guarda intorno cercando di riconoscersi, dà fondo a tutto quello che ha, la mente va in ebollizione e si sorprende dilatando se stessa e l’orizzonte visivo.  È l’ebollizione della mente che surriscalda le parole rendendole materia fluida, come dire, plastica, rendendole  immediatamente percepibili come miracolo. E questo avviene perché il nostro cervello non ha comparti stagni. È un reticolo di interconnessioni tra mente razionale, emozionale e radici nervose. L’intuizione dello scienziato non provoca solo la reazione razionale per la ricerca ma anche l’emozione per una possibile scoperta. Non solo, ma innesca addirittura una reazione a catena che è anch’essa circolare e che migliora la funzionalità dell’organo nel suo complesso.  Merleau-Ponty diceva che “tutto è scienza e tutto è filosofia” io aggiungerei che tutto può in-formarsi in poesia.
 Ci vuole il Poeta.
Dante Alighieri è l’esempio principe.
La modernità non riesce a porre confini netti tra ragione ed immaginazione,  rigore scientifico ed intuito entusiastico, è costretta ad utilizzare una malta che impasta insieme sensi, emozioni, sentimenti e raziocinio. La razionalità che potrebbe apparire il tarlo dell’uomo moderno, ha una sua potenziale capacità di dilatarsi ed impregnarsi, durante i processi conoscitivi, di emozioni e senso.  C’è un’ interdipendenza tra le varie funzioni cerebrali grazie ai progressi delle neuroscienze, con la scoperta dei neuroni specchio, che nella meccanica cerebrale dell’emotività, sembrano il registro neurobiologico dell’empatia tra individui. Sembra che questi neuroni abbiano la funzione di riportare a galla memorie sopite portandole alla coscienza: queste risiedono, per lo più senza farci caso, entro spazi invisibili come in quelli visibili, e le sue conoscenze riecheggiano un infinito sconosciuto mentre l’immaginazione, appare come il proiettile di una fionda da scagliare sempre più verso l’inimmaginabile.  Ce lo permette la percezione di noi stessi. Nella nostra mente, da dentro, avvertiamo, in una miscellanea di emotività e raziocinio, una sorta di carnalità strutturale e potenziale pressoché infinita che si snoda grazie ad un motore mirabilmente complesso chiamato cervello. Il cervello può essere immaginato come un mare magnum da cui la mente emerge con più visibilità e produce il pensiero che resta bagnato da quel mare, da tutta la complessità di quel mare.  Antonio Damasio e Semir Zeki ( neuro scienziati) sono convinti che non c’è pensiero prodotto, vestito di solo raziocinio, in esso confluiscono sempre anche affetti e sentimenti corporali. C’è una circolarità fra i soggetti corpo, mente e cervello. Ciascuno non potrebbe essere senza gli altri due, ciascuno, agli altri due funzionale. Nella sua storia l’uomo è indotto a rompere il cerchio ma questo, sempre, si ricompone, per sua natura: funziona sempre allo stesso modo, sia nelle operazioni elementari che in quelle più elevate e geniali. Sono vie faticose e talvolta piene di mistero quelle che il circuito corpo-mente-cervello può innescare quando l’uomo tende a riconoscersi nel mistero dei misteri del suo cervello, in un viaggio dentro e fuori dai suoi limiti verso l’Arte o verso Dio. Possibilità sempre in bilico ma che il cervello comunque mette sul banco, in offerta.
                                                                

Salvatore Violantenasce a Boscotrecase (NA) nel 1943,vive a Terzigno in provincia di Napoli.  Titoli di studio: Maturità Classica e Abilitazione Magistrale. Da universitario, non completa gli studi (Giurisprudenza a Napoli, Lettere a Salerno) preso dalla lotta politica e sindacale nelle fila della C.G.I.L. in quegli anni  60 che sembravano farsi carico di un cambiamento epocale. Frequenta il corso di economia con Gino Giugni, nelle fila del P.C.I., alle Frattocchie.   Ha pubblicato in versi:“Moti e Terremoti”(L’Arzanà-Il Piombino, TO 1984); “Punto e a capo”(Marcus ed. NA 2007). “Sulle tracce dell’uomo” (Marcus ed. NA 2009). “La meccanica delle pietre nere” (CFR Edizioni Sondrio 2013) Con Antonio Baglivo,per  Ibridilibri, “La casa, questa terra il suo profumo”( 2008),“Su questo altare” (2008). È presente in varie riviste: La luna e i falò, La Recherche, SecondoTempo, Capoverso, Talento, L’Area di Broca, Gradiva, La nuova Tribuna Letteraria. In antologie: Selected Passages from international authors (ed. Andreozzi, 1971). Alchimie poetiche, ed.Pagine(Roma, 2008), In linea con la poesia , (Ed. Pagine 2011), L’impoetico Mafioso (Edizioni CFR 2010), La Giusta Collera (Ed. CFR 2011), Le Strade della Poesia (Delta 3 Edizioni, 2011),  A che punto è la notte (Ed. CFR 2012) Oltre le Nazioni(Ed. CFR 2012), La poesia è più viva che mai(Magi Editore, 2012), Immagini (Ed. Pagine 2012), I poeti contemporanei(Ed. Pagine 2012). È presente nel volume primo dell’Enciclopedia degli autori di poesia dell’anno 2000(Ed. CFR 2012). Ha collaborato con: Il giornale di Napoli, La voce della Campania, Dossier Sud.Attualmente collabora con articoli, racconti  e saggi con Il Gazzettino Vesuviano, Secondo Tempo e Il Vesuviano.
   Sulla sua poesia si sono espressi numerosi critici, fra i quali: Giorgio Bàrberi Squarotti, Franco Loi, Valerio Magrelli, Giampiero Neri, Mario Lunetta, Gianni D’Elia, Lino Angiuli, Mariella Bettarini, Luigi Fontanella, Plinio Perilli e Antonio Spagnuolo.


Due letture: Treviso e Rovolon (PD)

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Due appuntamenti poetici per chi abita nel trevigiano e nel padovano


TREVISO
Venerdì 26 aprile, ore 10,45
Ca' dei ricchi, via Barberia 25

Presenta Marco Scarpa
leggono
Alessandra Carnaroli e Stefano Guglielmin

*** 



ROVOLON (Padova)
Domenica 28 aprile, ore 19,30
c/o La Costigliola (agriturismo)
via Rialto 62

UN POETA A CENA
Sei poeti veneti, Giovanna Frene, Stefano Guglielmin, Laura Liberale, Maddalena Lotter, Giulia Rusconi, Marco Scarpa leggeranno le loro poesie e mangeranno
insieme al pubblico, in un clima di ideale convivio.

Le prime letture saranno un ottimo aperitivo, inizieranno infatti alle ore 19,30; alle ore 20
seguirà la cena, e subito dopo, ci sarà il seguito delle letture poetiche.


ANTIPASTO: piatto ai sapori di primavera
PRIMO PIATTO: Risotto agli asparagi
SECONDO PIATTO: Crocchette di miglio de La Costigliola con contorni
DOLCE: Focaccia casareccia
VINO: Incipit de La Costigliola Cabernet Sauvigon doc 2011


PER LA PARTECIPAZIONE ALLA SERATA: € 18,00


informazioni e prenotazioni: info@lacostigliola.org  o 3938849087

Corrado Bagnoli

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In Casa di vetro. Poema in tre quadri (La Vita Felice, 2012), Corrado Bagnoli mette sullo sfondo l'Italia del boom economico e una Milano fredda eppure epifanica, dove s'impara un mestiere. Sceglie la via del racconto in versi e fa benissimo perché ciò gli permette di far circuitare il passo lirico con quello narrativo, l'immagine memorabile con le strutture discorsive, necessarie a organizzare, in primo piano, le sequenze di una vita che potrebbe diventare un modello antropologico, dove la virtù si combina con il talento; ma non si tratta di una favola edificante perché il protagonista dai capelli rossi, figlio di povera gente, esiste davvero. E' il pittore Pierantonio Verga, nella cui biografia Bagnoli ha letto la propria vita, la propria scrittura.

Casa di vetroè un libro sull'amicizia (tra il poeta e il pittore) e sulla solidarietà: c'è don Orione, "un prete piccolo, dentro / una tonaca nera più grande di lui", che ha fondato il Cottolengo a Milano; e c'è un architetto, che racconta a sua moglie di viaggi di lavoro interminabili, mentre invece va a intrattenere i degenti del Cottolengo, suonando sino a nove strumenti.

Casa di vetroè anche un libro sull'arte, sulla differenza tra essere pittori ed essere artisti. Il maestro è Lucio Fontana, personaggio anche lui, qui, che spiega a Pierantonio: "Il pittore è uno che fa il quadro, prende / i colori, i pennelli e fa il quadro. L'artista / invece li adopera, li fa diventare una lingua. / Bisogna smetterla di parlare di materia: / o c'è una lingua, o si scrive e riscrive il mondo, / oppure non c'è niente.  La noia del quadro". E Casa di vetroè anche un libro sul guardare, sul guardare il mondo, anzitutto. Arte e poesia sono uno sguardo particolare sul mondo, ci dice Bagnoli: "Tutti i pittori cercano di aggiungere / qualcosa, di arrivare, attaccando qualcosa / a fare il quadro; l'artista mette subito quello / che viene dopo", ossia il mondo con le sue voci. "La città era un buco caldo" con le sue parole dentro e fuori dai bar, dalle gallerie, "un polmone, un respiro / fatto di fiati che s'incrociavano". E' lì che il poeta deve guardare per trovare la lingua. Una lingua plurale come plurale è la dimensione del vivere, che tuttavia converge nell'unica direzione possibile: il bisogno di accoglienza. Dice bene Davide Rondoni nella prefazione: la parola chiave di questo libro è "accogliere" proprio perché sempre, e qui in modo esplicito, la scrittura tesse un nido dove il mondo trova "ricovero e messa a fuoco, e dunque altra vita".

Pierantonio da giovane si muove in una Milano non troppo differente, nel tempo e nello spazio, da quella in cui agisce Carla Dondi, la ragazza di Pagliarani; ma differenti sono i loro caratteri: la seconda è rassegnata, il primo combatte invece per far vincere la bellezza che è in lui. In questo modo, per via esemplare, Bagnoli apre alla possibilità di vivere una pienezza esistenziale anche nel tardo capitalismo, conservando l'autenticità, per quanto minacciata; Pagliarani invece, negli anni cinquanta, portavoce dell'impegno neoavanguaristico, prelude a un futuro dove non c'è scampo per i vinti, se non omologandosi ai ritmi crudeli della città industriale. Difficile dire chi abbia ragione, se l'ottimismo di Bagnoli o il pessimismo di Pagliarani. Di fatto, ragazze come Carla Dondi se ne incontrano ancora in giro, ma molto più disilluse o integrate; e magari, uomini come Pierantonio ragazze come Carla le sposano. E infatti, nel Quadro due, Laila le assomiglia, lei che "è un soffio bianco di diciannove anni dentro / un vestito a fiori, dietro due occhi che hanno visto / solo libri e mare, dietro un naso dritto che taglia / il caldo del negozio e della pianura" e che, da Rimini, andrà con lui a Milano e ci vivrà insieme tutta una vita.

Vicino a Casa di vetro, per l'afflato corale e creaturale, metterei La forma della vita di Cesare Viviani: in entrambi i libri si costruisce un affresco della vita lombarda, letta attraverso esistenze ordinarie, ma tenaci nel confermare che la vita va vissuta, qualsiasi destino essa ci riservi. Dalla vita, direbbe Bagnoli, c'è da tiragli fuori il pane e il vino. In ciascun essere, ci insegnano i due poeti, c'è un nucleo che rimane intatto, che nessuna struttura economica riesce a conformare, un nucleo naturale, astorico, frutto di una stratificazione ancestrale, che ci fa simili all'uomo della pietra e artisti, tutti, nella misura in cui riusciamo a trasformare lo sguardo in voce. Per questo, come scrive Bagnoli, l'altra parola chiave è "offrire", dare al mondo le parole e la carne per comprendersi e ripartire.

Accogliere e offrire sono due verbi cristiani (in Casa di vetro, Dio è presente come padre carezzevole); Bagnoli ribadisce le proprie radici piantate nella croce, ma in una complessità dove, appunto, Dio non è presenza scontata, bensì – come egli riferisce nel saggio Il tempo, il linguaggio, il divino (in AA.VV., La poesia e la carne, La Vita Felice, 2009) – rivelazione carica di mistero, che tiene l'uomo nella sua dimensione interrogante, essenzialmente interrogante. Per quest'ultima ragione, di radice heideggeriana (scrivere è rispondere al Dire originario) e jabesiana (si pensi a Il libro delle interrogazioni), sono convinto che accoglieree offrire siano due verbi imprescindibili per chiunque voglia praticare la poesia nella profonda semplicità del proprio esser-caduco. Questo è il compito dei poeti, oggi, i quali, meglio di chiunque altro, sanno tramandare l'esperienza più intima dell'uomo: l'incontro sorgivo e destabilizzante con il mondo a partire dalla propria, irripetibile, finitezza.


dal Quadro uno

La bicicletta gialla gliela aveva regalata
suo padre, ci andava a scuola e nel campo
a giocare. Gli altri avevano in mente Rivera,
si tiravano giù i calzettoni e si lasciavano
andare a qualche dribbling di troppo; lui,
che non aveva nemmeno il fisico giusto,
si portava dei guanti e tirava col piede
una riga tra i due pali di legno, una specie
di tic che aveva imparato da quelli più grandi,
una magia per dire che non si passava,
forse qualcosa di più, una solitudine segnata
in terra, dentro il groviglio di gambe
che avevano solo l'idea di tirare la palla
oltre quella linea che lui custodiva,
una specie di confine del mondo, muro
che si alzava di mani e di scatti, di ginocchia
spellate la sera che sua madre, già piegata
della secca parola che l'asciugava dentro,
si piegava a lavare via, a guardare come
si guarda un sacrilegio: «Come, te che c'hai   
le gambe buone te le massacri apposta?».
Poi gli chiedeva se aveva vinto, se almeno
quel sangue lì era servito a qualcosa,
se aveva portato la bicicletta nel portico,
se doveva fare ancora quel compito, che la scuola
non era mica meno del pallone. E di andare
a salutare suo padre, gli diceva, che stava
sui conti dei ricchi, che li faceva tornare.
Quella sera lì, però, lei non si era piegata
davanti alle sue gambe, che lui quasi, adesso,
ne provava anche vergogna, che era grande
e non era il caso che lei continuasse così.
Quella sera lì suo padre non c'era. Dov'era?
Lei sembrava ancora più piccola, la voce
non le usciva neanche. Lo prese lì, tenendo
le mani di polvere e sangue nelle sue, secche,
dure e ancora più nodose di sempre.
Non voleva, aveva pensato tutto il giorno
a come non tirargli quel tiro maligno
tra i pali, a come non lasciarsi andare
davanti al suo bambino che aveva ancora
bisogno di tutto, a come non buttargli
addosso una croce che era già troppo
pesante per lei. Ma gli occhi non obbedivano
mica, viaggiavano tra le parole allagati:
«L'ospedale, chissà se ritorna». Lui
rimase lì, tra quelle mani che si scioglievano
per la prima volta, sopra quel dolore
che la faceva ancora più piccola. Non aveva
vergogna, piangeva; non sapeva nemmeno
cosa avesse suo padre, piangeva con lei,
gli sembrava che questo bastasse.



dal Quadro due



Il primo giorno, quel primo giorno e poi tutti
i primi giorni della settimana, doveva passare
al colorificio Nord, in Carducci o Magenta,
a ritirare le tele e l’idropittura che il maestro
aveva scelto. Poi, con gli altri tre o quattro
che stavano in bottega con lui, preparava
il fondo dei quadri. Non provava la stessa cosa
quando, alla scuola dove il maestro lo aveva
mandato, prendeva in mano i suoi fogli.
Aveva caldo, e questo era bello, e le ragazze
anche erano belle. Ma lì, davanti a una tela
rossa o bianca di idropittura, sapeva che di lì
a poco qualcosa sarebbe accaduto. Accadere
era il verbo esatto per dire l’opera e l’istante
in cui il mondo intero ci finiva dentro,
dentro il taglio netto di Fontana e della sua
lama. Impeccabile sempre, controllava e finiva
la stesura del fondo. Guardava da lontano
la tela, come se ci vedesse già dentro la ferita
che le stava inchiodando. Si avvicinava
lentamente e poi lasciava partire il braccio
e la mano. E il mondo intero si squarciava,
come una gola, una terra che doveva dare
ancora risposte. Soltanto chi non era lì
poteva pensare che quell’uomo elegante
voleva andare oltre la pittura. Non lui,
non Pierantonio che quell’istante capiva
come un tempo e uno spazio convocati
insieme in un atto che era come una nascita,
un procreare, un diventare la terra come
un germoglio, una speranza. Un giorno
Fontana gli disse che era contento del verde
che aveva steso, che era già un prato,
un accogliere, una custodia segreta. E quando
ci sprofondò dentro la lama, disse che
il campo era suo, che lo poteva tenere.
Pierantonio lo guardò, come a chiedere se
era vero davvero. Sì. Ma non ebbe il coraggio
di portarselo via. E quando il maestro
si tolse il grembiule, per chissà quale mostra
lanciato tra le strade di Brera, Pierantonio
nascose il prato ferito sotto il mucchio
dei quadri. Scappò via, ancora quel tremore
lo prese, sempre, forse portò a casa qualcosa
di più, un regalo che nessuno gli poteva
portare via dalle mani, dalla testa, dal cuore.



dal Quadro tre


Così,ogni tanto, da qui, passa via un angelo.
Tra i campi di bianco e di nero, carte
sovrapposte tra loro o tenute insieme
da una frattura leggera, slabbrata, dentro     
fogli monocromi, non ci sono più gli strappi,
le fenditure, le scorticature che segnavano
prima i suoi quadri. Arrivano invece
segni a matita che tagliano l'aria di luce;
o il silenzio del nero dopo averla bevuta
la luce della pagina bianca. Incanto,
accadimento, titoli che dicono dell'angelo
nascosto: sono segni di silenzio, fatti di cielo;
non l'angelo o la sua ala, invece il suo battito
che attraversa lo spazio del quadro; la scia
del suo passaggio o, anche, soltanto,
la sua premonizione. Ci sono tutti i quadri
di prima, qua dentro, sempre. Ma lo spazio
fatto di niente, di bianco e di nero, adesso
è abitato, quasi invaso, da questo poco
di segno, presenza discreta, sussurro,
aria che si sposta. Non è ancora una cosa,
o non lo è già più: dice soltanto una scia,
seguendo la quale si arriverà in un posto
dove qualcosa si farà incontrare. Epifania
di ciò verso cui la nostalgia ci spinge,
la luce non basta: è lasciare, insieme al buio,
che quello che accade accada davanti a noi,
preceduto dal vento del segno tracciato a matita.
Orizzonte dentro cui il dato, la cosa si fanno
strada: quelle forme che ancora non sono forme
è tutto quello che viene. Ci prende la tenerezza
di chi è portato a una casa che ancora non si vede,
ma di cui siamo certi per quel bisbiglio.
E' nel cielo e al tempo stesso nel mondo,
nell'aperta presenza di Dio, ma anche nella vita
reale dell'uomo che diventa preziosa, non semplice
o in pace: l'angelo non è pura luce, si manifesta
nella forma dell'uomo, nella carne, la sua ala
si scioglie nei giorni. La sua ala non è diversa
dal legno della pianta del primo quadro, è il braccio,
la croce che ci prende e che ci porta via.


Corrado Bagnoli, nato a Carate Brianza nel 1957, è laureato in filosofia ed è attualmente insegnante di lettere nella scuola media.
Dal 2004 è curatore della collana di libri d’arte “Fiori di Torchio” editi dal Circolo Culturale “Seregn de la Memoria”per il quale ha scritto e curato i libri fotograficidella collana Pomm Granà“Inventario quotidiano”, 2005; “Brianza, un paese in viaggio”, 2006; “Brianza, un paese in piazza. Tra memoria e desiderio” , 2007.
E’ redattore della rivista  “La Mosca di Milano” e della collana di poesia, saggi e traduzioni “Sguardi” delle edizioni La Vita  Felice.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo:  “Uichendtuttoattaccato” (romanzo, Edizioni Joker, 2003); “Ti scriverò un paese” ( poesie,  Il bosco d’acqua, 1998); “Terra bianca” ( poesie, Book Editore, 2000, premio Caput Gauri 2001); “Nel vero delle cose” (poesie, Book Editore, 2003, finalista Premio S. Domenichino 2003, finalista Premio Contini Bonacossi 2003); “Fuori i secondi” (poema con versione dialettale a fronte di Piero Marelli, La Vita Felice, 2005), pubblicato anche per i tipi di Arché in una nuova edizione scolastica; “La scatola dei chiodi” (poesie, La Vita Felice, 2008, selezionato premio Pascoli 2009); “In tasca e dentro gli occhi” ( poesie, Raffaelli Editore, premio Clandestino 2009); “Casa di vetro” (poema in tre quadri, La Vita Felice, 2012).
La rivista di poesia Aujourd’hui poeme ha pubblicato la traduzione in francese di alcuni suoi testi, a cura di Jean Portante. Sue poesie e suoi saggi compaiono in numerose riviste e in varie opere antologiche tra cui ricordiamo qui “La poesia e la carne”, a cura di Mario Fresa e Tiziano Salari, La Vita Felice, 2009.


Sulla poesia del Friuli Venezia Giulia

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L'altro giorno discutevo con mia moglie sulla poetica di Pierluigi Cappello. Lei notava come somigliasse al verismo veneziano del secondo ottocento (Ciardi, Nono, Favretto, Milesi, Zandomeneghi): gli stessi occhi innamorati che raccontano il popolo nelle sue mansioni più umili, la stessa compassione, mi ha detto. Ha perfettamente ragione. E' come se il novecento delle avanguardie non avesse sfiorato non soltanto Cappello, ma una serie di poeti dell'entroterra friulano-isontino (l'area compresa tra le province di Udine, Pordenone e Gorizia) che sembrano disinteressarsi del problema della lingua, così come è stato posto dalla critica di sinistra (da Adorno a Sanguineti), per pensarla invece quale serbatoio etico di una comunità intergenerazionale. Quando leggo Francesco Tomada, Giacomo Vit, Giovanni Fierro, Maurizio Mattiuzza, Michele Obit, Ivan Crico, Antonella Bukovaz, sento che essi riconoscono, nella lingua parlata dai più e nelle minoranze linguistiche, il fondamento di una comunità degli animi, che la Storia ha tentato di dissolvere con due guerre mondiali, il fascismo nazionale, il comunismo titino, il tardo capitalismo degli ultimi decenni. Tutti tsunami che non sono riusciti, malgrado tutto, a distruggere l'identità friulano-isontina. Identità non monolitica e che ciascun autore ha poi coniugato a modo proprio, ma che si sente radicata nel medesimo ceppo preindustriale e che tiene in un dialogo fecondo giovani e anziani, memori tutti di un destino condiviso, fatto di famiglie profughe, di frontiera, di lavoro nei boschi e in campagna, di alcool, di povertà, di cultura partigiana. Questa condizione, nei poeti citati, si trasfigura in mito, anch'esso senza enfasi retorica, in una sacralità del quotidiano, dentro la quale le creature figlie della terra si muovono, mai sole, lungo un tempo circolare, in cui la ripetizione ciclica garantisce la fondazione dell'origine. Lo si coglie bene in questi versi di Cappello, tratti da Mandate a dire all'imperatore(Crocetti, 2010): «Uno, in piedi, conta gli spiccioli sul palmo / l'altro mette il portafoglio nero / nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro. // Una sarchia la terra magra di un orto in salita / la vestaglia a fiori tenui / la sottoveste che si vede quando si piega. //  Uno impugna la motosega / e sa di segatura e stelle. // Uno rompe l'aria con il suo grido / perché un tronco gli ha schiacciato il braccio / ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato / e io c'ero, ero piccolino» (parole povere).

Differente è la poesia triestina, la quale, come scrive Luigi Nacci, è stata una pratica essenzialmente borghese, «espressione di una classe media che di rado, anchenei suoi picchi più alti, ha contestato la realtà circostante, adagiandosi nel canto di un passato tramontato, o lanciandosi in gridi-sfoghi vagamentei qualunquisti. Questo qualunquismo, questa mancata presa di posizione o dicoscienza verso i fatti della storia, questo autobiografismo esasperato – Sabastesso non è esente – si nota anche nella scarsa riflessione fatta sulle formemetriche, accettate dal punto di vista teorico senza grandi riserve, anche sepoi con minor assiduità messe in pratica» (Trieste allo specchio, Battello stampatore, 2006, p32). Questo vale, mi sembra – salvo rare eccezioni (penso, in particolare, a Danilo Dolci, Fabio Doplicher, Ennio Emili e Roberto Dedenaro) – sino alla generazione dello stesso Nacci, a partire dalla quale autori come Christian Sinicco, Matteo Danieli, Mary Barbara Tolusso, Gaetano Longo, Umberto Mangani e Lisa Deiuri, hanno sviluppato una poetica della contaminazione, performativa, di provocazione, una poesia nomade, in cui si dice io a partire dalla sensazione – per citare un verso di Sinicco – che la realtà debba «frantumarsi del tutto» o il disastro, come scrive Nacci in Bewerber, sia già accaduto: «A giorni alterni qui crollano le case in tutte le stagioni / Nelle macerie si gioca a nascondino prima dei soccorsi / Liberatutti canticchiano le ruspe e arrivano i becchini / Scrivono i corvi con tremuli becchi la lista dei dispersi».

In comune con i poeti dell'entroterra, anche gli autori triestini nati negli anni Settanta (ma ci sono altre bellissime eccezioni generazionali, per esempio Gabriella Musetti, con il suo "residenze estive") ritengono che la poesia debba uscire dai luoghi deputati, biblioteche e librerie, per scendere in strada, nei bar, nelle periferie, nelle feste di piazza. Rispetto a quest'ultime, tuttavia, mi sembra che i friulani-isontini vivano con maggiore passione l'incontro con il proprio territorio. Mentre infatti i giovani triestini in ragione della loro indole antagonista e cosmopolita, agiscono in tutto l'ambito nazionale, gli altri dialogano costantemente con la loro terra: basti pensare alla festa di primavera a Cormons e al festival "Acque di acqua" con la sua tappa più ambita: "La Stazione di Topolò/Topolove", due settimane estive di arte, poesia e musica che quest'anno, in disgrazia dei tagli ai finanziamenti regionali, rischia di saltare (a questo proposito, chi volesse contribuire affinché questo progetto si possa realizzare ugualmente, visiti questo sito).

I poeti triestini sopra citati mi sembrano i primi, nel Friuli Venezia Giulia, a tentare uno sradicamento dalla tradizione, per misurarsi con una sperimentazione linguistica e metrica mai fine a se stessa, ma tesa ad agganciare il pubblico della poesia per inoculargli il veleno del pensiero critico e il farmaco contro l'omologazione culturale del tardo capitalismo, con l'idea che l'essere contemporanei non possa prescindere dai modi in cui il reale trova forma nella lingua; per i friulani-isontini, invece, l'universalità dolorosa eppure solidale dell'esistenza va cercata nelle cose sopravvissute a quella omologazione. Nessun antagonismo, in questi ultimi, se non genericamente verso l'inautenticità del moderno; con la certezza che sia il luogo a custodire la via d'uscita all'alienazione, luogo che si dà attraverso i visi, i gesti e le parole degli uomini che lo hanno vissuto. Questa onda, che ha lambito anche i confini veneti (Fabio Franzin, Piero Simon Ostan e Giacomo Sandron ne sono un esempio) confida nella metafisica dell'autenticità, laddove gli "Ammutinati" di Nacci auspicano una nuova rifondazione delle arti entro una Trieste, non più celebrativa, ma propositiva, capace di diventare di nuovo crocevia tra la cultura mediterranea e slavo-tedesca, come lo fu nei primi decenni del novecento, arricchendo i propri modelli con le letterature forti del secondo novecento: la francese, la spagnola, la sudamericana e la statunitense. Le due posizioni mi sembrano abbastanza inconciliabili, ma, proprio per questo, credo debbano dialogare con maggiore intensità, per arricchirsi vicendevolmente, senza perdere di vista la specificità della storia e della cultura del Friuli Venezia Giulia, per evitare tanto il rischio di una mimesi acritica con l'esistente sopravvissuto al moderno, quanto quello di un meticciato postmodernista, che potrebbe sembrare snobismo ai molti poeti passatisti. Io credo che non lo sia e che, anzi, la scrittura degli "Ammutinati" siano espressione forte del territorio; tuttavia dovrebbero cercare maggiori occasioni di dialogo e confronto, a Trieste e in provincia, non soltanto per ribadire la loro legittimità, ma anche per riconoscere, nella poesia resistenzialedella linea friulano-isontina (e in quella praticata dalle decine di poeti triestini nati tra gli anni trenta e cinquanta), una propria ragion d'essere, che non va cancellata, bensì, caso mai, messa in cortocircuito con i linguaggi della contemporaneità, come fa Gianmario Villalta, per esempio, misurandosi con l'esperienza antropico-paesaggistica di Zanzotto. Sottolineo "caso mai" perché è difficile dire che cosa manchi alla poetica di Cappello, dove biografia e parola, creatività e misura sono sorelle.

Tre poesie inedite di Giorgio Bonacini

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Tre poesie inedite. La prima unisce suono e sogno nel soffio allitterativo della esse, ma dal sogno si stacca perché le parole non soffiano. Non sono, come il sogno, sospese. Le parole invece "si accalcano e urtano" e semmai "scorrono", dolenti come cose. Parole e insonnia: è il tremore dello scrivere, quando vita e scrittura si contendono lo spazio e le labbra, quando cercano la pronuncia. Però la voce è suono e, alla parola e al sonno, contende il primato. E tutte, suono parola e sonno, testardamente aprono mondi, soddisfano la vista. Che cosa la vista veda, oltre la superficie, oltre l'ovvietà del riconosciuto, è sempre qualcosa di andato, di irrimediabilmente andato. La vista del poeta vede l'archetipo. Vede il primo suono, la prima immagine, il primo soffio della nostra vita, il primo sonno e il primo sogno. Vede l'infanzia di ogni presenza, ed è questa il vero luogo della poesia, "l'infanzia che chiama e impaurisce" 

"Fa finta" dice la seconda poesia, portando nel fango quotidiano l'altezza utopica di Image, di John Lennon. "Fa finta" ci conduce nel pericolo dell'incontro con il mondo. Che non può essere altro, se non inverno e miseria nera. Le parole scorrono dolenti, dice la prima poesia; ma anche l'immaginazione – risponde la seconda poesia – il finto sogno ad occhi aperti mostra un film senza gioia. Fa finta che il divenire basso del mondo sia danza. Fa finta che Nietzsche e Shiva abbiano ragione. Gli opposti si toccano: "stringiamoci / al melo, vaghiamo". Non è l'albero mutilato di Ungaretti. E questo fa differenza. Cambia il punto di vista sulla storia. 

"Ma non basta essere qui". Qui stretti nella burrasca, tra suono, senso e visione. Qui nel sonno e nel sogno. qui nel presente. Non basta eppure, sembra suggerirci Bonacini, non c'è altra via: tutto è palude, che "convoglia le sue corse / in tempi morti". E' la fine di ogni grande progetto: la stella diventa un "treno fermo", lo sguardo si fa debolissimo. Rimane l'infanzia, è vero, ma che soltanto il sogno e la poesia ripescano. Fuori dal prodigio, direbbe montale... E dopo la divina indifferenza, direbbe Bonacini... Il male di vivere ci ha sopraffatti. "Anche la luce è inammissibile" e dunque la possibilità stessa del vedere salvifico, qui, in terra, fra i mortali che non si voltano. Eppure Giorgio Bonacini, alla fine di questo trittico, un guizzo nella speranza lo compie. E' come se facesse un passo indietro. O che accettasse la propria esistenza e il principio che la tiene. "L'importante è imparare a sperare" scrive Ernst Bloch. Ed è così, infatti, che tutto, come per miracolo, si ricompone. Entro una cornice malmessa, precaria; entro l'asprezza del naufragio. Di più non c'è alla fine del vecchio mondo. In principio del nuovo, nel quale naufragio non è disperazione, ma l'andatura del viandante che si sa mortale "attento al poco / che non fugga". Un poco da approssimare, non da possedere. Con il quale compiere la pienezza del naufragio, come un ulivo con cui cavalcare la deriva.




Sembra di scrivere il sonno
e distinguere il sonno dal sonno reale


I nomi si affollano
in suoni più simili a labbra
che a sogni –
si accalcano e urtano
e scorrono lacrime
in ciò che trattiene
o contiene  il momento
in cui forse                                                  
l’insonnia detesta 
la febbre e il timore.

Chi pensa di  vivere
e scrive                                   
divampa in un sonno
che sembra inventato –            
ma è solo per ridere
o affliggere
o dare calore a un risveglio
indicibile e matto                                     
a un potere inesausto
su un foglio abissale.

Allora tu esisti
in un luogo guardato
dal basso –
sbirciato all’interno                              
di un rito sfrenato
di un crollo che impegna                                
la vista e distrugge
il furore, e scombina
milioni di atomi
storce i pensieri e le dita.

Così la tua voce
che dorme in un soffio
è più attenta
e appuntita –
e può dire di un tuono
che impegna l’udito
soccorre la vista
e ricorda la neve
l’infanzia che prova
che chiama e impaurisce.




Il sogno dell’inverno è una finzione
rende l’acqua gelida e precisa


Fa finta una sera di spingerti
dentro, di immergerti
a fondo e sognare
nel sogno di un’altra
tempesta –
un’ immagine vera, ghiacciata
un odore di fango
e miseria incredibile, nera.

E riemergere poi lievemente
al disfarsi del mondo
una sera qualunque –                                                        
un inverno in cui forse
volevi giocarci, passarci
la vita, provarci
e con l’acqua di quella
tempesta ballare e bagnarti.

Fa finta che tutto
sia fermo, inudibile, stanco
che il gelo non luccichi                     
e il sogno non parli –
che nevichi forte                               
e l’inverno sia un falco
un colore monotono, un albero
un morso, un pantano.

E in quel turbine tutto
sia danza feroce
acqua incoerente, malata
segnata da te in un torrente
che appare e scompare –
e tu, in forma chiusa
di muscoli a stento, fatica
di fulmine e torto, e vulcano.

Fa finta che qui nel degrado                                              
la schiuma sia lenta
sospesa, disposta                                  
a concedersi a tutto
per niente lontano –
capisci perché devo dirti
ti amo, stringiamoci
al melo, vaghiamo.




Ma non basta essere qui
dov’è possibile ascoltare il suo brusio
                                  

A volte il punto cardine
fissato da una stella
è un treno fermo –
la teoria che vedo solo in ciò     
che scioglie e libera
e convoglia le sue corse
in tempi morti
esitazioni che trasformano
lo sguardo in un fulmineo
e debolissimo scrutare.

Il segno di un naufragio
si dirà, dove la sabbia
ci aderisce
inavvertita e ci confonde –
e nel brusio che assume
il tono di un silenzio
anche la luce è inammissibile
e inadatta, incattivita
in un oltraggio e resa inutile
tristissima, incruenta   

Ma qualcuno arriverà
a considerare le distanze –
a ricreare un mormorio tanto
più libero e assoluto
da lasciarsi 
dondolare, rafforzare
affievolire nel crescendo
del naufragio e aprire varchi
fenditure, prolungando la sua corsa
come un fulmine sa fare.                                               

E a volte non mi sembra
di resistere per sempre
parola senza lingua, ritmo
afasico, balbuzie
in cantilena senza fine –
a volte, nella notte
sconosciuta, attento al poco
che non fugga, mi concentro
studio il buio, guardo i gesti
di riflesso e vedo un buco.

 (Aprile 2013)

Giorgio Bonacini è nato a Correggio (RE) nel 1955, dove vive e lavora.
Ha conseguito la laurea in estetica al DAMS di Bologna, con una tesi su Roland Barthes.
Negli anni Settanta-Ottanta ha fatto parte, con poesie visive, sonore, e performance artistiche, del gruppo "Simposio Differante".
Redattore della rivista 'Anterem' e ha pubblicato testi poetici e critici su varie riviste, tra cui: 'Parol', 'Poesia', 'Capoverso', 'Il Segnale', 'L'immaginazione'.
Presente sulle antologie:
Ante Rem, a cura di Flavio Ermini (con una premessa di Maria Corti), Verona, Anterem Edizioni, 1998;
Verso l'inizio, a cura di Andrea Cortellessa, Flavio Ermini, Gio Ferri (con una premessa di Edoardo Sanguineti), Verona, Anterem Edizioni, 2000;
Trent'anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), a cura di Alberto Bertoni, Bologna, Book, 2005.
Libri di poesia pubblicati:
Non distruggete l'immondizia, Correggio, Edizioni Gabiot, 1976;
Teneri acerbi, con una nota critica di Giuliano Gramigna, Verona, Anterem Edizioni, 1988 (Premio Lorenzo Montano, 2a edizione);
L'edificio deserto, con una nota critica di Niva Lorenzini, Bologna, Edizioni di Parol, 1990;
Sotto la luna (con Giovanni Infelìse), Bologna, Book Editore, 1991;
Il limite, con una nota critica di Lucio Vetri, Bologna, Book Editore, 1993;
Falle farfalle (con disegni di Alberta Pellacani), Verona, Anterem Edizioni, 1998;
Quattro metafore ingenue, Lecce, Manni Editore, 2005;
Sequenze di vento, Le Voci della luna, 2011

Sinicco vs Ostuni: oralità o scrittura?

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Qualche giorno fa, su facebook, c'è stata un'interessante discussione sulla poesia performativa e sulla marginalizzazione della poesia italiana. L'occasione è stato l'incontro che si sta svolgendo a Rieti, tra oggi e domenica, dal titolo "Poesia 13", a cura dell'associazione ESCargot.
qui il link dell'evento.

A partire da "Poesia 13", sul sito di Vincenzo Ostuni, curatore dell'Antologia Poeti degli Anni Zero e uno dei teorici di "generazione Trenta - Quaranta" (qui il link del suo manifesto), si è sviluppato un serratissimo confronto tra quest'ultimo e Christian Sinicco, cofondatore degli "Ammutinati" di Trieste e poeta performativo.

Siccome non tutti gli ospiti di Blanc accedono a fb, mi sembra utile riportare il contenzioso.

Quando la polemica prenda l'avvio non mi è chiaro; tuttavia, nella pagina fb di Ostuni, in data 8 maggio si estrapola quanto segue:
SINICCO Credo che [Luigi Nacci] intendesse, Vincenzo [Ostuni] che c'è un gruppetto autoreferenziale di critici e poeti che girano attorno a tq. [riferimento al manifesto "generazione Trenta - Quaranta]
OSTUNI Caro Christian, ho capito che intendeva questo, ma è un giudizio patentemente falso, e se esteso al mio lavoro sull'antologia è anche offensivo. Gli ho chiesto di articolarne i motivi e si è rifiutato dicendo a un di presso che avrei dovuto capirlo da solo. La poesia non è questione di grandi coalizioni: la poesia, esteticamente parlando, o è contesa, guerra, o non ha interesse, per me. 
SINICCO Vincenzo, ho capito, ma la guerra è un'altra cosa no? Quello che penso io è che ci sono modi di affrontare dal punto di vista selettivo e motivare le inclusioni o esclusioni sulla questione dell'oralità o della performance migliori della tua, che è del tutto arbitraria 
OSTUNI Migliori sì, arbitraria no. Scelta di metodo, direi; ci sono autori che letti su pagina perdono interesse, non acquistano complessità ecc. È un assunto non indimostrabile, quello della maggiore complessità e se vuoi della superiorità della fruizione su carta o schermo ed è anche una forma di protesta rispetto alla marginalizzazione dell'editoria cartacea. Ho sentito troppi performer mediocri di testi mediocrissimi perché non sia un punto sensibile.


Visto che la discussione si era spenta, ho pensato di ravvivarla sulla mia pagina fb, rilanciando il post di Ostuni. La riporto qui sotto. 


SINICCO Non ho messo in discussione le tue scelte, Ostuni; nel tuo lavoro antologico ho visto del buono, e in un altro post ho detto che l'antologia era utile per seguire il percorso di alcuni poeti; ho solo esplicitato che la parte riguardante la performance in introduzione non è utile a motivare il percorso degli autori (anzi, crea una frattura inevitabile tra questi autori e il loro modo di porsi sul lato comunicativo e altri autori) che citi, che hanno una formatività avulsa da quel contesto, dato che la parola performace non ha lo stesso valore della parola recita. Indistintamente, tu prendi tutta la mia produzione, e dici che è retrograda, roba da internettari e da premietti. Al contrario, io seziono la tua introduzione, scindo questa produzione critica dal tuo essere poeta, suggerisco delle riflessioni. [...] Non mi sfugge la problematicità di una generazione di trenta quarantenni che ha paura di non so cosa e si rintana in circoli e seminari, incapace di rispondere alla marginalizzazione della cultura poetica, e fa di tutto per imporsi col marketing, sia come poeti che come critici; ed è una cosa che non riguarda solo le pratiche che abbiamo potuto ammirare recentemente, ma è testimoniata da 14 anni di antologie, e anche di eventi, che vorrebbero imporre una visione a 360° - e senza un metodo di indagine sul territorio, che oggi sarebbe possibile. Possiamo chiamare in causa il gruppo 63, ma la marginalizzazione rimarrà finché non si inaugura un metodo diverso.[...] Di recente ho riletto l'intro di Brevini alla Poesia in dialetto del novecento, ed è chiaro che qualcuno manca (forse per questioni anagrafiche e di spazio), ma l'introduzione è un esercizio di stile e di indagine tra le categorie... Ponderata l'estetica di riferimento e l'epistemologia, lavorare su una grande mole di materiali da tutto il territorio amplia le possibilità di rilevare fatti di critica, anche profondamente diversi; e hai anche la possibilità di una comparazione della critica tra passato e presente. Purtroppo osserviamo che la critica utilizza altra critica, per questioni normative, e in generale manca l'epistemologia... magari fosse soggettiva Davide. I filosofi per fortuna evolvono le teorie estetiche... anche se a me piace roba vecchia, ma ancora buona, tipo Pareyson.[Sull'antologia di Brevini, si  veda l'ultimo commento di IVAN CRICO]
OSTUNI alla questione della performance ho dedicato semplici riflessioni, dicendo, in buona sostanza: intendo contrastare l'eccesso di influenza che la performance della poesia ha avuto in questi ultimi anni (per altro, questo è un altro dei sintomi della progressiva marginalizzazione della poesia! parallelo, e conseguente, alla crisi dell'editoria di poesia), mettendo sugli altari testi, e autori, che sulla pagina non reggono, a mio parere. Quindi, ho proseguito, qualcuno sarà sorpreso di non trovare in quest'antologia autori che hanno avuto successo come performer. Viceversa, in alcuni di casi, ho continuato a scrivere, ad esempio Ventroni, inserirò autori che sono stati, da altri critici, sottovalutati in quanto, si presumeva, troppo legati all'aspetto performativo. Cosa diamine hai da dire? Ho dato un assioma e ho proceduto secondo questo. Vuoi criticare l'assioma? Ne hai diritto! Fallo in maniera intellegibile! Continui a creare un accumulo di pseudoargomentazioni basate sull'ansia di prestazione, o non so che cosa. Ti suggerisco io? Potrei suggerirti, ad esempio, che l'idea di considerare la poesia come distinta dalla sua performance è errata perché apodittica [...]. Io risponderei: non sto suggerendo di dare prevalenza assoluta alla lettura della pagina scritta, ma credo proprio che all'analisi dello scritto la ricezione sia generale sia critica della poesia di questi anni non sia in molti casi neppure arrivata ecc.
SINICCO Ostuni, non riesco a capire perché "contrastare l'eccesso di influenza". I poeti performativi sono così pochi e non so dove vedi l'eccesso di influenza. Capisco l'utilizzo del termine contrastare, che è legittimo, ma dove vedi l'influenza della poesia performativa in Italia? Poi l'assunto che l'emergere della poesia che sperimenta anche grazie alle tecniche performative sia sintomatico della marginalizzazione è inspiegabile. Piuttosto il contrario: se un'opera è re-impiegabile in una performance, ha qualità molteplici. Sul testo sfondi una porta aperta, però non è detto sia l'unico supporto, anche se gli esempi di opere di poesia su altri supporti sono poche in Italia, e molte di queste hanno anche la parte testuale, che solo in alcuni casi non coincide proprio con la resa performativa, mi riferisco a Frangione, ma anche al poema disumano di Nacci, che è un'istallazione.
OSTUNI Sinicco, io vedo proprio questo, un eccesso d'influenza. Credo che il punto sia difficilmente contestabile: la poesia viene sempre più fruita, anche, in certi casi, dai critici, in forma di lettura pubblica. Per quanto riguarda il testo: intanto non parlo solo di testo, ma di pagina: la gran parte degli esperimenti istallativi sono comunque fruibili su pagina. Tanto è vero che sono il primo a parlare di "poesia fuori di sé", di importanza di altre forme d'arte nell'attività di ciascuno degli scrittori. E' un aspetto di cui non potevo rendere conto appieno in quell'antologia, ma che ho considerato probante. ALtro è invece imputare all'eccesso di ascolto, a scapito della lettura, una fruizione valutativamente errata, o distorta, dei testi. [...] Io penso che il fatto che la poesia sia meno pubblicata da editori nazionali (fatto innegabile) e sia dunque meno letta (fatto innegabile) faccia sì che sia sempre più fruita dalla voce del poeta. Il che modifica la fruizione, e può modificare, non sempre per il meglio, i giudizi di valore. Il fatto che alcuni ottimi poeti (Lo Russo, nonostante proprie in queste ore mi stia prendendo a parolacce per difendere il suo Nacci; o ancor più Frasca, che per me è con Magrelli il miglior poeta italiano vivente) siano anche ottimi performer è proprio quello che io affermo, inserendo un'ottima performer come Ventroni (ma anche altri degli antologizzati non scherzano) come ottimi poeti. Ma dico che non basta essere ottimi performer per essere ottimi poeti, il che è ben diverso; e dico che nella ricezione generale la poesia di alcuni autori è stata sopravvalutata, nel suo aspetto testuale, a causa della loro bontà di performer. A me sembra un punto semplice e cristallino. Sul quale si può dissentire, certo, ma in maniera più articolata, per favore. [...] La cosa che sappiamo per certo è che Feltrinelli ha smesso di fare poesia; Garzanti e Guanda l'hanno ridotta drasticamente; Mondadori pubblica quasi solo poeti over 70 (tranne l'esperimento degli "specchietti"); Einaudi anche pubblica meno italiani. Che altri dati ti servono? Non la chiami una marginalizzazione, questa? Il consumo di poesia in rete è importante, ma non è probabilmente diffuso come altri. Per quanto riguarda milanesi, romani ecc.: non ho fatto una statistica, può darsi abbia ragione tu, ma questo sarebbe un altro problema ancora, che non c'entra nulla con quello di cui stiamo discutendo.[...] La fruizione di poesia si rifugia in spazi fuori dal mercato: ad esempio, questo, quello della performance. La performance ha aspetti positivi (e l'ho detto tre volte) ma non si può non considerare anche come un effetto della crisi dell'editoria di poesia, della riduzione di spazi più tradizionali della fruizione della poesia.
SINICCO La performance la faceva anche Ungaretti. Per non parlare di Sanguineti? Lì ancora la poesia veniva pubblicata o no?
OSTUNI la performance certo che la faceva anche Ungaretti (Sanguineti meno, che era impedito a leggere). Ma all'epoca la loro fortuna si basava sul testo scritto: la performance era una fruizione secondaria. Oggi è il viceversa: i poeti vengono fruiti per lo più oralmente. Io sono stato ascoltato da centinaia di persone, credo anche tu, se non migliaia: quanti hanno comprato i miei libri? Molti di meno. Questo comporta una modifica nelle modalità di fruizione e di valutazione. Ho cercato di sostenere questo, non sono andato a fondo, ma non era neppure la sede per farlo. Ho solo dato un'indicazione generale, che a me sembra piuttosto saldamente argomentabile. O quantomeno, tutti gli argomenti che tu le hai opposto cadono al primo soffio di logica.[...] Ho detto anche qualcosa di più: che alcuni aspetti del testo, e alcuni dei fondamentali, incontrano un'adeguata possibilità di analisi solo se fruiti con calma, nella lettura su schermo o pagina. Anche questo mi sembra inevitabile. Aspetti semantici, formali, persino visuoverbali, che stanno diventando sempre più importanti nella poesia contemporanea... Niente contro la fruizione in performance, ma bisogna accostarla ad altre forme di fruizione. Per me, alcuni poeti, se letti su carta, perdono moltissimo.
SINICCO La performance della poesia di Mariangela Gualtieri è il sintomo della marginalizzazione della poesia? La performance della poesia di Rosaria Lo Russo è il sintomo della marginalizzazione della poesia? La performance della poesia di Gabriele Frasca è il sintomo della marginalizzazione della poesia? Finché era vivo, la performance della poesia di Sanguineti era il sintomo della marginalizzazione della poesia? E così via via per autori come Lello Voce, dome Bulfaro... Oppure la performance è studio formativo, tentativo, della/nella propria poesia, indipendentemente dal supporto, che attraversa le condizioni storiche, sociali?
OSTUNI non la performance in sé, ma il fatto che alcuni poeti siano fruiti quasi solo in performance, è - questo ho detto - sintomo della marginalizzazione della poesia. A me pare non faccia una piega... Continui a insistere con Gualtieri, Lo Russo, Frasca, Voce, Bulfaro... come se io stessi dicendo che chi è un bravo performer non può essere un bravo poeta. NON STO DICENDO QUESTO. E' chiaro? Ho detto una cosa diversa: che non bisogna lasciarsi ingannare da un bravo performer deducendo ipso facto che è un bravo poeta. Che bisogna tornare alla lettura dei testi. Che esiste un dovere critico di giudicare la poesia su più livelli, di cui quello performativo può non essere il principale, ma solo una fra i vari. Chiaro? Certo che esiste un problema metodologico e storico della poesia performativa e dell'oralità, della poesia sonora ecc.; ma esiste anche un problema delle qualità strutturali di un testo che possono e debbono valutarsi sulla pagina (o sullo schermo). Io solo questo ho scritto; e questo, secondo me, si regge abbastanza.[...] Sinora, il rinato aspetto performativo della poesia, fra tutti gli effetti che può aver avuto, non ha avuto quello di un rilancio della poesia pubblicata dagli editori nazionali, con l'eccezione probabilmente della Gualtieri. Perché? Un'ipotesi è che il fenomeno promuova un'idea di poesia come forma d'arte che va appunto fruita in modo separato dalla carta, e dunque non promuova una domanda di lettura di poesia su carta (o schermo). 3. La mia analisi si indirizza a testi che non appartengono, per così dire intrinsecamente, a tradizioni, vecchie o nuove, che escludono una fruizione separata come possibile e raccomandabile. Le poesie di Voce, Frasca, Gualtieri ecc. non sono poesie sonore, sono molto legate alla dimensione semantica, e anche la loro dimensione sonora (in Gualtieri per altro piuttosto scarsa; più accentuata ad es. in Bulfaro ecc.) può per altro essere "eseguita", almeno in parte, dal lettore solitario, mi sembra. E' chiaro che se provassimo ad esercitare strumenti testuali "puri" a poesie che non solo siano nate per la performance ma escludano una fruizione su pagina, commetteremmo un'ingenuità. Non direi che fra i poeti che ho preso in esame ci siano casi del genere.[...]
potrebbe darsi che la lettura su schermo riceva impulso nuovo dagli ascolti; ma finora non sono certo che stia accadendo in maniera ingente, e soprattutto sta accadendo a scapito della possibilità di fruire concretamente ed efficacemente di progetti complessi, ampi, strutturati: anche la poesia su web, come quella ascoltata dal vivo, privilegia di forza sondaggi, carotaggi per pochi testi, alle complessità di un libro.
IVAN CRICO Sulla defenestrazione della poesia impegnata dalle collane delle grandi case editrici. La cosa mi è stata spiegata così, nel 2009, da un pezzo grosso (e uomo di grande cultura) che lavorava per la Garzanti. Secondo lui, e gli credo perché fin poco prima di andare in pensione, era lui con l'editore a decidere alla fine se mandare in stampa un autore o no, tutto sarebbe imputabile all'influenza nefasta dell'approccio manageriale nella selezione e promozione dei testi proposto negli ultimi anni dalla Mondadori. Una casa editrice che vende e che viene vista, anche dai nemici, alla fine come un modello imprenditoriale che funziona. Per questo motivo, mi diceva, oggi a determinare le scelte editoriali sono dei manager (al posto di grandi critici) a cui, spesso, del valore letterario di un testo poco o nulla importa. Se poi alcune case editrici grosse continuano a tenere qualche collana di poesia è perché non si può non avere un po' di poesia in catalogo; ma, in realtà, a nessuno gliene importa niente, perché si tratta di un prodotto che non vende, con cui, se va bene, si va in pareggio. Questo cosa comporta, mi ripeteva? Che di solito la persona a cui si affida quel settore propone i suoi amici e, in mezzo, ogni tanto gli amici dell'editore o di chi lavora nella casa editrice, facendo finire all'interno di collane un tempo serissime autori che, a volte, nemmeno i critici più attenti avevano mai sentito nominare. Cose non impossibili ma piuttosto rare, un tempo. Parole di uno che lavorava nel commerciale ma formatosi collaborando con i grandi della letteratura italiana del Novecento. Parole brutali ma in cui, credo, c'è del vero, molto, purtroppo.
SINICCO Ostuni, anch'io come Ivan Crico, penso che il problema nelle grandi case editrici sia di critica e management. Il dato dimostra inequivocabilmente che i numeri delle pubblicazioni di poesia/teatro (anche se la categoria in questione poesia e teatro non ci spiega esattamente la portata delle sole pubblicazioni di poesia contemporanea; i classici sono infatti in un'altra categoria) sono passate da 1400 circa a 2400 circa in 5 anni. I poeti che di solito usano performare (che è diverso da leggere, e forse anche la parola spettacolarizzazione non è esattamente sovrapponibile alla parola performance) in Italia sono pochi, se consideriamo la mole di pubblicazioni. I festival che ospitavano performance di poesia: "Absolute Poetry" è fallito qualche anno fa (tre/quattro anni fa) e "Poesia Presente" quest'anno, con pochissimi fondi ha prodotto pochi interessantissimi lavori, proprio grazie a  Dome Bulfaro. Questi festival non ospitavano solo performance, ma anche letture, dibattiti, presentazioni di libri, cioè un universo di eventi funzionale all'ambiente della poesia, con scelte trasversali, cercando di favorire il confronto anche tra espressioni diverse. Le letture in Italia, immagino siano in crescita o lo siano state, per via del fatto che c'è stata anche una sovrapproduzione rispetto il periodo precedente, e il dato potrebbe essere chiarito anche dalla comparsa dell'editoria on demand, che ha abbassato i costi. Il fatto è che le letture, che sono cose normali (il poeta da molti secoli usa la voce), possono non avere a che fare con le performance, anzi di solito non hanno a che vedere. Di conseguenza gli eccessi di performance che vedi tu, sono una cosa campata in aria, come la questione di una performance di poesia, sintomatica della marginalizzazione della poesia stessa. La parola lettura, nella tua spiegazione, non ho capito se unifichi l'universo delle espressioni vocali, ma ammettiamo che sia così... Con tanta sovrabbondanza di pubblicazioni (e non sto nemmeno pensando a ciò che accade in internet, e la sovrabbondanza di poeti che si affidano solo al web), ci sarebbe anche una sovrabbondanza di letture. Di conseguenza ho cercato in modo chiaro di spiegarti che le espressioni che usi sono frutto delle tue convinzioni particolari, ma non hanno a che vedere con il mondo dei dati, anche a una loro primissima "lettura". Quello che voglio dirti è che sì ti puoi affidare a una credenza, a una convinzione, per una questione critica, ma se il dato è facilmente falsificabile come ho cercato ripetutamente di spiegarti, avresti potuto almeno verificarlo.[...] Trovo difficoltoso, oggi, il tuo tentativo di dar vita a un progetto che gira attorno ad alcuni poeti, cercando di neutralizzare con asserzioni non approfondite, ciò che sta fuori la tua critica, e in questo caso proprio perché le qualità dei testi dei poeti che hanno sensibilità performative sono alte. 
OSTUNI Per quanto riguarda gli esclusi, ne ho menzionato pur uno, che è Ghezzi. Non vedo perché bisogni menzionare gli esclusi: lo scopo di un'antologia non è escludere, è scegliere e parlare degli inclusi. Io non sono sicuro che ci sia tanta altra poesia meravigliosa, in Italia. Continuo a pensare che i migliori siano inclusi o almeno citati. In questi due anni non ho ancora scoperto null'altro, oltre a quel manipolo di bravissimi poeti, che meritasse d'essere incluso.
CRICO Ho letto in questi giorni un infuocato dibattito, ospitato qui su FB da un bravissimo critico come Stefano Guglielmin, tra due giovani poeti e critici. Discutere va benissimo, figuriamoci, specialmente se si tratta di persone preparate come queste e che amano con tanta passione la poesia, ma tutta questa smania di catalogare, antologizzare nuovi autori, quando gli autori spesso sono ancora giovanissimi ed hanno pubblicato poco o in contesti poco strutturati (diciamo così..), arrabbiarsi perché non c'è Tizio o Caio o perché si parla troppo di Tizio o Caio, non riesco - perdonatemi - proprio a capirla. Io ho avuto l'onore di pubblicare, poco più che ventenne, su riviste storiche, riviste con comitati di redazione che oggi sono un puro miraggio, dopo una lunga e attenta discussione (e a volte revisione) dei miei testi. Un percorso legato anche ad incontri fortunati, non lo nego, ed anche ad una certa benevolenza (troppa, a volte) nei confronti di testi che io oggi giudico con severità, che non ripubblicherei. Ma, si sa, ai giovani si perdona ciò che ai più vecchi nessuno perdonerebbe mai. Bene, tra i venti ed i trent'anni, gli anni in cui mi sono dedicato con maggior impegno alla scrittura poetica, ho conosciuto e frequentato (anche stringendo dei rapporti di fraterna amicizia) alcuni fra i più importanti critici e letterati italiani. Tra cui Franco Brevini, citato da uno dei due interlocutori, ad esempio. Con cui abbiamo discusso, chiacchierato, passato assieme molte ore in questi decenni. Nonostante questo, del mio lavoro, nelle principali antologie di Brevini, fino a quella monumentale, per la Mondadori, del 1999, non c'è alcuna traccia. All'epoca avevo già pubblicato numerosi testi, su riviste e in volume, testi recensiti tra l'altro dalle più importanti riviste di poesia italiane, a partire da "Poesia". Non le mie cose migliori, i testi più maturi, però. Ovviamente, conoscendolo e non trovando citato niente di mio, come tutti credo, ci sono rimasto un po' male, sul principio. Ma poi, da subito, ho apprezzato molto l'onestà intellettuale di questo grande critico che, pur facendo i suoi sbagli come tutti, ha sempre aspettato di trovarsi di fronte a prove davvero convincenti, capaci di sfidare le mode, l'erosione spietata del tempo. La nostra reciproca stima e conoscenza personale, che dura ancor oggi, non lo influenzò minimamente, e questo me lo rende ancor più degno di ammirazione e caro. Ripeto: in quei lavori vi sono autori non eccelsi a cui fu forse dato un eccessivo risalto, che evidentemente egli sentiva più vicini, dal punto di vista anagrafico ed emotivo, non avendo forse del tutto compreso quel che di nuovo e sincero (senza voler esagerare) si celava, ancorché ancora in fase germinale, nel lavoro mio e di altri miei conterranei, come Villalta o Cappello, ad esempio. Altre persone che conosceva bene, tra l'altro. Sì, a tutti farebbe piacere essere riconosciuti subito, essere amati e citati a spron battuto. Ma nella poesia il valore di un autore lo si capisce con il passare degli anni, non c'è niente da fare. Potrei citare decine di nomi che negli anni Ottanta erano additati come dei geni e di cui, oggi, nessuno si ricorda più. Perché non scrivono più, non compaiono più sulla scena, il loro versificare era troppo legato ai gusti del tempo e, con quel tempo, è andato a fondo. Quando mi incontro con Cappello, ogni volta ci ripetiamo che Kavafis ha pubblicato, sconosciuto ai più, poco più di un centinaio di poesie in tutta la sua vita. Queste cose ce le dicevamo quando ancora Pierluigi non lo conosceva quasi nessuno. Io ho seguito nel frattempo anche altre strade ma siamo rimasti fedeli a questo principio, alla fine: pubblicare soltanto quando siamo convinti di ciò che abbiamo fatto, lasciando passare anni tra un libro e l'altro, se serve. Più di lui, la cui vita da sempre è appesa ad un filo, nessuno forse conosce bene la vanità dei riconoscimenti, dell'essere presenti ad ogni costo, e, insieme, il sentirsi a posto per aver cercato, in un verso, di dare il meglio di quanto noi, con i nostri limiti, nella nostra vita, possiamo offrire a noi stessi e agli altri.




Alessandra Carnaroli: microantologia

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Prefazione di Marco Scarpa


Alessandra Carnaroli ho cominciato a conoscerla con la raccolta intitolata “Scartata”, finalista al premio Delfini nel 2005 per poi riscoprirla con il suo “Femminimondo”, edito nel 2011 dalle Edizioni Polimata di Roma. Quest’ultimo libro mi ha fulminato e credo sia un libro destinato a rimanere pietra salda nel micromondo poetico e merita una contestualizzazione appropriata.
Come di consueto vorrei prima scavare tra alcuni scritti precedenti per cominciare a dare una mappatura degli orizzonti letterari di questa autrice.
Tra le pieghe della raccolta “Scartata” si insinua un germe, un nervo scoperto, “un avanzo tra i denti” come lo ribattezza Alessandra Carnaroli, che tenta di identificare e chiarire un universo di meccanismi inceppati, situazioni compromesse, pensieri e azioni che si consumano, arresi e legati. Qualcosa non procede per il verso giusto e sono forse alcune regole imposte, alcune abitudini generalizzate, l’uniformità dell’agire comune a stimolare la ricerca poetica da cui traspare sia una forma d’analisi ma soprattutto un’indignazione randagia, uno sdegno che non tace. Tornare è parola chiave all’interno dei versi. Un ritorno dalla forma non del tutto definita ma orientato ad un passato, a valori antichi, ad una semplicità maggiore e ne fuoriesce un’indagine desolata ed impietosa verso i tempi moderni. “Ripartiamo terra”, scrive l’autrice, e sembra un invito a caricarsi in spalla quei denti sempre attivi, quei morsi obbligati. Ripartiamo e non strisciamo “fino al bar centrale” dove non rimane che “imbottirsi d’erba e sigarette”. Le citazioni riguardo a beni di consumo (le scarpe adidas, la camicia sangallo, le nike, i jeans, whinny the pooh) sono molte e l’intento pare essere di denigrare questi nuovi oggetti essenziali, esplicitando come siano epicentro attorno al quale ci muoviamo per non allontanarci troppo.
Rimane dunque una matassa di versi  rivoltosi, una tensione ed una indignazione che mostra un’autrice con l’occhio attento verso il sociale e verso quanto accade intorno per cercare una nuova coscienza, forse un rispetto maggiore per sé stessi.
E dunque il passo non è poi così distante verso “Femminimondo”, l’ultimo libro che però si focalizza sul macrotema della violenza che molte donne continuano a subire nei modi più svariati.
“Cronache di strade, scalini e verande”, così identifica questi versi Alessandra Carnaroli e tra le pagine del libro emerge una struttura chiara. Nelle pagine di sinistra poche note attorno ai fatti (realmente accaduti), nelle pagine di destra la poesia fa i conti con le colpe mentre nel mezzo e quindi ovunque si situano le donne.
Scrive l’autrice “raccoglievo articoli di giornale, ritagliavo fotografie di scarpe aperte e piedi duri, inviavo mail, ascoltavo voci di donne che stingono i denti e di donne che li perdono sul pavimento. Ho scoperto che le botte si danno sempre al presente. Che non ti pisciano addosso col congiuntivo. Che quando hai un coltello puntato alla gola la grammatica si spacca, come unghia e pelle. (..) Una cosa è certa. Le mie donne non ce l’hanno fatta.”
Partire da fatti realmente caduti e non essere solo cronaca, sfuggire la banalità, la retorica, in questo è riuscita Alessandra Carnaroli e nei suoi versi non (ci) ha risparmiato nulla. Come d’altronde giustamente deve essere perché le parole possano essere segnali più forti dei colpi inferti e spesso dimenticati. Da questa lettura non si scappa, è dolorosa, nuda e cruda, la violenza riemerge come se non se ne fosse mai andata ed è ripugnante quanto scritto ma incute pure rabbia, consapevolezza, voglia di resistere. Questi versi non si innalzano, rimangono bassi, ruotano attorno al presente e non mostrano un orizzonte nuovo, un domani felice. Questi versi non celano il lato buono, la libertà acquisita né fanno intravvedere certezze e rinascite e così facendo ci lasciano immersi dentro questa realtà, entro questi limiti umani, entro questa inciviltà.
Nei testi trovano spazio le vicende più varie, dal padre che stupra la figlia, al romeno che uccide la moglie a coltellate, fino alla minorenne violentata dal branco. C’è l’intero panorama delle violenze qui esposto in cattiva mostra. Accanto a queste violenze, le motivazioni ad esse legate sono spesse tralasciate o rese ancora più improbabili eppure vere proprio perché la ragione sfugge dietro a questi sfoghi, a questi istinti irrefrenabili. Spesso la brutalità pare figlia di una eredità sociale da cui fatichiamo a distaccarcene del tutto, pare quasi “naturale” la predisposizione ad agire con azioni assurde.
Cosa può dire dunque la poesia oltre alla cronaca giornalistica?
La poesia non mostra ma evoca, non spiega ma ripone lo sguardo altrove e d’altronde le spiegazioni servono a poco in questi casi, rimangono i fatti e forse la poesia riesca a scavare oltre la prosa dove qualcosa si perde se siamo di fronti ad una violenza che stentiamo a credere/capire possa accadere a due passi da noi. Lì dove la prosa si sgretola, la poesia tenta di restituire queste immagini crude insinuandosi tra le visioni ed i pensieri che increspano la mente umana in quei frangenti.
Il linguaggio rimane rasoterra, semplice, essenziale, spesso farcito di errori grammaticali quasi a sentenziare che le colpe provengano dall’ignoranza, da una mancanza di cultura, da riferimenti deboli a cui sorreggersi nei momenti delicati. E visto che spesso ci sono bambini di mezzo, la scrittura cerca anche di mimare la voce con parole proprie di un’età infantile, errori comuni come “rompersi i diti” e così facendo ci pare ancora più vicina la vicenda esposta.
Altro dato è la visionarietà quando l’autrice tenta di immaginare cosa possono mai pensare questi uomini quando commettono tali scempi. Immagina così l’uomo che da fuoco alla moglie intento a pensare che ora si scioglie “come la neve sul terrazzo” o l’uomo con la spranga che si interroga:  “lei di cosa si è accorta / non si è accorta di niente / del buco nella testa forse”. Sono pensieri malati, frasi di pazzi, uomini che conservavano il raptus nella testa pronto a colpire e di questo spostamento mentale fatichiamo a rendercene conto. Gli uomini sembrano e sono mostri, appaiono distanti dalla realtà mentre le donne raccontate sono legate alla vita, alla realtà, con i piedi per terra, ancorate al quotidiano eppure il finale è l’inverso, con le donne catapultate nella morte e gli uomini che cercano le scuse e le colpe altrui per le proprie nefandezze.
Anche questo è un altro aspetto su cui Alessandra Carnaroli punge il lettore/spettatore. Parere comune è spesso che le colpe siano anche delle donne, donne che stimolano gli uomini, che si vestono in maniera seducente apposta, donne che invogliano all’istinto animale l’uomo che non sa trattenere le sue voglie. Si leggono tra le righe alcuni pensieri degli uomini: “le donne c’hanno un po’ di responsabilità anche loro”, “delle volte le vanno in cerca”, “allora i mariti si devono difendere / bisogna che fanno capire chi comanda / bisogna che ci sono delle regole”, “no che chiedono subito divorzio”.
E peggio ancora l’uomo italiano, vicino di casa di un marocchino che picchia la moglie, che tra sé e sé mugugna: “loro fanno presto a farsi ubbidire mica come noi / che alle donne le dobbiamo riverire / come alle regine”.
Questo è il pensare comune da cui l’autrice cerca il distacco, cerca lo scontro, tenta l’accusa perché è impensabile che dopo violenze del genere, ci sia ancora qualcuno disposto a credere che “ le donne qualche volta fanno così / la fanno più grossa di quello che è”.


Da scartata (finalista Premio Delfini 2005)


gazza ladra (tesoro mio)


che riprende il lenzuolo nello specchio
-dentro mi guardavi, io cavata
da un buco di letto-
che trascina dal manico borsette
d’amore acido,
crema al cucchiaio:

al cucchiaio le
mie punte storte-
  senza più denti, ora
rimane il davanzale per beccare.

i capezzoli cadono dalle orbite
e perdono un filo di latte:
    coda
intera e luccicante:

fanno il nido sulle gambe
di rami
 depilati, e capelli
saltati nella doccia.

umido frigge
di colate glitter
il cambio degli uccelli, nel cilindro
del cappello:

adesso, a giro, vola un canarino.










 


in buca:



*

butto via il maalox
il liserdol
il famodil
il serenase

e tengo la tua extrasistole
che mi ferma le mani
svuota le orecchie
le mie borse
le strade

e tutte lechiese,
diventa il buco
nel muro di dio,

si riempie d’occhi:




*



40°

secchi
 svisti
  spogliati
   a uno stendino
carico di mezze maniche nike

e tu m’apri allo specchio
la cerniera sul petto
e guardi al contrario il mio cuore destro
ha messo su il seno in proprio adesso
gonfiando le vene in due nodi grassi:

patto caldo tra noi e il boiler,
spie rosse a osservare




(colpi) d’aria


1  
  
   dura la rosa
coi petali girati fra i capelli
 elica
da orecchio
otite in un sol colpo
d’aria
 spruzzo
per fronti
sfregate

d’odore

e schioppi
porpora
puntati sui seni


2

    è perfetta, l’aria;
sbatte le gambe
sui fili tesi
che si telegrafano
fughe di piccioni

   qui sopra materassi a fiori d’autostrada
seduta regina eminflex e ghiaia per lenzuola
due sessi in un’aiuola
  e gomme allacciate ai motori

   addosso respiro di pancia
e colla per fiati mozzi:
cinta ombelicale sul più bello strozza
l’onda di voglie spray
   & morirsi
impiccati
  alle gambe




Da Femminimondo(Polimata 2011)


sette agosto

turistafrancese

violentata

a
dopo serata
a

da

turistafrancese

hai bevuto moltissimo e quindi ti posso scopare
ti metto contro il muro tanto anche io ho bevuto
e te lo metto dentro molto forte perché tanto non senti niente
l'alcol si usa anche per il mal di denti
per disinfettare gli orecchini prima di metterli 
per accendere il fuoco alla svelta
viene il sangue vuol dire che ho rotto qualcosa
tipo la pelle la pancia
forse ho bucato un polmone
allora ti sgonfi
gli occhi ti vanno all'indentro le tette anche
e non sei più bella come prima e sporchi
quindi è meglio se ti lascio qui
e ti trovano domani mattina
quando il sangue ha finito
di farti i capelli come il legno
ti fanno una croce
che non ti stanno neanche bene
eri meglio prima







 *

 

donna 

uccisa 

in casa

sua

da



ho messo le bambine da un parte 
ho lavato i piatti così ero a posto potevo anche vedere la televisione sul divano
potevo uscire dicevo che andavo a buttare via l'immondizia fumavo
invece è arrivato da dietro e io gli occhi dietro ancora non ce li avevo
mi sono venuti dopo sul collo
mi  sono venuti rossi come quelli dei conigli
che ci devono vedere sotto terra
se ci sono le carote
se no muoiono di fame
e le mie gambe
che stanno una a est una a ovest sul pavimento
sono le radici del forno 
le foglie sono cascate un po' intorno
adesso la cappa le aspira insieme all'odore di fungo




*


mercoledì

trenta giugno

uccide

l’ex e l’altra


ne ho fatte secche due e adesso m'ammazzo
scusate se gli ho rotto la faccia
gli ho fatto i buchi
sotto le guance per farci passare l'aria
gli ho tolto gli occhi per non farle invecchiare


è entrato come un rospo dalla porta di dietro io lavavo i piatti della colazione il cane non ha detto niente gli ha mosso la coda l'ha riconosciuto io pensavo adesso questo cosa vuole
vuole fare pace vuole un altro bacio
vuole un biscotto
gli ho appena tirati fuori dal forno
gli do un biscotto e lui dopo va via subito mi lascia stare mi fa tornare
alle tazzine con lo zucchero attaccato
e invece quello si toglie un fianco e me lo punta contro
come se al posto dell'osso
c'è la punta del suo cuore marcio
che butta sangue
e mi scrive sulla fronte
brutta stronza te la faccio pagare
e sotto comincia a passarci un fiume


mia figlia non ha visto niente
lui ha fatto cucù dalla strada come se era un orologio rotto
che segnava l'ora sbagliata
e invece di uscire un uccellino
è uscita la sua mano di ferro
e il becco mi ha bucato il collo
per fortuna che mia figlia non ha sentito niente
hanno suonato appena le otto




Inediti Prec’arie(finalista premio Miosotis D’If edizioni 2011)


Al mercato di ballarò ci porto
Enzo/le scarpe da calcio/un giubbotto del 2008
Pesante col collo
Di finta volpe
Furba
La fornero piange
Sui tagli i sacrifici
Il fornello incrostato di sugo
Il bicchiere di plastica
Mastica
Mio figlio
Uno suola
Rimasta/308
Euro di affitto
Almeno un tetto
Sulla testa
Una seggiola pieghevole
Per risparmiare spazio
Astronauti in assenza
Di stipendio
Vendono
Shuttle
Bombole di ossigeno parzialmente usate
immagine cristo fotocopiata a colori
1 telecomando
collanine



2

fatwa
amina mentina
scartata fresca
mal che vada
lapidata
per gli appunti appesi
tra le braccia (da cap*****o a cap*****o)
copia/incolla
taglia (sullatesta su la testa)
cut(e)&paste
si protesta come
saracinesca come rivolta
che dà sulla piastra come
benda che casca
come peste (un dito in meno
a capo
coperto
(donna) tasca
tu uguale tu marsupiale- tu solo
utero e
dentro pietre-dentro mitra-dentro trita
denutrita in fame d'africa/infame
figa)
sotto
lastra
di polmone scrittoin
tunisino
corpo18



3

Non ci fu dolo
solo
la scomparsa
di un lamento gatto (meahu)
un pezzo di muso
un baffo /vibrissa per ritrovare
l'occhio
compasso (fa un giro su se stesso come orbita e
iperspazio/punto sigma dove accosta il banco
formaggi/ isolati allunaggi
appena pena surgelati
i nervi )
angoli (del viso) al collasso
mezza scatoletta
di umido avanzo
squarta in letale abbondanza
(di schianti)
il quarto di fabbrica
rimasto



Da Annamatta 467 membri(finalista Premio Delfini 2013)


anna mattaspaventa bambini
insegue femmine per strappargli i capelli,
uno a uno o a
ciocche come rametti
di salvia per arrosti amante
di soldati, uomini bestie/ gatti a gattoni
sul davanzale dove l’anna si presta
comecapra sacrificio
per pulire le scale mostre.
gli angoli vespe
altre paturnie

io l’ho vista trascinare col triciclo
una bambina             maira
sul selciato
la madre che gridava e la piccola
diventata scarpa
sfuggita per un soffio alla terza guerra. 

L’arma del Soldato Futuro è il fucile d’assalto ARX-160in calibro 5,56 mm munito di lanciagranate da
40 mm GLX-160



*


a otto anni mi ha costretto a cantare insieme a lei
"la gallina ha fatto l'uovo"
dopo che mi aveva bloccato con la sua bicicletta
io per evitare il peggio
che magari cosa so mi rapiva mi portava a casa sua
tra lo zucchero i ragni
le sue cosine nel fazzoletto il rossetto
allora ho cantato                                               coccodè


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fategli un videoporno
ma soft
gomma bollente
benzina e fiamme
vetro come figlio
posizionato storto
come parto
come guerra
questa donna
resa collo
resa colla
come merda evasa
nella fanga
si diserta e si deserta
cerca forma di vagina avanza
cerca la sua panza
per ricostruire il mestruo
una digestione apparente
apparato riproducente
sangue e pelle
in avanzato stato interessante
avanzato incessante
di sperma che infesta
diserbo e scordo
signor tenente



Cristina Bove

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Mi hanno detto di Ofelia (Edizioni Smasher, 2012), di Cristina Bove, ha ricevuto numerose recensioni in rete, tutte positive. Così com'è entusiasta le Postfazionedi Francesco Marotta, sempre acutissimo nel cogliere, di ciascun poeta, le inclinazioni stilistiche e la cifra che lo contraddistingue.
La mia impressione è che questo libro tenga insieme differenti temi e stili, che forse avrebbero dovuto trovare una migliore organizzazione complessiva, in capitoli in cui meglio sarebbe emersa una convergenza nei temi, pur nella diversa articolazione stilistica. Nonostante questo, la "Silloge proteiforme", come scrive Anna Maria Curci in prefazione, lascia trasparire la stessa mano. Alcuni elementi retorici e tematici tornano infatti con frequenza: l'uso di termini botanici e/o settoriali e/o rari (achillea, albedo, blastule, genomi, patagi, fusciacca, gracula, lunula, sdilinquisce, molcere), la nominazione anatomica di parti del corpo, l'attrazione per l'esotico (che talvolta si combina con il preziosismo decorativo, tutto giocato sulla fascinazione dei nomi, cfr. Sherifa), l'interesse per la sperimentazione segnica (l'uso del trattino basso, che troviamo anche negli inediti), l'attenzione all'esistenza, pensata nella sua effimera presenza, sempre sul punto di sparire, la venata malinconia per un altrove mai stato o per un tempo che non tornerà. Insomma: Cristina Bove è una donna colta e complessa, che ripensa la vita a partire da un verso denso, che attinge più da D'Annunzio e Gozzano che da Montale o dai crepuscolari alla Moretti. Anche se proprio dalla Cesena di quest'ultimo – contaminata con l'essenzialità dell'haiku – pare attinta la poesia Una ciotola, dove si dice "è Primavera / una forchetta in bilico / e / abbaiare di cani", in una sequenza organizzata per elementi emblematici di un quotidiano senza lampi. La sua poesia civile si gioca su questo piano, mettendo in luce il grigiore del vivere nella modernità, "noi che venimmo dal tempo / ch'era il mare un ritaglio di cielo / ed esultanze, ignote geometrie / carezzavano addosso. // E poi dimenticammo."

E' questa smemoratezza che va combattuta ("Adesso veglio – sola – a ricordare") perché la vita, pare dirci la Bove, lentamente si spegne, se non si cammina "a testa alta", in una solitudine feconda, fatta di interrogazioni al mondo e alla propria anima. Cristina Bove crede all'esistenza dell'anima, la nomina in questo libro, la chiama, forse, "Ofelia": morta Ofelia, il mondo scolora, si frantuma, Eppure non crede in Dio, non in modo evidente, almeno ("Dove s'affaccia Dio / lasciare un punto di / domanda"). Da laica illuminista diffida della religione; nemmeno alla poesia affida questo ruolo. E questo la salva da certa mistica dell'a-capo che attraversa la pratica contemporanea. Salvezza corroborata dal distacco ironico, che perde (e come potrebbe essere altrimenti?) quando parla d'amore o di solitudine: "Tu che ti specchi nel mio nulla" la dice lunga sulla natura tragica di questo libro, che forse pecca di qualche eccesso d'astrazione, come in questi due esempi: "Pregai col viso ch'era più un torrente / mani artigliate alla stadera delle / speranze equanimi / quel tanto da pensare che lo fossero"; e:  "E tu sarai fremente d'arabeschi / nel rovescio di_stanze della terra". Anche nell'uso di parole rare, io starei parco ("Nell'argilla gli steli d'achillea / sono ditate impresse / nell'albedo"), perché, forse senza volerlo, riportano al centro l'elitarioquale cifra del poetico, in un tempo, il nostro, dove a vacillare è proprio il contrario: l'uguaglianza e l'antiretorica.


da Mi hanno detto di Ofelia


TAU


Si può avere una croce di nuvole basse appoggiata alle scapole nude
il destino di mezze parole -  bizzarrie di gesti - nei campi di sole e di
grano - amputarsi d'orecchio il pittore - non furono pane i tuoi versi
partiture d'assensi in forma univoca le frotte di cornacchie coefore
ingrigite dei tuoi giorni di fiele.
È di rosa il tuo viso
 si arresta se il ghiaccio
mi arriva al diaframma
e non posso morire.
Son io che mi stingo
di sangue la bocca
dipinta al di qua
delle ore, piegata
tu santa dei giorni
scoccati scaduti
insegnavi la vita
a chi muore.


APPUNTiMENTI


addensate tra costole
discostate dagli archi
io violoncello tra laringe e cuore
sonorità profondo
lungo le corde d'improvvisi
in gola

sono non sono solamente soglia
solve et coagula
argento mi distingue all'apparenza

se viaggiare sull'onda
è stringere lame_nti tra le mani
sapete bene come
può tagliare la carta

e allora questo che vi sembra un letto
già libro - o giaciglio disfatto -
infine è uno sbadiglio
in retroscena.




CONTROMISURE


Oh, beh, sì,
potrei parlare di dolcetti al miele
certo potrei
anche di quel loukhoum pistacchi e rose
e poi tutta la gamma dei colori
potrei metterci un tango
o il quartetto per archi in fa maggiore
potrei farvi venire
una crisi glicemica

invece no,
giro la sedia a vite
in calzamaglia
immagino trent'anni e lui be-bop
muscoli e fiato
forse una spruzzatina di far west
e
pupa vieni qui, fatti baciare
pizzi neri e due fucsie tra i capelli
odore che - miodio -
potrò mai farti giungere in ritardo

oh, beh, certo che sì
va tutto bene
hai portato le coppe mon amour?
Vedrai, stanotte un angolo di luna
la cantilena a mantice di un gatto
suggerire deliri
e tu lo vuoi.




Che sia così?


Forse mistificazione
a sfavillare dove
resta il grumo a stagnare
e penne d'avvoltoio
mimetizzate da paradisea
una parte asseconda il sé
di meridiane e traffici illusori
l'altra spinge ed assedia
è quello che misura il do di petto
dei polli da spennare
il rigetto di cavoli e caviale
si sdilinquisce a  “molcere”
(quale parola-orrore)
sa di moccio, di scivolata in sol_chi
ma tu
quale ansare ti porta sulla porta?
Qual'effrazione pratichi all'udito?
E per salvarmi appendo alla pineale
il  guitto colpo di tosse
a calare di tela
e adesso dimmi pure una parola
tipo “catalogna” chessò...
ti spiego di verdura ripassata in padella
ti piace l'aglio?
Se hai fame non ti vendo
la poesia




DIVERSAMENTE STABILE


C'è l'idiosincrasia
- quanto le piace questo lemma -
per la parola cuore
le dovesse scappare non sia mai
spalmata su parole altisonanti
prosodia
rea sconfessa

un ragazzo che viene dal passato
occhi di broncio
- di sensi all'erta le concede l'uomo
in minutaglie sparse
e il suo andare di fretta -

lui di bevute solitarie
nel palmo della mano in senso lato

lei che si gioca l'ultimo bicchiere
col piede nella staffa.




UNA CIOTOLA


Una ciotola
e il colore del pomodoro
di striscio
un’avanzata di foglie di basilico
dalle casse Vivaldi
è Primavera
una forchetta in bilico
e
abbaiare di cani

ti frughi nei cassetti
prendi a casaccio nomi
e pepe e sale
ti si inceppa un pensiero
lo appendi ad asciugare…




DI SOLITUDINI


Alla tua solitudine lo posso raccontare
dei miei pensieri cavi, e delle notti
calate sulle rive di soppiatto.
Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarsi
anche la mia
ch'è sabbia, neve, voli e
speronate a picco.

A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono
quindi nei vuoti d’aria m’abbandono
per una tregua minima
se vuoi
tu che ti specchi nel mio nulla
puoi, nella forma del buio,
porgere la tua mano alla mia assenza.




Inedito



Tecniche di sparizione

Sono le trasparenze a fare il quadro
non c’è ombra che affondi nel catrame
per quanto denso e colorato
indicativo dell’incirca e mai
la pulizia di netto, il senso che preciso
lascia il segno
_l’anima si tratteggia a mano libera_

è ciò che amo 
quell’essere soltanto suggerito
che riconduce al fiato, alla misura nota
univoca, lontana il più possibile dal corpo
quando perfino il sesso ha un suo candore
e nella  dignità tesse ogni cosa
il rito delle proprie tinte arrese
ad ogni mezzo lieve

m’ispira il numero aureo
la coclea a svolgimento senza fne
il raggio
che coglie in pieno petto chi già vive
della sua morte luminosa
e ancora sta



Note biografiche
Cristina Bove

Sono nata a Napoli il 16 settembre 1942, vivo a Roma dal '63
Ho cominciato da piccolissima a disegnare, a nutrire la passione per la lettura.
In seguito mi sono dedicata alla scultura e alla scrittura.
Negli ultimi tempi mi esprimo soprattutto in poesia.
Mi sento testimone del mio tempo e della mia esistenza.
Credo nella libertà e nella giustizia, penso che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli esseri umani e ne sia inestimabile ricchezza.
Sono alla costante ricerca di un significato in questo infinito mistero in cui mi sento immersa, ma non mi faccio più domande inutili.
Amo la vita, i miei cari, e tutti gli esseri umani dal cuore buono e dalla mente aperta.
Considero la poesia un linguaggio universale, l’esperanto dell’anima.

Ho pubblicato tre raccolte di poesie per la casa editrice Il Foglio Letterario:
Fiori e fulmini (2007)
Il respiro della luna (2008)
Attraversamenti verticali (2009)
Sono presente in diverse antologie:
Antologia di Poetarum Silva (a cura di Enzo Campi)
Auroralia (a cura di Gaja Cenciarelli)
La ricognizione del dolore (a cura di Pietro Pancamo)
Antologia del Giardino dei poeti (a cura mia e di altri poeti)
E in alcuni siti, tra cui:
La dimora del tempo sospeso
Neobar
Filosofi per caso



Ciao Vincenzo!

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Ieri ci ha lasciato Vincenzo Anania.
Direttore di "Pagine" e delle Edizioni Zone, ex magistrato e poeta di rilievo, mi ha sempre colpito la sua tempra, combattiva eppure delicata, e la sua generosità.


Così lo ricorda Cristina Annino:

Vincenzo Anania è stato, come tutti sanno ma mi piace ricordarlo, un egregio organizzatore di incontri e discussioni poetiche nella Roma degli anni ottanta. Ci conoscemmo allora e la nostra amicizia è durata fino a pochi giorni fa. Lo penso come mi apparve quando lo conobbi: atletico  consumatore di viaggi fatti nella maniera più giovanile possibile, anche in autostop e dormendo negli ostelli di mezzo mondo. Soddisfatto della sua vita colta, passionale, ironica; taceva i propri dolori ritenuti giustamente privati e dava agli altri il meglio di sé, organizzazione e fermezza. Così ha diretto per anni la rivista “Pagine”, quasi da solo, rifiutando personalmente l’uso di un computer. Scriveva ancora a macchina le proprie poesie nate in età matura e che scorrono limpide sul filo di un classicismo inquieto ma calmo, come spesso sapeva camminare con gli altri, quando vinceva sulla propria personalità impastata di irruenza e di metodo.
Mi è stato vicino in alcune vicende private non sempre piacevoli, con consigli, saggezza attenta, rimproveri, per il gran bene che mi voleva, almeno quanto quello che ho sempre sentito io per lui.
Ultimamente, i nostri incontri sono stati quasi solo lunghissime telefonate piene di allegria; più soffriva fisicamente più si mostrava allegro. Stava diventando un solitario uomo di gran classe.
Amava i gatti, amava il modo di cucinare di mia sorella (quando in anni lontani veniva a trovarci d’estate in campagna), si rivolgeva a mia madre con quel rispetto da signore di altri tempi. Ha disperatamente amato i suoi figli e la creatività di Giulia. E ha sempre amato lottare. Lottava con l’arma della legge quando ancora non ci conoscevamo, poi, in privato, con quella difficilissima
del riserbo,  con una generosità mai esibita, col pudore del non credente, con la naturale libertà delle idee, veemente se occorreva, ma con una costante autocritica che, elegantemente mai si tolse di dosso. Amava in modo ironico anche la propria morte con la quale da tempo aveva impostato la sua immaginaria “partita a scacchi”. Si guardava allo specchio e l’amava, nell’espressione, in qualche piega del viso, nel camminare sempre più vicino all’albero sotto casa. Dopo essere stato un grande viaggiatore, dopo aver visto quasi tutto il mondo, riusciva ancora a stringere con allegria -e ringraziando chissacchì per poterlo fare- sempre più da vicino quel solo albero in quel poco verde; spesso mi chiedeva al telefono “ma tu abbracci mai gli alberi? Io lo faccio ogni volta che scendo. Mi fa star bene!”
Ha sempre mantenuto una voce stupenda.


Sue poesie uscirono su Blanc.
Qui 

Molto bella L'intervista che gli fece Anna Maria Farabbi, nel 2011

Sergio Marinelli

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La singolarità di La Galleria. Primo (Scripta edizioni, 2011), di Sergio Marinelli, sta nell'unità d'ispirazione e nella continuità tra opera e autore: docente di Storia della Critica d'Arte presso Ca' Foscari di Venezia, il libro è una galleria d'arte visiva – circa 150, tra opere e autori indagati – che tiene, in sintesi, il meglio e il peggio della produzione pittorica occidentale. Da Giotto e il suo pensiero azzurro a Damien Hirst "il solo ad aver capito / che le sue opere un giorno / forse non varranno niente", con quel "forse" detto più a beneficio d'inventario che per sincero ripensamento perché, lo stato dell'arte contemporanea, Marinelli ce l'ha ben chiaro: quando il denaro vince sull'opera, la civiltà inesorabilmente decade, e viceversa. L'autore salva, ma non troppo, Maurizio Cattelan che, "di quelli lì" (leggi: "Jeff Koons / Mark Quinn / Vanessa Beecroft / Damien Hirst / Jenny Saville / e tanti altri") "è il più simpatico". Posizione non per forza condivisibile, ma che Marinelli ci offre con leggerezza, così come, con la grazia della velatura e del gesto impressionista, ci fa conoscere i capolavori senza tempo del canone occidentale. Tranne, sia chiaro, quando parla degli artisti sopraccitati. Lì – e in qualche altra occasione – va giù duro, senza curare troppo il canto. Ed è proprio in quelle circostanze che la sua poesia mi convince di più. Non che altrimenti non sia elegante e non colga, in pochi e precisi tratti sintagmatici, l'essenza di un dipinto. Ma, appunto per ciò, costringe la parola a farsi ancella del proprio oggetto, la sottomette ad esigenze didascaliche, piegando l'immaginario dirompente che, per sua natura, la poesia possiede, alla precisione del segno descrittivo (per quanto essa si sforzi di essere allusiva). Se, dai romantici in poi, poesia è conoscenza, La Galleria. Primo ce la presenta invece come un'elegante damigella d'onore, che racconta, ai presenti curiosi e affascinati dall'elocutio autoriale, gli splendide vesti della corte. Naturalmente, qualche volta la mano felicemente scappa al controllo: è quando, per esempio, i classici diventano contemporanei. Succede nella Maria Serra di Rubens, il cui "volto sbocciato   affondato / in un sole bianco di pizzi // gli ricorda Hanna Schygulla / nei primi films di Fassbinder". Oppure quando i classici, pur restano nella loro magnificenza inavvicinabile, ci parlano del profondo, di ciò che siamo, come nella poesia dedicata all'Et in Arcadia ego di Poussin.




da La Galleria I


AI Museo di San Gallo
la collezione permanente
se mai c'è stata
è sparita a far posto
alla videomostra
di un imbecille
barn to he wild

Eppure sulla guida
c'erano i bei nomi
di Courbet e Monet
Kirchner e Klee
Fontana ed Andy Warhol
e      per quel che può piacere
due dei più bei Segantini

L'arte antica
se è morta
deve lasciare spazio a questi
che non sono mai stati vivi
ma attirano in trappola
col tranello del nome
consacrato del luogo
un pubblico ignaro
che altrimenti sarebbe di tre

Ormai è così dappertutto

Per un presente che non esiste
si distrugge allora la memoria
e l'identità di un passato
che      ahimè      non è solo svizzero

Mi sono fatto ridare
i soldi del biglietto

ZURICH 2O.8.2OO9




BERNARDO BELLOTTO

Nero
come l'alba
che non viene




Maria Serra di Rubens

La luce si riflette
come su una montagna di neve
soffice
corre giù a rivoli
in discesa
lungo i fili dorati
scivola come sui marmi
che saranno
di Gian Lorenzo Bernini

Lei
sta nel nimbo di un arco
come un basileus antico

II ventaglio puntato di scorcio
impugnato come un'arma da taglio

il volto sbocciato     affondato
in un sole bianco di pizzi

Mi ricorda Hanna Schygulla
nei primi films di Fassbinder


15.1.2011




L'età del bronzo di Rodin

Nudo
disperato e solo


Come in un'estasi
d'amore



L'artista ha scolpito
anche un dio
invisibile     intorno
che vorrebbe salvarlo
se potesse



II primo pensiero
è quasi sempre
quello che vola su
più in alto

28.1.2011



Et in Arcadia ego di Poussin al Louvre


Grande Lévi-Strauss


Veramente è la Morte
la signora elegante
con il vestito classico
che viene in aiuto
ai pastori     a decifrare
il suo nome
sulla tomba

Come quando credevamo
assediare noi un nemico
e ci sorprende da dietro
alle spalle     senza via di fuga
ed è finita

 21.2.2011


Francis Bacon


Non ci si pensa mai
ma è lo stesso nome
del filosofo


Ma più devoto alla chiesa


A mettere
i cardinali in gabbia
o a friggere
sulla sedia elettrica


Ma quanto umani
teneri mostri
i martiri
Le vittime
più non hanno colpa


Riavvicina
e assolve
la pietà


Negli stessi anni
i cardinali
confezionati nella morte
di Manzù
sono più distanti
imbalsamati già
per l'Eternità

13.3.2011



Vanessa Beecroft

Una bufala


Una mozzarella     s'intende


Blu

Ogni grande artista     oggi
è un perfetto prodotto
pubblicitario

18.3.2011



PALLADIO

La misura aurea
della luce

2.4.2011



Sergio Marinelli (1950), ordinario di Storia della Critica d’Arte presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato prima direttore dei Musei Civici di Verona.
Ha curato mostre su Veronese (1988), Il Veneto e l’Austria (1989), Bellotto (1990), Tintoretto (1994), Cinque secoli di disegno veronese (2000), Von Stuck (2006), Mantegna (2006).
Ha scritto numerosi saggi di storia dell’arte.
La sua produzione più strettamente letteraria comprende Tsang Po (1992), Cham e altri paesi della luna (1995), Sei (1995), La terra rossa di Birmania (1996), Jours (2002).


Qui il suo curriculum più dettagliato.

Donini su Matilde Tobia

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Ancora poesia e pittura, in un'opera prima uscita nel 2009, Lemmi per uno sguardo (Cierre grafica) di Matilde Tobia. Con la seguente postfazione di Paolo Donini:


Prepararsi al vedere

Tra il vedere e il nominare si dà  un nesso simile a quello che lega i due segmenti dell’abduzione.
Il vedere è percettivamente certo, il nominare ne consegue come impresa del riconoscimento.
Nel frattempo, la cosa vista laggiùè ancora sola, nella troppa luce.
Se supponiamo di soffermare  la frazione in cui l’occhio si apre al bagliore e ne è allagato, in quella il vedere è il  puro, disperato offrirsi della retina all’impressione.
Un disperato vedere che non è ancora visione.
La visione,  come la “veduta”, vuole che il vedere sia ricondotto entro la specula di un’autolimitazione, nel beneficio inestimabile di un ripensamento. Entro una “cornice”.
La visioneè ripensamento o recinto al  vedere. E il recinto al vedere non può essere altro vedere.
Recinto al vedere può essere soltanto una prospezione di senso, soccorso semantico a quanto è stato disperatamenteavvistato laggiù. Pratica del riconoscimento.
Toglie disperazione al  vedere il recinto di senso che lo delimita: lo steccato ermeneutico, amata cinta che accoglie  quanto è stato visto.
Ma è tale la velocità del vedere che la china opera nominante deve accelerarsi a raggiungere la misura dello scatto percettivo.
Il recinto si installa in velocità quasi-pari al vedere. E lo fa nella grazia inattesa e repentina del lemma.
Il lemma cinge il vedere, nel ripensamento repentino di quanto è stato avvistato disperatamente.
Ed ecco che tra il disperato vedere e quanto disperatamente avvistato si conchiude a riparo la grazia repentina del lemma.
E la cosa, inebetita nella luce, si riprende: si dichiara.
A riparo della furia luminosa la cosa vista trova per sé un nome. Un nome di cui cintarsi. Lemma.
Λεμμα, Lemma, radica il suo etimo nel tema del dono, di quanto è ricevuto, ma precisa il suo impiego nella microlingua matematica e nella filosofia in ciò che è premessa al dimostrato. A quel che è certo.
Nella teorica dello sguardo di Matilde Tobia il lemmaè premessa a ciò che è puramente, desolatamente visto. E lemmariosarà la provvigione di cui il poeta si incarica: repertorio, arsenale, allevamento e vivaio del nome da dispensare a ogni cosa.
Soltanto che nello sguardo, per via del primato percettivo della vista, la premessa accade in un infinitesimo ritardo, dove si dà il ripensamento. E non è, pertanto, già-certa, scontata.
La premessa è vigilanza sulla veduta, veglia nella luce immediata, avventura poetica oltre l’occhio, scommessa del dire.
La premessa è frutto della pedagogia del vedere e si fa latu sensu“promessa” dei battesimi culturali che escono a dar nome al mondo.
Il lemma, recinto al vedere, è premessa posticipata, quando conclude il giusto completarsi della visione nella dizione.
Dal nudo vedere il lemma accampa la grazia del recinto che fa la visione, la veduta: il quadro.
Fra il  rapido consonare di questi termini: vedere nominare/ cornice recinto/lemma visione: quadro  la poetica di Matilde Tobia accerta la necessità di pronuncia dello sguardo, metodo e responsabilità, deontologia dello sguardo:
Dar corpo
al senso della vista
è storia d’una vita
lemmario d’una urgenza

In queste pagine, nella rigorosa scansione delle sezioni:
I)Lemmi … - II) Percezione / Appunti - III ) - Immagine / Cominciamenti  - IV ) Riflesso / Note 
si inscrive l’accertamento poetico dello sguardo, sino alla foce luminosa della presentificazione (V  Il Presente).
Una ricognizione che non è sconfinamento da un’arte all’altra, né cabotaggio didascalico, perché il recinto ermeneutico richiede l’imbandigione d’una poiésis a cui il dato visivo si porga, attinga, acclarandosi nella dichiarazione.
E perché dal tempo inebetito della cosa, sola nella luce, si giunga all’incominciamento luminoso del tempo nominato, dell’essere-nel-nome presente a se stesso.
Matilde Tobia procede sistematicamente dalla cosa vista in sé a quel correlativo esponenziale che è la cosa trattata nella materia dell’Arte: la Forma.
L’indagine qui è a tutto campo, a tutto campo visivo. Dall’empiria della Cosa all’ermeneutica della Forma:
nell’urgenza di una poiésis che si descrive come risposta e soccorso al nudo vedere e nella stessa urgenza che richiama il lemma a farsi parola di una critica poetante, l’unica che sappia dire l’Arte senza deformarsi in autobiografia (del critico, ovviamente).
La poesia di  Matilde Tobia  incorpora gli atti di una critica poetante, nella mimesi che la scommette vis-a-vis  sull’opera, sulla tela, nel quadro, di cui il testo non fa l’anedottica né la suggestione ma la pronuncia,  la dizione, la materia resa in  lemma, apparizione finalmente “nominata”.
Esemplari di questo procedere sono i Lemmi per Anselm Kiefer, dovel’impasto materico proprio dell’artista tedesco si “vede letteralmente”, nel suo correlativo sillabico:
E’ vicina, talmente vicina, la volta notturna ch’è bianca, non nera.
E invade la mente di chi la subisce guardandola cieco, lasciandola
spoglia.
E impastata di spessa materia e di vaghi colori.
(così bianca di stelle, è pesante una volta;
scivola giù e non trova accoglienza per farsi comprendere)

Battesimo delle Forme, questa poesia postula che lo sguardo dell’Artista includa una pre-disposizione al vedere, dall’effetto semantico analogo al nominare,  ma che in un Artista visivo questa resti visiva, e occorra dunque l’intervento del poeta a traslarla in poiesis,rivelando che l’ordinamento del “quadro” è premessa e recinto all’ordinamento del mondo:
Quando qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi
Il recinto si è fatto luogo della realtà.
Questo scambio è essenziale perché in Matilde Tobia il discorso dell’Arte (e non sull’Arte) è discorso del mondo e la parola scambiata vis-a-viscon il “quadro” è dialogo nell’essere, nella vita, dove il nascere al senso, formarsi, esperire si fanno nell’Arte, esperienze nell’Arte in quanto “realtà liberata dal realismo”.
Il dialogo nell’Arte qui è niente meno che “vivere”. Vivere è la promessa a questo inoltrarsi.
Vivere ha in questa poesia il sapore dell’incominciamento offerto a mente e sensi dalla tavola o canvas su cui un altro ha fatto Forma alla vita. Umana Forma. Unico luogo e rudimento dove siamo venuti a incontrarci. Forma che ci ha formati.
(Con trapassi di secoli o d’anni – mormora un coro di sodali nell’Arte -  in sale di musei, per mostre, negli studi, su lievi e faticate carte, su illustrazioni indimenticabili, nella racchiusa prossimità dell’ermeneuta in piedi di fronte alla muta elargizione del segno. Eravamo lì, siamo nati al senso lì davanti.)
La “vita reale” in Matilde Tobia è questo incontro incessante tra lo sguardo, la cosa laggiù disperatamente sola, la Forma che mantiene sul quadro il “maestoso silenzio” di Platone e il chino colloquio che ne guadagna fiducia, ne ottiene la pronuncia: la Poesia, più reale del reale perché tolta alla disperazione del reale, quando il reale oscilla laggiù oltre il nome,  oltre il senso possibile, dove anche un cipresso, che non sia nominato o dipinto, è assurdo.
Realeè la Forma data nell’Arte. Reale-per-noi il lemma che la dice.
L’Arte in questo libro non ha perimetro semmai perimetra il mondo, e il segno – il filo– esce incessante dal quadro a delineare la Cosa nella sua Forma intitolata, a recintare nel  vero il vero-per-noi:
Quanto pesa lo strumento che hai per costruire ciò che vuoi creare.
La tua mano, nel rifare i percorsi stabiliti per le cose che vorrai, poi,
intitolare.
. . . .
Quanto dura la lunghezza di quel nero, di quel filo che si svolge
all’infinito?

Intitolareè dare il nome e l’Arte nell’intitolare conferisce niente meno che realtà.
Morandi, Melotti, Burri, Pollock, Rothko, Malevich, Mondrian, Kiefer … la  critica poetante inclusa in questo poetare non è solipsismo di fronte al “maestoso silenzio”che la pittura “mantiene” ma, nel raccolto colloquio con l’opera dei Maestri, essa è maieutica che dà  parola al quadro invitandolo a pronunciarsi sin nei minimi dettagli:
Eppure, ancora dici dell’oro della nicchia
che vibra caldo sotto il blu del lapis,
coronato da ruote di pavone;
ancora dici dei marmi verdi di colonne,
ancora della minuzia degli intarsi

Il quadro è lì a ribadire che lo sguardo non si conclude nel vedere ma si apre all’allestire il recinto della visione:
Quando qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi
Esemplari sono i  lemmi per Giorgio Morandi che nel direil quadro del Maestro ne rifanno in lemmi la preparazione: del tutto franca dunque la confluenza di vista in  veduta,  e della “realtà” nella sua pre-disposizione avverante.
Qui  l’atto del “preparare” le cose a mostrarsi nella luce è  fare il recinto, il “quadro”, posizionare l’oggetto  esponendolo al senso, è sospingere  il mondo verso un ordine, disporlo all’avvento del segno:
sono le cose che possono sapere
che fare di se stesse con la luce;
sono le cose che possono segnare
il vuoto che rimane, lasciato da un volume
E comprendere la preparazione è  “prepararsi”.

La poesia di Matilde Tobia traghetta la valenza pedagogica e auto-educante di questo infinibile “prepararsi” a vedere.
Restare in questo atteggiamento dell’occhio che si autosospende e delega  dal càpere al capire,  con-prendere le cose, cintarle, accoglierle.
La realtà è attingibile solo in quanto già-progetto, preparazione che l’ha  già-tolta alla disperazione infinita oltre il nome. Dove oscilla, alla luce grezza, il cipresso noumenico.
Portava a un ingresso flagrante  l’intero cammino della preparazione (lemma-percezione-immagine…) e  l’operazione nominante nella muta boscaglia ottica ammette l’inoltrarsi come incominciamento continuo alla vita, al Presente essere-presente-nel-nome, là dove la raccolta sfocia alla sua fine-inizio:
T’inoltrerai nel bosco ..
. . .
Ti accorgerai se il tratto di strada che hai percorso
ti ha seccato le labbra, oscurato la vista, tolto il fiato oppure
se hai cantato a gola aperta

Paolo Donini


da Lemmi per uno sguardo 


Un principio

C’è il tuo sigillo, in basso. È cosa ferma:
il passo col quale prendi posto,
l’istante col quale prendi tempo,
lo sguardo col quale prendi luce.
È come il primo verso, col quale prendi fiato.
Per poi sapere il mare e non sapere se è un sole, se è una luna.
Fermo sigillo, in alto, per troppa luce nero.


Lemmi per:
La mer di Felix Vallotton.Musées d’art et d’histoire – Cabinet des estampes, Genève


Nascita di un filo

Quanto pesa lo strumento che hai per costruire ciò che vuoi creare.
La tua mano, nel rifare i percorsi stabiliti per le cose che vorrai, poi,
intitolare. Il colore, nel cadere nei sentieri suscitati dal tuo braccio che si muove.
Il tuo corpo, quando ruota per spiegare la lunghezza di quel nero,
di quel filo che si svolge, si riavvolge, s’interrompe, che si aggruma
in un luogo già gremito di materia e luce grigia. Già colmato
fino all’ultimo respiro di altri pesi di diversa consistenza, scaturiti
da altri mezzi, movimenti colorati, e già ispessiti, con l’azzurro, con il bianco.
Con il rosso.
Quanto dura la lunghezza di quel nero, di quel filo che si svolge all’infinito?



Lemmi per:
Sentieri ondulati di Jackson Pollock. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma




 Per una momento appena

È un fiato di magia che ha sospeso in un respiro
come gran soffio di vento ogni anima del mondo.
È un incanto che ha creato una danza senza tempo
che si snoda nell’azzurro e nell’oro del silenzio.
È un raro sortilegio che disegna il movimento
di una luce cristallina che ha rubato al peso l’ombra.
Lemmi per:
Ejiri in Suraga di Hokusai. British Museum, London



Monocromia

Capisco in tempo il gesto quotidiano:
si butta a capofitto addosso alla sua
ombra e si fa spazio tra le lenzuola
tese un attimo prima che il suo giorno
nasconda il vento e si tramuti in pietra.
Lemmi per:
Lavandaia di Arturo Martini. Pinacoteca comunale, Faenza


Memorie della retina

Non devi più, ancora,
raccontare, perché hai guardato tanto
da sfinire ogni disegno.
(già sapevi lo splendore del palazzo)
Eppure, ancora dici dell’oro della nicchia
che vibra caldo sotto il blu del lapis,
coronato da ruote di pavone;
ancora dici dei marmi verdi di colonne,
ancora della minuzia degli intarsi,
e appena d’un po’ di vermiglio.
(già conoscevi l’oro,
i lapislazzuli, i marmi, le gemme, le sete.
La musica, la storia)
Così non ti è rimasto che il suo passo di danza
– un piede, solo una gamba avanti l’altra –
da disegnare, a matita.
(e poi)
Al posto di lei c’è il bianco che occupa
il suo spazio e prende la sua forma, esatta, esatta.
Memoria nella retina abbagliata. Esatta.
Lemmi per:
Salomé che danza di Gustave Moreau. Musée G. Moreau, Paris



VI
I L P R E S E N T E


T’inoltrerai nel bosco, in mezzo a due
guardiani, possenti su pilastri accovacciati.
Ti accorgerai se il tratto di strada che hai percorso
ti ha seccato le labbra, oscurato la vista, tolto il fiato oppure
se hai cantato a gola aperta grida e parole con l’unico tuo passo,
solo quando, passando quel confine, ti sembrerà di stare su una barca
che scivola guidata dai fanali, sicuri sulle massime sporgenze, a guardia
dell’imbocco di ogni porto.



Lemmi per mio padre:
Il bosco sommerso di Enrico Tobia. In Dal ponte dell’Ariccia, Milano 1962


Matilde Tobia,nata a Roma, dopo la laurea e gli studi specialistici in storia dell'arte, si occupa di comunicazione istituzionale. Le relazioni tra parola e figurazione sono il tema centrale della sua ricerca poetica. E' autrice dei testi della performance Come in un libro aperto, e come in una stanza andata in scena alla Reggia di Capodimonte nel 2005 (Quaderni di Capodimonte, n.23, 2005). Nel 2009 pubblica il volume di versi Lemmi per uno sguardo, nella collana "Opera prima" promossa dalla rivista Anterem. Su sue poesie, il maestro Enrico Marocchino compone i Lieder Dall'ombra e da lontano, per la 30^ edizione del Festival di Musica Contemporanea, 2009 e E' una storia, per il Festival di Nuova Consonanza, 2010. I suoi testi sono in rete su questo sito.

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