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Chandra Livia Candiani

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La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014) di Chandra Livia Candiani è un libro che ha avuto un sorprendente successo di vendite e un sicuro consenso critico. I due fatti sono il risultato di una scrittura fluida, tendenzialmente paratattica, lessicalmente ricca di parole d’uso quotidiano ma anche fortemente simboliche (sete, fame, pane, neve, abbraccio, luce), di una narrazione chiara dove la pedagogia entra con passo leggero, di una problematizzazione mai intellettuale ma sempre resa esemplare attraverso concetti incarnati in metafore elementari eppure non banali. A questo si aggiunga una vita partecipata (si vedano qui le interviste e le note di Giorgio Morale all'autrice) e una pratica meditativa buddista, che piace perché fuori dalle logiche di potere e vanesie della cultura mercantile globalizzata. Tutti ingredienti dei quali il corpo della Candiani, esile eppure tenace, da bambina pugile, appunto, diventa emblema, soprattutto quando la sua scrittura lascia intendere sia i diversi lutti che l’hanno attraversata e sia un’infanzia vissuta interrogando le cose e cercando in esse rifugio. Il sonno della casa (in Nuovi poeti italiani 6, Einaudi 2012) ci porta in questa dimensione cosale, e lo stesso capita nel nuovo libro (“allora mi raccolgono / fanno collezione di me / gli oggetti a primavera” e “Niente, è che a me piacciono da sempre / le cose mute / quando l’io zittisce / e si alza il volume della voce / non solo degli uccelli / ma anche del silenzio dell’armadio / e del tavolo / della lampada e del letto”). 

La dedica stessa abbraccia il mondo intero, animali e nemici compresi, e piante e pozzanghere, nella pienezza di un fare compassionevole, fondante nel buddismo di tutte le provenienze. La formazione inevitabilmente cristiana della Candiani entra comunque nelle poesie, attraverso l’elogio alla grazia, la forza simbolica del pane e soprattutto nell’idea che ci sia “un male / che fa guarigione”, che la via sia una pratica segnata anche dalla sofferenza, per principio, non per destino, e che dunque guarigione e conoscenza siano sorelle (“cerchi impavida il punto / in cui il male si fa conoscenza”), ma abbiano bisogno del dolore per nascere; acquisizioni anche occidentali: ce lo insegnano Eschilo nell’Agamennonee Cristo che, morendo in croce, espiando i peccati del mondo, si mette, derelitto e abbandonato, al centro del rimosso della civiltà: il dolore non è un castigo da fuggire, un male da combattere bensì l’esperienza che meglio ci dice che cosa siamo, la via che ci conduce nel cuore dell’identità. È nel dolore infatti che quest’ultima rivela la propria natura franta, molteplice, inabbracciabile eppure condizione di ogni abbraccio. Lo scrive chiaramente l’autrice: “io è un abbraccio” che tiene il molteplice ma non lo domina, “come fanno le rondini col cielo” scrive in un’altra poesia, riferendosi alla magia delle parole quando le prendiamo sul serio. E allora essere “briciolitudine” (neologismo che frantuma la solitudine, togliendole astrazione e rifondandola a partire da un intero che rinvia al pane, perduto nell’unità ma presente nella sostanza), non viene vissuto come un dramma dell’imperfezione e dell’incompletezza, bensì con la semplicità di chi riconosce i legami segreti fra gli esseri e l’immenso amore che li fa stare in armonia o in disarmonia: due modi della stessa energia vitale e, per questo, accolti entrambi e benedetti.


La bambina pugileè un libro sul finito, ciascuno perfetto nel suo modo. È spinoziano oltre che buddista, racconto autobiografico segnato dalla perdita, ma non dal lutto, dalla consapevolezza che morire è una dimensione del visibile, del prospettico, più che dell’essere, dentro il quale invece i vivi e i morti dimorano; e se c’è monologo, forse questo è dei morti che parlano con la nostra lingua, abitando i silenzi tra una parola e l’altra, ma anche le stesse parole quando diventano poesia.


Qui alcune sue poesie.

Chandra Livia Candiani è nata a Milano nel 1952. È traduttrice di testi buddhisti e tiene corsi di meditazione. Ha pubblicato le raccolte di poesie Io con vestito leggero (Campanotto 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium 2005), La porta (La biblioteca di Vivarium 2006), Bevendo il tè con i morti (Viennepierre 2007) e La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014). È presente nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 curata da Giovanna Rosadini (Einaudi 2012).

Pianzola su Enrico Marià

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La preghiera di Enrico
Pensieri liberi sulla poesia di Enrico Marià


Come il poeta vero, Marià va oltre il libro e la poesia scritta. Mette in gioco anche se stesso. «Poesia non sono io, siete voi venuti ad ascoltare», dice la sera del 17 gennaio 2015 alla presentazione del suo libro Cosa resta, Puntoacapo Editrice, alla libreria Falso Demetrio di Genova.
Marià non sa  – non vuole – scrivere del bello, ne ha pudore.
Marià ama terribilmente la vita, per questo teme il buono e il bello e scrive del male e del dolore. Per tenerli, il buono e il bello, al caldo del non detto, nel cantuccio protetto del non esibito.

Confesso che quando lo sento leggere i suoi versi senza scampo e chiusi in una vertigine di eventi dolorosi enumerati con dedizione-disincanto, la mia natura mercuriale mi fa pensare «ma la poesia è di più, la poesia è anche altrove». Poi però, immancabilmente, quando vado a cercare i suoi libri, i suoi versi scritti, cambio idea e ritrovo quella libertà assoluta di cui la poesia ha un bisogno famelico. E non avverto più quel leggero senso di claustrofobia, ritrovo i crismi della poesia vera, alta.
Quindi il mio consiglio è: ascoltate Marià ai suoi reading (numerosi, tra l’altro, la sua magrezza compunta si offre generosa alle platee) ma ricordate che lui sceglierà sempre, in quelle occasioni, i testi più tetri e mortali, perché è così che vorrà colpirvi, è così che chiederà il vostro sostegno (il poeta, l’artista fanno del gesto poesia, e della poesia gesto). Dopo di che, andate a sfogliare un suo libro e la sua parola, per uno strano miracolo mediatico, verrà fuori liberata, trasparente, cristallina. Si distaccherà come crisalide, come corpo fluttuante dal carapace esistenziale, e prenderà il volo.
«Tu carne,/ anima, sangue,/ il posto/ più bello e lontano/ dove sia mai stato».
«Serva da due parti/ incrociarci solo a cena,/ in tre sul divano letto/
la notte spiarla, analfabeta/ che cerca di sentire Dio/ appoggiando l’orecchio a un santino».
Il mestiere di Marià è elevare a classicità il trucido, lo scarto, la nausea del nulla più definitivo, di un’umanità al di sotto della soglia di umanità.
La sua poesia è preghiera, non terapia (il poeta Ercolani al Falso Demetrio gli chiede con lieve apprensione: «Ma la poesia per te non è solo terapia, vero?», facendo intendere che ciò sarebbe una diminutio inaccettabile. Ma a me è venuto da pensare «e anche se fosse? Questo inficerebbe automaticamente il valore di un’opera?»).

Ogni poeta quando scrive sceglie il giardino in cui poggiare i propri passi. E per tutta la vita il giardino più o meno resta lo stesso, anche se il poeta vaga per il mondo. Il giardino di Marià è il sottobosco di vite al margine, di morti per overdose, di ragazzi uccisi dall’emarginazione, forse il riflesso (perché qui non c’è che in parte autobiografia, il resto è empatia del poeta che si confonde tra le zolle del giardino) di una vita affettivamente sregolata che un padre problematico gli ha caricato sulle spalle.
Ma sulle pagine del libro lindo e ben stampato, di versi puliti e ben scelti, la realtà più infima e disperata si innalza a un livello superiore. Un verso come «lì ragazzi con occhi da vecchi danno il culo per mangiare» è di un’eleganza (perché eleganza è liberare dal superfluo e anche non aver paura di chiamare le cose con il loro nome) assoluta.

Questa è la preghiera di Enrico che con la sua poesia torna al mondo, partito dal buio della disperazione, come il delfino torna a galla per riempire i polmoni d’aria e poi tornare nell’abisso. Una preghiera laica.

Scrivo di Enrico e della sua poesia perché c’è una sostanza poetica che ci accomuna. Una su tutte, quell’idea di “marginalità” che personalmente ho sempre sentito precipuamente ligure.
E non è un caso che quei caruggi di Genova dove Marià ha presentato il suo libro, che appena dietro l’aria ripulita di Palazzo Ducale brulicano di un vissuto storico, urbano, architettonico, umano che non ha paragoni in Europa, siano un luogo significativo per entrambe le nostre scritture.
La mia, per esempio, non è nata lì, vaga per le strade larghe e razionali della Lombardia e del Piemonte, ma in quelle strettoie oscure e scintillanti ritrova, cavandola da giorni adolescenziali, la propria energia.



Testi
(da Cosa resta, Puntoacapo Editrice 2015)



*
Tu carne,
anima, sangue,
il posto
più bello e lontano
dove sia mai stato.




*
Alì impara l’italiano leggendo i necrologi –
si esercita davanti ai manifesti;
negli spiazzi muti di periferia
non giocano bambini
lì ragazzi con occhi da vecchi
danno il culo per mangiare.
Del primo uomo
conservo l’immagine di me
che si rimette a posto i capelli
riflesso nello specchietto di un’auto.
Da quella notte non riesco più
a farmi toccare la testa,
ogni volta mi tiro indietro
balbetto scuse;
così macella il mondo
senza spargere sangue
in un silenzio dove niente
riporta indietro dalla morte.




*
La tomba di Claudio
è lapide nel fango.
In tasca la sua ipodermica –
per farmi non uso altro;
uccidere la morte
penso questo su ogni buco.
In riformatorio a mio padre
sfondarono i denti
perché non mordesse
mentre succhiava;
con me ha fatto lo stesso,
sussurro soffocato
che non arriva a parola
solo nell’eroina
non tremo
davanti alla vita.




*
Se quando esci sei solo
torni a rubare;
corpi annichiliti
sordi a ogni cosa
ti scarcerano a mezzanotte.
Alle pensiline di Marassi
Stefano senza denti
si mastica le gengive;
il desiderio è essere
dimenticati dal mondo,
infiniti nessuno
per sempre cadere
niente nel nulla.




*
Cristina vende i capelli
e il suo latte materno,
da cena ci spartiamo
una latta dei cani;
intuire la verità
è peggio che saperla,
amore della morte madre
ti prego stringimi
facendo di me l’istante
di un tuo bianco frammento.




*
Fuori dal San Martino
dimesso da un’overdose
mia sorella mi abbraccia,
mi stringe a sé
tentando di tenermi insieme
come quando si cerca
di trattenere l’acqua
con le mani a scodella.


Enrico Mariàè nato nel 1977 a Novi Ligure (AL), dove risiede.
È redattore di Puntoacapo Editrice, dove figura nello staff di CollezioneLetteraria. Ha pubblicato le raccolte: Enrico Marià (Annexia 2004); Rivendicando disperatamente la vita (Annexia 2006); Precipita con me (Editrice Zona 2007); Fino a qui (Puntoacapo Editrice 2010, II ristampa); Cosa resta (Puntoacapo Editrice 2015). Presente in numerose antologie tra cui Genovainedita(Galata 2007); Dolce Natura, almeno tu non menti (Editrice Zona 2009); La giusta collera (Edizioni CFR 2011); Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (Puntoacapo Editrice 2012); Poeti di Corrente (Le Voci della Luna 2013); Cronache da Rapa Nui (Edizioni CFR 2013; Poesia in provincia di Alessandria (Puntoacapo Editrice 2014); Bukowski. Inediti di ordinaria follia (Giovane Holden Edizioni 2014); Ad limina mentis (deComporre Edizioni 2014). Nel 2013 è stato inserito da Pordenonelegge nel censimento della giovane poesia italiana dai 20 ai 40 anni. Nel 2012 ha partecipato all'e-book scaricabile gratuitamente La droga: un’ispirazione? O l’ispirazione: una droga?. Suoi testi compaiono su riviste e nel web. Collabora con il blog "Corrente Improvvisa".



Francesco Tomada

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Due nuclei compongono l’universo poetico di Francesco Tomada: la famiglia e il luogo natio, entrambi terre madri dove piantare radice, che “ti fanno sempre  sentire al centro esatto del mondo” a patto che siano abitabili. È nel desiderio di ricomposizione di quei nuclei, franti per necessità storica e biografica, che si gioca la sua parola poetica, nucleo terzo e finalmente centrato sull’ordine comunicativo, sulla disambiguazione sintattica, tale da farlo sentire a casa, al centro del mondo, nel senso antropologico di luogo in cui avviene l’epifania del sacro e, dunque, del senso.

Portarsi avanti con gli addii (Raffaelli, 2014), “chiude e completa […] un trittico prezioso”, scrive nella bellissima postfazione Fabio Franzin, riferendosi ai due precedenti libri dell’autore goriziano, L’infanzia vista da qui (2005) e A ogni cosa il suo nome (2008), nei quali, appunto, padre, madre, sorella, moglie e figli – creature della terra, ciascuna in un travaglio proprio, che egli racconta con partecipata compassione, a volte, o rabbia, o amore – e confine geopolitico, che tiene insieme Mediterraneo e Mittleuropa, Triveneto e Slovenia, Caporetto e lotta partigiana, sono messi in scena per necessità esistenziale, identitaria, prima che estetica e civile. Tutto questo nella consapevolezza che “la vita è una somma algebrica di piccole salvezze” ossia che sia compito di ciascuno assumersi la responsabilità della relazione felice con l’altro, senza aspettarla da una decisione superiore: non c’è infatti rivoluzione né redenzione collettiva, bensì un camminare insieme, riconoscendoci mortali, creature sempre in bilico fra il sacrificio di sé e l’atto egoistico, tra la fortuna e la scelta.

Torniamo all’assunto di partenza ossia alla discrepanza fra reale e ideale quale movente della scrittura tomadiana entro una prospettiva sacrale, dove il cerchio armonico salva mentre le crepe (domestiche e sociali), per quanto minuscole, lasciano spazio alla solitudine, all’incomunicabilità, avvertita in tutto il suo dramma esistenziale e perciò esorcizzata nella vita come nella poesia, che qui ha il compito di tradurre per tutti la verità della vita ordinaria. Non ci sono infatti eroi tragici nei sui libri eppure, egli ci dice, tutti meriterebbero di essere almeno nominati, per avere vissuto tra miseria e gloria, come dei gesù crocifissi dalla natura o dalla storia e a volte salvati dall’amore di qualcuno.

Il nucleo familiare è il più denso e commovente del libro. Se, nei precedenti, qualcosa rimaneva non detto e il racconto sui genitori si fermava a un’età ancora salubre, ora padre e madre sono raffigurati nei loro ultimi giorni, con le piaghe e gli odori dei loro corpi che trasmettono la bellezza dei vivi nella loro fragilità. Splendida la poesia sulla vecchia madre, lavata come una bambina e finalmente conosciuta, senza vergogna: “Ho imparato prima ad essere padre”, scrive il poeta ricordando nei versi precedenti il cambio dei pannolini ai suoi piccoli, “e solo dopo figlio / appena in tempo, mamma, ma ce l’ho fatta // adesso puoi andare” . Un addio secondo natura, crudele ma inevitabile “come dirsi buonanotte” quando è l’ora di separasi. Un addio che chiude il cerchio, trasformando il dolore in seconda nascita per il figlio, ora pronto a diventare uomo.

Più conflittuale il saluto al padre in “A te papà non racconto”, organizzato nei modi elencativi cari a Eros Alesi quando scriveva: “Caro Papà tu che ora sei nei pascoli celesti […] Che avevo 6-7 anni quando ti vedevo Bello – forte – orgoglioso – sicuro – spavaldo rispettato e temuto dagli altri, che avevo 10-11 anni quando ti vedevo violento, assente, cattivo”. Scrive Tomada: non ti racconto“di come da piccolo mi sembrassi invincibile / quando indossavi la divisa militare / quando stendevi le malte / quando sparavi con la carabina / e lo sentivo che mi avresti protetto per sempre // di come crescendo le cosa siano cambiate / e tu mi abbia prima trascurato e poi dimenticato / perché non ero il tipo di figlio che volevi”. Due strofe che vogliono essere limpide nel dettato e crude nel messaggio, anche se poi, per il padre, tutto stempra in una vita coniugale difficile da gestire, che ormai il poeta, padre a sua volta, ha compreso e forse giustificato.

Dei propri cari, Tomada ha sempre parlato. Come in una dialogo privato, a cui noi partecipiamo quasi fossimo vecchi amici di famiglia. Veniamo a sapere molto della moglie Paola, dei sui tre figli, qui e nei libri precedenti. E mai che traspaia un sentire piccolo borghese, una meschinità. Se c’è, quella resta fuori dalla poesia perché questa non soltanto mette in forma a chiare lettere e per tutti ciò che sentiamo, ma vuole anche, e ci riesce, calcare la sua funzione classica, diventare sapienza: parecchie sono le chiuse dalla forza aforistica (per es. la già citata “la vita è una somma algebrica di piccole salvezze” e: “Siamo capaci di disegnare il percorso di un fiume, // non la sua ira” oppure: “Non è detto che chi ti sta aspettando / sia sempre qualcuno che ti vuole bene”). Sapienza che nasce da una sensibilità acutissima, che vede l’ombra anche là dove la gioia splende. Ed è qui lo scarto fra desiderio e biografia cui riferivo all’inizio: se con il padre il conflitto è nominato, nella propria famiglia non accade nulla di straordinario, se non l’inevitabile distanza che ciascuno chiedere per crescere o per respirare, riconosciuta dal poeta come crepa potenzialmente distruttiva. Un’ansia che la disfunzione cardiaca del figlio maggiore (“Le apparenze ingannano”) e la scomparsa prematura della sorella hanno sicuramente contribuito a creare, sorella mutata in spirito della puerpera, in “letovana”, alla quale dedica due poesie centrali, dominate dal suo fantasma domestico, indimenticabile.

Il tema della memoria, principalmente covato nel nucleo familiare, ha una sua consistenza ineludibile nell’adolescenza: “Qualcosa che ti porti sempre dentro / anche se non sei più tu”, scrive nella poesia che dà il titolo al libro, un chiodo di gioia e ingenuità, di scoperta e lotta, piantato per sempre nella personalità adulta. E con quegli occhi, Tomada guarda il suo mondo, che ha anche una memoria storica, leggibile nell’intricata vicenda dei confini italo-sloveni e, prima, italo-austroungarici. Un tema presente sin dal primo libro, a ribadire l’importanza di una terra comune dove aspettare, operosi, il futuro. La sua poesia vuole infatti avere anche questo compito: farsi terra dove benedire le creature che l’attraversano, i lettori e gli  uomini che la vivificano. Anzi, le molte donne, vere protagoniste di questo libro: madri, operaie, mogli, amiche, tutte a portare un carico di fatica e di sopportazione (a volte di rassegnazione), ma nel profondo mai sconfitte. E perciò portatrici di vita, per sovrabbondanza di essere. Lo dice benissimo questa poesia coniugale, che riporto integralmente: “Lo puoi vedere anche nei miei occhi: / sono stato un bambino con poca gioia // invece il tuo sorriso esplode spesso senza alcun motivo // allora ho pensato che ne potesse avanzare per me / e anche per altri // per questo è nel tuo ventre / che ho cercato i miei figli”. Il verso finale parla del dono e dell’accoglienza, parla dello spirito d’avventura e del pericolo che ogni viaggio comporta. E parla dell’amore, che riassume dono, accoglienza, pericolo e avventura, a partire da un fuoco conosciuto nell’infanzia e che ci tiene vivi in seguito. Se poi, come Francesco Tomada, hai il dono della poesia, non puoi sottrarti a questa responsabilità, che rende conto dell’umano tremore dei viventi ai viventi stessi; animali compresi, direbbe Rimbaud.

Due parole sulle immagini che corredano Portarsi avanti con gli addii: 8 disegni a china dello scenografo Anton Špacapan Vončina, lirici per la carica analogica e il segno sospeso, di un surrealismo delicato, che accompagnano con garbo le sezioni del libro, ben impaginato da Raffaelli.



Sez. prima: Penso sempre a tante cose

III.    La grammatica

Quando i bambini cominciano a parlare
non pronunciano frasi intere
ma singole parole ridicole e imperfette
però pallaè palla
gattoè gatto
ed è una cosa imparata che resta per sempre

a me di tutto l’italiano basterebbe poco
soltanto qualche vocabolo, ma da dire con quella sicurezza
come madrepadrefiglio
e la parola casa come una parentesi che chiude
la parola noi



IV.     Gli anni di piombo


Quando ritrovarono il corpo di Aldo Moro
nel bagagliaio di una Renault rossa
oppure
quando il Partito Comunista alle politiche
prese più voti della Democrazia Cristiana

ricordo il silenzio assoluto di mio padre
credo pensasse che cosa accadrà adesso?
ma non lo diceva

è lo stesso silenzio con cui ci guarda oggi
suo fratello i miei figli e me
ormai senza capire chi siamo

la vita intera passata a combattere
contro il nemico sbagliato

alla fine non è stato il comunismo
ma la malattia
che ci ha resi tutti
spietatamente uguali



VI.     L’Italia (è un melograno)


Io in vita mia ho comprato e trapiantato un unico albero
un melograno

ho scelto un angolo del giardino
da dove si vede la ghiera dei monti
dal San Gabriele fino al Nanos
quella cresta è stata Italia e Jugoslavia e poi Slovenia
è stata terra dolorosa e di rancore

i confini dovrebbero essere come gli orizzonti
quando ti muovi si muovono anche loro
se ti fermi si fermano con te
ma ti fanno sempre sentire al centro esatto del mondo

e patria è dove
un uomo pianta un melograno
e può aspettare di mangiarne i frutti


Sez. seconda: Terra di nessuno


I.       Le donne della Seleco



Le ho viste uscire alla fine del turno
camminando ma senza toccare il suolo
guardando i lampioni ma senza vedere
la luce e mentre svanivano le ho
immaginate aprire la porta
baciare i figli scaldare in forno
la cena e poi ripulirsi e a volte
giacere sotto un marito qualsiasi
con l'aria di chi da anni ha imparato
che manca sempre mezz’ora di troppo
alla fine del giorno


Sez. terza: Otto polaroid da Campoformido

II.

Eravamo questo:
le partite a calcio nel pomeriggio
borc di sore contro borc di sot
nel campetto dietro l’Osteria al Trattato

io giocavo in porta
ero proprio bravo a tuffarmi ma soltanto verso destra
sarei potuto diventare davvero un buon giocatore
però a metà, senza simmetria

non ho rimpianti, questo no
l’unico segno rimasto
è che sorrido senza un motivo apparente
se capita che in mano mi resti
un calzino spaiato



Sez. quarta: Portarsi avanti con gli addii

VIII.    Portarsi avanti con gli addii, pt. II


Il silenzio è la materia di cui sono fatti i tronchi degli alberi
i sassi
e spesso anche mia madre

è il pettirosso ucciso dal gatto
che si decompone nella terra del giardino

il silenzio cementa le malte dei muri
si stringe sui chiodi piantati
abiterà le stanze quando i nostri figli
saranno andati via

io e te quel silenzio
dovremo vuotarlo come un salvadanaio
per vedere se prima
lo avevamo riempito


Sez. quinta: Via Degli Orzoni (a mia madre, a mia sorella)

II.      Il nono anniversario


Le donne morte di parto diventano spiriti
Letovane, si chiamano così
di notte le puoi sentire lungo il fiume Stella
lavano i vestiti della famiglia che era loro
insomma aiutano per quanto
possono aiutare

perché mi viene in mente questa storia
della Bassa adesso

Stefania ci sono giorni in cui riesco quasi a non pensarti
non oggi
non oggi che nostra madre
ha chiesto di celebrare una messa per te
sicuramente ti ha anche portato dei fiori
non oggi che guardo il disordine in casa
il mucchio di biancheria sporca che trabocca dalla cesta
                                              e comincio a lavare



VI.     Anime salve


Dieci anni fa cambiavo i vestiti ai miei bambini
lavavo la loro nudità e lo sporco
prima di averli pensavo che mi avrebbe impressionato
e invece no

oggi faccio lo stesso con te
e quel pudore assoluto che ci ha sempre accompagnati
non esiste più, non c’è vergogna
in nessuno dei due

ho imparato prima ad essere padre
e solo dopo figlio
appena in tempo, mamma, ma ce l’ho fatta

adesso puoi andare


Sez. sesta: E poi, noi

II.      A te papà non racconto


di come da piccolo tu mi sembrassi invincibile
quando indossavi la divisa militare
quando stendevi le malte
quando sparavi con la carabina
e io sentivo che mi avresti protetto per sempre

di come crescendo le cose siano cambiate
e tu mi abbia prima trascurato e poi dimenticato
perché non ero il tipo di figlio che volevi

di come tu mi abbia fatto scavalcare
una rampa intera di scale con un unico calcio
avevo sbagliato ma la tua rabbia
non era soltanto contro di me

di come io poi ti abbia scoperto misero e meschino
di come fra le poche cose che mi hai insegnato
la più importante sia stata l’odio, quello vero

di come io fossi un adolescente presuntuoso
dunque convinto di avere sempre ragione

di come tu non mi abbia telefonato per più di vent’anni
e io ti chiamassi solo per le ricorrenze
dimenticandone qualcuna ma senza sentirmi in colpa

di come ormai ci siamo solo io e te
di come io sia ancora convinto che avevo ragione

di come adesso che sei vecchio tu abbia perso tutto il tuo potere
non sei più invincibile anzi
sei già vinto

di come mi guardi con gli occhi troppo trasparenti
di chi non ricorda più nulla
chiedendomi le cose importanti e quelle banali con lo stesso tono

di come non sono capace di perdonarti
ma almeno mi sforzo di dimenticare e spero che basti
ho aspettato per tanto tempo una possibile vendetta
che adesso non mi serve più

di come tu ora ti fidi unicamente di me

di come non so se questo sia il tuo modo di volermi bene
o soltanto aggrapparti a me perché ti sono necessario
se questo sia il mio modo di volerti bene
o soltanto accudirti per puro senso del dovere

di come sia inutile anche domandarselo
perché qualsiasi cosa sia dobbiamo tenerla stretta
è tutto quello che ci resta



Francesco Tomadaè nato a Udine nel 1966 e vive a Gorizia, dove insegna Biologia e Chimica nelle scuole superiori. Ha partecipato a letture ed incontri nazionali ed internazionali, così come a trasmissioni radiofoniche e televisive in Italia e all’estero. I suoi testi sono apparsi su numerose pubblicazioni, e sono stati tradotti in una decina di lingue straniere.
La sua prima raccolta, “L’infanzia vista da qui” (Sottomondo, 2005), ha vinto Premio Nazionale “Beppe Manfredi” per la migliore opera prima; la seconda raccolta, “A ogni cosa il suo nome” (Le Voci della Luna, 2008), ha ricevuto riconoscimenti in diversi concorsi a carattere nazionale. Ma i premi che non ha vinto sono molti di più.
Recentemente ha curato, per le Edizioni Biblioteca dell’Immagine, un’antologia sulla produzione letteraria della Provincia di Gorizia dal 1861 ad oggi.


Daniele Maria Pegorari, Il fazzoletto di Desdemona

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Questa mia recensione è uscita nel numero 286 de "l'immaginazione", marzo-aprile 2015 (Manni editore). 

Il titolo esatto del libro è Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da Umberto Eco ai TQ (Bompiani 2014) 


Pegorari è un raro intellettuale che ha fatto tesoro del disincanto vittoriniano laddove, nell’editoriale al primo numero del “Politecnico”, invita gli scrittori a occuparsi anche “di pane e lavoro”. Il fazzoletto di Desdemona, infatti, racconta la disfatta politico-economica italiana del XXI secolo e gli incalcolabili danni, sotto il profilo esistenziale e dei diritti di cittadinanza, delle fasce deboli, primi fra tutti i giovani salariati e il ceto medio. Questa realtà emerge attraverso l’analisi delle opere narrative (una quindicina, uscite fra il 2004 e il 2013) dei trenta-quarantenni, fautori di una rinascenza civile antiepica, da leggere sia come espressione autentica di una generazione senza futuro, consegnata alla precarizzazione professionale e identitaria, e sia come effetto dell’industria culturale, che, dagli anni sessanta, assorbe le spinte antagoniste per metabolizzarle nel mercato.

L’indagine sociologica e l’analisi letteraria sono i due fili che tessono il fazzoletto di questo giovane studioso, uno dei pochi accademici a seguire seriamente lo svolgersi della produzione estetica delle nuove generazioni, qui intersecata con le motivazioni socio-economiche e con il processo storico in atto, particolarmente colpito dalla crisi del 2008.

La domanda d’apertura mette subito in chiaro l’obiettivo del saggio: che ne è della letteratura in un’epoca di recessione? E, ancora più profondamente: che ne è della realtà nella fase postmoderna, laddove il moltiplicarsi delle agenzie culturali, l’evoluzione tecnologica e l’ipertrofia dell’informazione agiscono sui fenomeni, deformandoli, creando con ciò una “postrealtà” dentro la quale finzione e verità tendono a confondersi? Domande che Pegorari usa come grimaldelli per  smascherare la narrazione capitalistica e la falsa liberazione annunciata della new economy, quel discorso totale di una globalizzazione del mercato che è racconto senza alternative, “ordine unico del mondo”. Tesi che trova un riscontro filosofico nel recente libro di Diego Fusaro, Minima mercatalia (Bompiani), e dalla quale forse è possibile ripartire per un discorso sul postmoderno che non sia una resa al labirinto costruito dal mercato, bensì una via per ripensare le categorie fondamentali (soggetto, oggetto, relazione, verità, realtà) dopo che la modernità liberal-capitalista le ha svuotate di ogni relazione con il finito.

Lo sganciamento dalle coordinate spazio-temporali ordinarie, con il suo carico fecondo di futuro, ha trovato nei giovani scrittori una necessità esistenziale prima che stilistica e/o ideologica: ce lo racconta bene Pegorari analizzando, nel primo capitolo del libro, i romanzi sul lavoro, dando particolare spazio a Michela Murgia, Silvia Avallone e Mario Desiati, senza trascurare la poesia operaia, dove emerge, per completezza e sensibilità, Fabio Franzin.

Il secondo capitolo mette al centro il ‘libro’, come prodotto mercantile e quale risultato ultimo di una filiera di una manovalanza intellettuale, chiamata da qualche anno “cognitariato” (traduttori, operatori culturali, insegnanti, redattori ecc.). La crisi dell’editoria, ci spiega l’autore fornendoci un dettagliato resoconto statistico, poggia sulla svalutazione della cultura umanistica, vero volano della democrazia, in quanto capace d’insegnare il pensiero critico e il confronto non belligerante. È evidente la motivazione civile del Fazzoletto di Desdemona, che peraltro esiste solo come ebook, a riprova delle critiche dinamiche di trasformazione dell’attuale editoria.

Il terzo e ultimo capitolo sintetizza e approfondisce le acquisizioni teoriche precedenti, prendendo spunto dall’Opera di Umberto Eco, considerato il miglior fabbro e al tempo stesso studioso acerrimo del “capitalismo informazionale”, ossia di quell’ente capace di riformulare l’orizzonte di senso a partire dalla fabulazione onanistica del reale. Questa scelta è particolarmente interessante, nella misura in cui Eco incarna, con Calvino, una certa idea di postmoderno che non si lascia trascinare dall’equivoco per il quale, essendo tutto interpretabile all’infinito, la realtà si dissolve: c’è un punto solido, infatti, un nodo al fondo di ogni fatto che resiste al suo dissolvimento (ne parla anche Maurizio Ferraris sin da Ricostruire la Decostruzione). Ne consegue che l’Opera dell’Alessandrino, analizzata con grande maestria e ammirazione da Pegorari, lungi dal fare propri i tic del postmodernismo più à la page, giunge al cuore delle debolezze postreali contemporanee, tentando una ricomposizione della totalità, di “un principio d’ordine conoscitivo” per quanto impossibile; un tentativo via via segnato, in Eco, da un crescente pessimismo nei confronti dei poteri costituiti, primi fra tutti quelli legati alla retorica politica e mediatica, capaci ormai di un racconto totalmente menzoniero eppure convincente, come accade appunto ne Il cimitero di Praga in cui si racconta la nascita dei cosiddetti Procolli dei savi di Sion, presupposti teorici falsi della purtroppo realissima Shoah.

Chiudendo il cerchio, Il fazzoletto di Desdemona ritorna al fondamento civile che ispira il lavoro del suo autore: se infatti, nella prima parte, la falsificazione diventata realtà si mostra nel tessuto sociale, attraverso alcuni romanzi, non tutti straordinari, della giovane letteratura italiana, l’ultimo capitolo ci conduce per mano dentro il labirinto rizomatico di Eco, in cui il disvelamento infinito della verità dentro la menzogna (e viceversa) costituisce l’approccio della demagogia contemporanea, raccontato in sei romanzi esemplari; uno studio, questo di Pegorari al semiologo, che è anche un invito a riconoscere la sua qualità creativa, troppo spesso liquidata come il lavoro di un intellettuale erudito in prestito alla fiction.





Gorizia, Piovene, Milano, Mantova

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Alcune prossime occasioni dove incontrarci


Venerdì 24 aprile 2015 - ore 20.45

wine café AL CANTUCCIO
via Marconi, corte S.Ilario, Gorizia
incontro con Stefano Guglielmin
per la presentazione della sua raccolta poetica
Maybe it’s raining. Poems 1985-2014 (Chelsea Editions)

a cura di Francesco Tomada

e letture di
Andrea Tomasin

musica di
Mauro Radigna, chitarra

espone il pittore
Stefano Marchi



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Sabato 9 maggio ore 14,30
(ritrovo presso la Birreria Vecchia di Piovene Rocchette)

Il bosco, tra disvelamento e labirinto
Percorso sui sentieri del Monte Summano
(a cura della Biblioteca civica di Piovene)

Si tratta di una passeggiata che incontrerà alcune declinazioni filosofiche e letterarie del bosco, scelte, lette e commentate da Stefano Guglielmin e accompagnate dalla musica di Giuseppe Dal Bianco.

Presenta Armando Bertollo



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Martedì 12 maggio 2015
Ore 18,00

AttraversaMenti( a cura di Adam Vaccaro e “Milanocosa”)
Presso La Casa dei Diritti (Via De Amicis, 10 – Milano)


Incontro con gli Autori di Chelsea Editions, New York
Cristina Annino, Stefano Guglielmin, Adam Vaccaro

Con contributi di Maurizio Cucchi e Vincenzo Guarracino



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Sabato 23 maggio
 Cortile Casa del Mantegna (via Acerbi, Mantova)

Festival internazionale di Poesia Virgilio 2015

Dalle 16,15 leggeranno: Gabriele Gabbia, Rosa Pierno, Giorgio Bonacini, Domenico Brancale, Mauro Caselli, Stefano Guglielmin


Per ulteriori informazioni, leggere qui

Fernando Lena

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foto di Anna Maria Scala


Dell’ospedale psichiatrico criminale di Aversa scrive Antonio Porta in una poesia non bella del 1978. E ora ce lo racconta Fernando Lena in un poemetto che porta il suo nome (ma che raccoglie, oltre a tre poesie autonome, 30 liriche della raccolta inedita La quiete dei respiri fondati), edito da Puntoacapo nel 2014 entro il progetto “I quaderni dell’Ussaro” curati da Valeria Serofilli (di “quaderni” ne sono finora usciti 18).

Nelle nota d’apertura, l’autore siciliano non nasconde niente di sé: un anno di disintossicazione da eroina passato in un padiglione contiguo ai detenuti, tra il 1991-92. Vent’anni per metabolizzare quell’esperienza e, immagino, per rifarsi una vita.

Lo sfondo morale in cui queste poesie sono nate emerge sin da subito: c’è l’emarginazione, che è un mondo parallelo a quello dei viventi integrati, spesso indifferenti al dolore dei folli o di chi ha fatto scelte sbagliate; e c’è la mancanza di libertà, in un mondo che vorrebbe in quest’ultima il fondamento della democrazia. Entro queste coordinate, condivisibili, Fernando Lena racconta la vita della cittadella manicomiale, dove non è il futuro a spaventare, “ma la dignità di un fiore / che cresce / nella giungla del piscio”. Un sentire forte, fratello delle liriche di Alda Merini in Terra santa, e un’ulteriore denuncia dell’assurdità di questi istituti ancora attivi (pare che ci sia un migliaio di detenuti nei sei manicomi criminali della penisola), ma soprattutto un racconto di sé, come “vittima e germoglio”, in un sentire comune agli internati, dei quali traccia una decina di intensi e dolenti ritratti, tutti rigorosamente in corsivo, a distinguerli dalla propria biografia, per rispetto e complicità. L’intenzione comunicativa, di un crudo racconto testimoniale, domina la scena, impastata con un sentire di radice ermetica, dove nulla, silenzio e abisso fanno ogni tanto capolino, certo con pertinenza, visto il clima da trincea, da infezione e immobilità che si respira. A fianco dei ritratti, quasi tutti ben riusciti, mi piacciono la poesia d’apertura, “Manicomio di Aversa”, il cui incipit crepuscolare “Sono le 22 di una sera d’ottobre un po’ gelida” (Marino Moretti: “Piove, è mercoledì, sono a Cesena”) promette un racconto pieno di cose poco illuminate ma fondanti, e mi piace la poesia di pag.22, con il suo immaginario drammatico (“nei tuoi modi cementati / ho visto più volte / la gentilezza / di un baratro” e: “saggio come la voce / dei citofoni / durante un’eclisse”); due esempi che portano con sé, soprattutto il primo, anche il limite stilistico di alcune liriche del libro: un versificare modulato su a-capo prevedibili, subordinati alla scansione sintattica e alla necessità di concludere la comunicazione, di restare aderente al fatto crudo, a costo di piegare desiderio e verve immaginativa. Salvatore Lena tuttavia non organizza mai un’intera lirica su questo modello, su questa urgenza descrittiva, ma la spezza, complicando il racconto con metafore sorprendenti e mai innocue; tre esempi: “la luna che piscia penombre”, “la puzza dei sogni”, “ti lascia / coagulare la paura / in un’enorme ferita”.  In questo libro è appunto la ferita non ancora rimarginata a parlare, che non è soltanto l’effetto di un’esperienza drammatica, bensì riguarda l’esistenza di tutti nel suo darsi, quella che tiene parola e corpo in una reciproca invalicabile distanza, che divide la lingua in confessione e grido, e il corpo in memoria e desiderio, tra libertà e abisso, come scrive nella poesia XVI.




   Da La Quiete Dei Respiri Fondati


I

siete il nulla
sotto il sole apatico
di questa trincea.
Chiusi come bestie
ogni giorno
ascoltate i passi
per capire dov'è
l'inizio dell'abisso.
a volte e'una certezza
essere domati dalla follia
o solo un incubo
che vi abbraccia
con camicie interdette
stritolandovi di silenzio.




III


Intina da almeno cinquant'anni
vive intrappolata
nella coscienza di una bambina.
Tutto il giorno
vaga tra i padiglioni
abbracciando una bambola
come se fosse l'unica erede
della sua estraneità…
la domenica pranza con noi
esile come una creatura innocente
si ciba  d'incanto…
parola dopo parola
diventa sempre più libera
di  abitare il suo poema apatico
ma pieno di bambole e silenzi
che pettinano l'ira impavida
dei suoi coinquilini…
la sua follia ha una logica
che la proietta nella libertà:
ha scelto di non essere donna
per contenere l'odore infernale
                                           degli uomini.


                                            

VIII


La  chiesetta accenna
un do di campane
però non è domenica
quindi è solo
un altro funerale…
qui si muore e si vive
con un tempo indifferente
solo qualche lacrima
per  un improvviso
mutamento cosmico
arriva dal cielo…
Passano una mano sull'oblio
i pochi amici rimasti
finalmente è libero
il demone… libero
di giocare con l'immenso
e di scegliere
una camicia più comoda
un po' più alata
come quella di un angelo.




X


Cercano di fermare l'oblio
ma non è semplice:
ieri un altro suicidio
si è aggiunto
nel libro dell'inferno…
Peppino ha ingoiato un bullone
affermando la sua vocazione
di   cadavere incatenato
tra lo spirito e l'impulso
di un cannibale…
era la spalla di Don Celeste
tutte le domeniche
serviva messa
con  lo sguardo di chi
attende da sempre un miracolo…
Teatralmente era perfetto:
come un angelo del caos
adombrava d'imprevedibilità
                                             ogni eucarestia.




XII


Nessuno pensa che Cecilia
possa davvero innamorarsi
di un ex tossico come me…
Dal buio irrompe
con una vestaglia bianca
per cercare un secondo
del mio respiro… forse
le basta per non soffocare
nel suo solito
pensiero di suicida.
Una come lei
se ha una certezza
e' quella di essere primordiale
come una Eva bandita dal paradiso
                                                  per aver tradito.

Inseguire a tutti i costi
l'amore immorale
è stata una caccia al dolore.
Nessuno pensa
che con la sua bellezza
possa ancora ammansire
le belve dell'inquietudine
mentre il suo  sguardo
cerca nel mio
la complicità di una favola.




XVI


Fedele tutte  le mattine
un topo si gode
la sua boccata d'aria
poi sparisce verso
la puzza dei sogni
-io posso osservarlo
ma non osservare me
nella fatica che metto
durante il via vai
tra la libertà
e l'abisso…
amo questa morte
millimetrata
perche' non disperde
il gelo dei carnefici -




XXI


Paolino arriva eccitato
indossa la solita tuta
di due taglie in meno.
Gioca da portiere,
ama il calcio in modo struggente…
Ogni tanto in infermeria
gli lasciano vedere qualche partita
non appena il suo Diego
(Armando Maradona)
aleggia sul prato
come un danzatore
lui inizia a lacrimare.
Vederlo contrastare
la sfera di cuoio
traccia un sorriso
sull'apatia dei farmaci
che lo vorrebbero immobile
davanti a una morte
                                che lo stuzzica…

Sorprende lo slancio che mette
nel chiedere alla felicità
quello che gli altri
calpestano da sempre:
un po' d'erba,qualche palo
uno sguardo che delimita
90 minuti di libertà




XXII


quasi per gioco  il vuoto
ha prosciugato la vena.
Una cintura, il sangue strozzato,
il buio nel mistero delle  pupille
niente di più urgente abbiamo chiesto;
volevamo il mondo
iniettandolo nella discarica della
                                                     coscienza

grammo dopo grammo poi la morte
si e' rivelata una cifra
di respiri spacciati.




XXIX


stanotte rivedo le tue mani
che inconsapevolmente
mi porgono un po' di morte
- il tuo denaro
e' solo per arginare
il caos dei miei globuli
almeno così credi
mentre l'adolescenza
accede nell'aria
come un volo di farfalle
                                predestinate-

Forse ho solo amato
il ciclo terminale  di un miraggio.


Fernando Lena (1969) è nato a Comiso (Sicilia) dove attualmente vive e lavora. Si è diplomato all'istituto statale d'arte e per anni ha  fatto il creatore di gioielli presso Valenza Po' (Alessandria). Il suo primo libro risale al 1996 dal titolo "E vola via" edito da Libro Italiano poi dopo alcuni anni di silenzio ha pubblicato prima una breve silloge ispirata a otto tele del pittore Piero Guccione (archilibri edizione) e poi un  libro più corposo dal titolo "Nel Rigore Di Una Memoria Infetta" sempre edito dalla Archilibri di COmiso. Costellato ancora da periodi di silenzio dopo esattamente 10 anni ha pubblicato l'ultimo libro un poemetto edito nella collana i Quaderni Dell'Ussero (Puntoacapo editrice ,anno 2014)dal titolo "la Quiete Dei Respiri Fondati". Le sue poesie sono presenti in diversi blog, è stato anche finalista in premi come:Tivoli Europa Giovani,Vola Alta La  Parola (premio Luzi), Astrolabio,Torre Dell'Orologio ecc. Frequenta spesso reading sforzandosi di portare i versi dove l'indifferenza poetica  urla a gran voce.


Modernità e lotta armata

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La modernità si strutturò attraverso tre rivoluzioni: inglese, americana e francese. Sotto questo profilo, è intrinseca alla modernità diveniente una teoria e una pratica della lotta armata quale soluzione decisiva di una crisi di sistema sotto il segno della discontinuità. Il fascismo, per esempio, risolve con la violenza istituzionalizzata la crisi della rappresentanza liberale dopo la prima guerra mondiale; la lotta partigiana, capovolgendone gli assunti valoriali, impone un modello liberale dove la democrazia garantisce, meglio che nel fascismo, il libero sviluppo del capitale, la libera circolazione delle merci e una migliore distribuzione del reddito, tali da rendere possibile una nuova società, che ha al centro la spinta verso l’uguaglianza dei diritti ma anche della possibilità di consumare beni. Non che il partigiano Johnny avesse questo progetto, ma involontariamente gli ha spianato la strada.

In controcanto, da Marx a Bordiga, da Lenin a Gramsci una teoria della lotta armata di stampo anti-capitalista non è mai venuta meno, indirizzata a un gruppo ben preciso della società; gruppo che, in Italia, ha occupato le fabbriche, è morto in trincea, è salito in montagna contro il nazifascismo, ha scioperato negli anni democristiani, ha preso posizione contro il terrorismo degli anni settanta, ha sostenuto il PIL pagando le tasse e che ora, disgustato della classe dirigente – specialmente nel nord-Italia, e in compagnia del ceto impiegatizio – elabora una lotta armata reazionaria, fatta augurando il naufragio ai migranti e sparando ai ladri di biciclette, ma anche desiderando l’olocausto dei politici tutti, un gran fuoco liberatorio, che rivela molto delle radici magiche che animano le loro coscienze. Dal progetto che vedeva la coscienza di classe quale condizione fondante della lotta, i soggetti rivoluzionari sono diventati figure spaventate, chiuse nei loro fortini identitari e di proprietà. Una ragione ce l’hanno: di fatto, in Italia la scollatura fra classe dirigente e cittadini operosi è chiara; una crisi che la maggioranza passiva del popolo italiano vorrebbe risolta risolva non più in termini di nuovo ceto dirigente, come fu nel passato (autoritario nel fascismo, democratico nella Resistenza), ma in nome degli onesti contro i disonesti: una categoria impolitica, e quindi inadeguata, che però ideologicamente funziona, come ha ben capito il presidente del consiglio Renzi, che ora la cavalca con un populismo venato di autoritarismo post-ideologico. Chiaro che l’antagonismo fra onesti e disonesti non riuscirà mai a diventare frontale, ossia a incarnare la fisiologia conflittuale del moderno, perché le due categorie non sono che semplificazioni sociologiche, oltre che modi d’essere del medesimo homo economicus, che agisce per difendere la stessa coperta corta dei nemici. In questo gioco di ruoli, spesso l’onesto è tale per paura o per mancanza d’occasione. A dividerli è un margine sottile, osmotico, inadeguato a fondare un conflitto dove il tempo del guadagno dovrebbe essere sacrificato al tempo della lotta. Rimangono allora la rabbia e la frustrazione da sfogare al bar e in famiglia. Una violenza privata, fisica e verbale, che si scarica sui più deboli: figli, donne, emarginati.

Non è tuttavia pensabile nemmeno un conflitto di classe che dia un nuovo assetto al reale, sia perché “classe” è un concetto utile ma non sufficiente a comprendere la complessità socio-economica di un tessuto sociale e sia perché, semmai un ente come il proletariato fosse storicamente quantificabile, descrivibile senza ambiguità, storicamente la classe operaia non si è mai emancipata in quanto soggetto rivoluzionario, nemmeno dopo la mondializzazione del capitalismo; anzi, nel terzo mondo sta vivendo uno sfruttamento mai prima realizzato e in occidente è in gran parte omologata al sistema valoriale dominante. Per non dire degli effetti storici delle cosiddette rivoluzioni “proletarie”: non c’è Stato comunista che non abbia piegato le singolarità a un progetto dove le uniche a potersi pensare nella pienezza dell’esistenza (ma come dei privilegiati sotto assedio) sono state le gerarchie dell’apparato; a tutti gli altri è spettato il sacrificio di sé e l’obbedienza, nel nome della rivoluzione da conservare. Una teologia del valore (la rivoluzione) tiranna rispetto alle singolarità (che qui non significa individui borghesi dominati dall’avidità di possesso, bensì esistenze co-appartenenti al tessuto relazionale, enti essenzialmente sociali e dialogici). Oltretutto, nel presente italiano non c’è una progetto rivoluzionario in corso di questo tipo. C’è piuttosto un’attesa, un agire culturale per una transizione rivoluzionaria, dialetticamente convinti che, come scrive “n+1”, la rivista della sinistra internazionalista italiana, il comunismo sia un processo già in atto, un’antitesi in formazione, che darà infine vita allo scontro decisivo per la vittoria sul capitalismo. Nel frattempo, la sua preoccupazione non è organizzare la classe operaia, ma, al contrario, evitare qualsiasi “forma organizzativa finora espressa dalle società classiste” (partito, sindacato, movimento ecc.). Una preoccupazione formale, appunto, in attesa della catastrofe rivoluzionaria, basata sulla fiducia che il capitalistismo la stia preparando e che al partito spetti la guida conclusiva del processo. Al momento, dunque, la lotta armata della sinistra rivoluzionaria non costituisce una forza reale in gioco per la realizzazione della discontinuità storica. Non è prevista.

E l’antagonismo anarchico? La pratica dell’attentato, del sabotaggio, della destabilizzazione permanente con attacchi mirati a obiettivi sensibili, attraversa gli ultimi due secoli, ma nei momenti del cambiamento decisivo (prima e seconda guerra mondiale, guerra di Spagna, fascismo, Resistenza) l’anarchico ha dovuto diventare partecipativo, collaborando con gli altri partiti a cacciare il vecchio per fondare il nuovo. Un nuovo, dal suo punto di vista, sempre inadeguato perché, nella modernità, agito entro il paradigma della legalità di Stato, del contratto sociale, e quindi dall’anarchico vissuto come costrittivo, a-libertario e ingiusto, come nemico da combattere.

L’interessante di questa posizione consiste nel fatto che è l’unica forma di lotta armata presente in Occidente; l’altra lotta, questa volta per l’autoconservazione, la combatte la classe dominante delle singole nazioni, con un ideologismo esasperato e con i ricatti contro la forza-lavoro. Questo significa che oggi in occidente – se si esclude il terrorismo integralista islamico, ma che ha i connotati premoderni di guerra di religione e di conflitto tribale – ci sono due forme di lotta politica, una armata contro i beni e i simboli del capitalismo (banche, grandi infrastrutture ecc.), l’altra, agita dal grande Capitale, giocata nel ricatto e nel controllo delle coscienze (vero, per esempio, che la teatralizzazione mass-mediatica dei fatti incendiari recenti, probabilmente facilitati dalle forze dell’ordine, ha catalizzato il dissenso verso i contestatori violenti anche di chi vive un disagio sociale pari al loro). E questo non è un fatto straordinario, bensì, appunto, appartiene alla fisiologia del moderno, che pensa al cambiamento come la risultante di un conflitto, dove chi vince decide le regole del gioco in nome della legalità. Ciò è vero anche per le posizioni riformiste, che spostano il conflitto fisico nello spazio simbolico del Parlamento (simbolico non sempre, come abbiamo visto soprattutto nella seconda republica) o con manifestazioni di piazza pacifiche, secondo il principio, moderno, del ‘contesto ma rispetto le regole comuni perché credo nella democrazia’.  

Se l’antagonismo anarchico è inefficace a rifondare il presente con un nuovo paradigma, proprio per la sua natura utopica, costantemente insoddisfatta dell’ordine costituito, il riformismo agisce su tempi lunghi, fuori dai ritmi e dai bisogni del biologico, e quindi funziona in tempo di pace (per esempio nell’età giolittiana o con De Gasperi), ma non durante la fase acuta della crisi di un sistema, dove le spinte centripete dovute ai bisogni insoddisfatti cercano un catalizzatore che le coalizzi contro il nemico tiranno (così successe quando l’ancien regime fu scardinato dalla rivoluzione del 1789 e nella Resistenza).

Entro questo scenario, di conflitto reale ma improduttivo, dove l’ideologismo spinto del Capitale sposta il nemico sui soggetti deboli (migranti, antagonisti, nomadi, emarginati) facendone dei capri espiatori da dare in pasto agli onesti (e ai disonesti, che li sfruttano in diversi modi), e il movimentismo pacifista, ecologista ecc., riconoscendo i confini entro cui gli è consentito di muoversi, non minaccia gli interessi del Capitale (al massimo lo convince a riconvertire la produzione in beni “sostenibili”), mi pare ci siano almeno due questioni da approfondire. La prima è che manca una teoria della lotta armata sganciata dai paradigmi precedenti (fascista, comunista e anarchico), una lotta che, entro le dinamiche del capitalismo avanzato, ridefinisca i soggetti in causa e i fini per i quali combattere, una teoria capace di una parola d’ordine efficace nell’immediato, in grado di chiudere temporaneamente il conflitto fra le parti, ma che riprodurrebbe le dinamiche violente e parzialmente incontrollabili delle precedenti rivoluzioni moderne.

La seconda questione, che mi interessa di più, è: se la modernità è giunta alla fine, è possibile anche pensare a una teoria del cambiamento radicale che non preveda un conflitto armato? Una teoria che ridiscuta le categorie politico-economiche e lo stesso processo storico non più in termini dialettici o di inevitabile progresso? Una teoria che adotti la complessità pluridisciplinare come elemento per ripensare il capitalismo, non più inteso come destino ineluttabile o necessario passaggio a una società senza classi? Di questo sento la mancanza oggi: di un pensiero politico e di una filosofia della storia che felicemente mi spiazzino, capaci di portarci fuori dal modello conflittuale, di portarci fuori dal moderno, insomma, dalla visione e dalla pratica della violenza progettuale quale risoluzione delle crisi politico-economiche. L’alternativa è il perdurare di un capitalismo che si erge a principio ontologico a cui si contrappone una lotta violenta ormai esangue o una resistenza pacifista, di massa ed eterogenea, lodevole nelle intenzioni e unita contro il nemico, ma in disaccordo rispetto alla progettualità politica, per l’eterogeneità socio-economica della base (vedi le divisioni interne a “Podemos”, il secondo partito spagnolo, nato dalle ceneri degli indignados). E intanto, fuori dal malato recinto occidentale, il terzo mondo preme per adottare la modernità quale riscatto dalla miseria (con il grandissimo problema delle limitate risorse disponibili) o, peggio, in area integralista, per sconfiggerla attraverso la guerra santa, che ci vorrebbe in uno stato di sudditanza totale e senza memoria, in obbedienza a un ordine metafisico custodito da sacerdoti talebani, medioevali nella concezione politica e disumani rispetto ai saperi che la contemporaneità ci ha messo a disposizione.


Compagno poeta (Giulio Stocchi)

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In Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita  Felice, 2009), scrivevo: “Un libro poco noto, ma che riflette il malessere protrattosi fino alla metà degli anni Settanta in seguito alla linea di lotta inaugurata dai militanti-scrittori del PCI, è Compagno poeta (Einaudi, 1980), di Giulio Stocchi. L’autore trovò il suo pubblico in fabbrica, alle assemblee degli operai, intervenendovi da cantore della rivoluzione imminente, come un Majakovskij lombardo che avvertisse l’urgenza d’essere presente là dove la storia accade. Fuori dalla consueta retorica di programma, egli mostra lo smarrimento di chi avverte sulla propria pelle il disagio dell’intellettuale moderno, consapevole di essere solo davanti a un gruppo compatto di uomini, estranei alla scrittura e che non conoscono «i dubbi, le difficoltà, i ripensamenti» che hanno travagliato l'organizzazione dei versi”.

Giulio invia ora ad alcuni amici questa pagina del libro, che pubblico volentieri su Blanc.


Ogni volta che torna aprile

Ogni volta che torna aprile, e Milano si mette al bello, col vento che pare stringerla in vita per portarsela via, è sempre la stessa rabbia di quei giorni che mi prende alla gola.
Entravano in piazza. Gli striscioni ormai li avevano arrotolati. Per tutto il pomeriggio, davanti al Comune, avevano gridato che la casa è un diritto. Ma adesso non sapevano nulla che non fosse il vento, l'aria tersa del tramonto, e quel profumo che stordiva. Poi i colpi. Uno, due, brevi, secchi. Per Claudio Varalli, la primavera finiva così, a sedici anni. Col viso solo un po' stupito. I fascisti erano già scappati. Verso la Questura.
Il giorno dopo c'eravamo tutti. Scendevamo per corso di Porta Vittoria, in un silenzio strano. Di tanto in tanto, una voce: "Almirante", e il corteo dietro, per quanto era lungo, "Assassino", rispondeva. Sapevamo dove andare. Per anni, da via Mancini, dov'è la sede dell'Msi, erano usciti con catene, con coltelli, con pistole. Sapevamo anche che non ci avrebbero fatto arrivare fin là. Ma eravamo in tanti. E la fotografia di quel ragazzo sull'asfalto era negli occhi di tutti. Di cordone in cordone, poi, rimbalzava una notizia. Si diceva che ne avessero ammazzato un altro, a Torino. Uno di Lotta continua. Tonino Micciché.
E così continuavamo ad andare. Molti col fazzoletto sul viso. Altri coi tascapane gonfi di sassi. Ma tutti con quella decisione dura che sentivi anche da come ti si stringeva al braccio il compagno accanto. Non si vedeva un poliziotto.
Poi, d'improvviso, dove il corso si slarga in una piazza, quando già eravamo entrati per metà, e gli altri premevano dietro, le sirene, e una gran nuvola di fumo. C'è appena il tempo di chiedersi che cosa stia succedendo, che da tutto quel disastro, come impazziti, sbucano i camion dei carabinieri. Salgono sul marciapiede. Puntano diritto sulla gente.
I sassi, ormai, non servivano più.
Dopo un lungo giro per evitare i posti di blocco, salgo su un autobus. In un angolo, e questo non lo dimentico più, c'era un compagno, appoggiato al finestrino. E' Tumminelli. E' grande e grosso, Tumminelli. E così, davanti a tutti, piange. Mi dice di Giannino, di come l'abbiano massacrato le ruote, che lui era là, che non gli si riconosceva nemmeno più la faccia, e pensa che solo ieri al baretto scherzavamo insieme, e tutti gli volevano bene, non era giusto morire così, perché era tanto buono, Giannino, sì, Giannino Zibecchi.
La zona era ancora piena di fumo. A terra, una maglietta. Insanguinata. I compagni arrivavano ad uno ad uno, fin contro quel quadrato di scudi, di elmi, di fucili. Buttavano un fiore. In silenzio, come una promessa cupa. E se ne andavano. Intorno, i carabinieri si indicavano il luogo dello scempio. Ridevano.
C'eravamo divisi in due gruppi. Uno a far presidio sull'angolo di Giannino, in XXII Marzo, e noi sotto i portici di piazza Cavour, vicino a Claudio. La sera prima, tornando a casa, la radio aveva aggiunto un altro nome all'elenco. Rodolfo Boschi, a Firenze. Davamo via dei volantini. Oh certo, la gente li prendeva. Un'occhiata distratta, e andava al cinema. Come se non fosse successo niente.
Passa Toscano (1), con quella sua aria leggermente ironica e la giacca di sempre buttata sulle spalle, e mi fa: "Come va il poema, Giulio?" Ecco, penso che questa sia stata la molla. Quelle parole. O meglio, per come stridevano, quelle parole, con tutto ciò che mi stava intorno: i visi stravolti di stanchezza, le voci arrochite, le mani che avrebbero voluto strappare in pezzi anche la notte, e quei volantini, quei volantini che non riuscivano neppure a sfiorare le labbra dell'indifferenza.
Il poema... Già, mi conoscevano come il poeta, i compagni. Me lo dicevano così, tra lo scherzo e l'affetto. Ognuno era al corrente del mio piccolo segreto. Del mio vizio. Il poema... E rivedevo la mia stanza, tutte quelle notti dalla gola bruciata dal fumo, il ticchettio della macchina da scrivere, la felicità del mattino dopo, le pagine che negli anni avevano fatto mucchio. E solo Carole, la mia compagna d'allora, e pochi amici, qualche volta, seduti in cerchio ad ascoltarlo, il poema.
Perché avevo paura di mettermi in gioco, di espormi forse a un rifiuto, di andare dai compagni e dire: "Ecco, io sono qui, questa è la mia vita, il mio modo di lottare e di esservi accanto. Giudicateli voi". E invece no: tenevo tutto per me. Era il mio rifugio il poema. La tana che m'ero scavato, l'orgoglio di sentirmi diverso. Io, il poeta.
E mentre tutto questo, in un lampo, m'attraversava la mente, "Bene, - rispondo. - Va bene il poema". E poi, senza pensarci: "Una volta o l'altra ci si vede, così ne parliamo".
Il giorno dei funerali di Giannino, i Navigli brulicavano di gente, di bandiere, di striscioni. E tanti fiori. Li portavano, davanti a tutti, delle compagne. Giovanissime. Un canto sommesso rompeva appena lo scalpiccio dei passi. Era una giornata meravigliosa. Troppo, per dirsi addio. E ognuno quel contrasto l'avvertiva con un dolore sordo che cresceva dentro e saliva fino alle labbra. In un grido. Era come un'onda. Percorreva tutta quella fiumana, si spezzava d'improvviso, lo risentivi lontano, quasi venisse da un altro mondo, tornava ingrossandosi, t'afferrava di nuovo, ed eri lì a ripeterlo con tutta la vita che urlava, "Ora e sempre resistenza".
Voleva dire tante cose quel grido. Era un ponte gettato alla città. "Guardateci, - voleva dire, - guardateci bene in faccia. Vedete? Siamo noi, gli estremisti. No, non voltate la testa, - voleva dire, - guardatele quelle ragazzine dei fiori, quei visi chiari, guardate cosa c'è dentro quegli occhi. Eccoli, i teppisti, i provocatori, i delinquenti". "Ma non capite, - voleva dire, - non capite che non c'è niente da far luce? Che questi morti sono una catena che viene giù da Piazza Fontana? E da prima, da Avola, da Battipaglia? E da prima ancora, da Melissa, da Portella della Ginestra? E che tutto questo ha un nome?""Scuotetevi dal torpore", voleva dire. Ma anche, voleva dire, che stessero bene in guardia quelli dei palazzi, delle croci, del saccheggio, e i loro sicari d'ogni specie, perché non sarebbero riusciti ad ammazzarci tutti; e che noi, i teppisti, i provocatori, i delinquenti, contro tutta quella morte avremmo sempre fatto muro.
Questo voleva dire. E la bara navigava per la sua città, sollevata fino al cielo da quella disperazione di pugni chiusi. Scendeva di strada in strada verso il Duomo, si fermava per un attimo ai crocicchi, riprendeva ondeggiando sui viali, attraversava i quartieri dei panni di ringhiera e quelli eleganti degli uffici. Milano le parlava, come parla una città. Si chinava a carezzarla coi rami dei tigli, si scuoteva dalle pietre dei selciati, abbassava gli occhi di pietà con le serrande dei negozi. Prometteva di non dimenticare. Poi tratteneva il respiro. E si tornava a udire solo il fruscio del vento, lo scalpiccio dei passi. E quel grido.
Ma non era solo il corpo straziato di Giannino che vedevo passare per le strade. In quei ragazzi che camminavano perdutamente stretti, nei loro occhi segnati d'ombra, e nella sfida tuttavia variopinta dei vestiti, era come se mi sfilassero davanti i sogni, la fantasia, l'amore, le speranze di quegli anni. Erano le sere attorno a una chitarra, le discussioni febbrili, le assemblee piene di fumo, le vigilie di manifestazione, i letti felici, la scommessa dei corpi abbracciati, le cene messe su con niente, lo scavo ansioso del futuro, la voglia di capire, il bisogno di trovare finalmente un confine al grigio, la ricchezza nuda delle nostre mani. Tutto questo vedevo passare in corteo. Ed era tutto ciò di cui s'era nutrita la mia poesia in quegli anni.
Allora capivo perché la domanda di Toscano m'avesse tanto colpito, lasciandomi con un turbine di pensieri e risvegliando un'eco strana, un bisogno nuovo di dire. "Come va il poema, Giulio?", sussurrato nel clima spettrale di piazza Cavour, e così apparentemente fuori luogo, significava solo quello che stavo vedendo in quel momento, mi indicava semplicemente dov'era e in che direzione dovesse andare la mia poesia. Era come quando uno squarcio di luce ti mostra due cose che sono sempre state vicine: tu in fondo lo sapevi, eppure ci voleva quel lampo per riconoscerle.
Anche quel grido tornava a parlare, e questa volta solo a me. Sfilava il corteo, e mi diceva che bastava un passo per immergermi m quella corrente, per unire la mia alla voce di tutti. Mi diceva di quanto misere, di quanto piccole fossero le mie paure, e smisurato il loro abisso d'orgoglio.
Perché ciò che credevo fosse solo mio, e prendesse forma nel chiuso della mia stanza, nel cerchio dei miei sogni, nella solitudine più segreta dei bicchieri, in realtà nasceva ed era nato li. E li doveva tornare: nelle strade, accanto ai compagni, durante la lotta, perché ogni parola, nell'infinita varietà dei volti, dei gesti, dei sogni, delle speranze di quegli uomini, ritrovasse le sue radici e la sua ragione, la pienezza riconquistata del proprio destino.
E così, mentre il corteo continuava ad andare, e le vecchine si segnavano, io buttavo su un foglio le parole rabbiose che dalla notte del presidio mi battevano alle tempie.
La sera dopo, all'Università, nell'aula magna che ancora risuonava della rivolta dissonante delle note di Liguori, salivo sul palco a urlare quelle parole.
Era il 21 aprile 1975. Avevo cominciato.


1 - Uno dei leader del Movimento studentesco milanese

Benoît Conort

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Ci sono diverse ragioni per far conoscere in Italia Per un’isola futura (CFR, 2015), del poeta francese Benoît Conort. La prima è la vicinanza con il simbolismo, quindi con un modo d’intendere il legame fra parola e mondo affine alla sensibilità italiana dell’ultimo secolo. La seconda riguarda l’editore, l’amico scomparso Gian Mario Lucini, che ebbe il coraggio di aprire “Odisseo”, una collana in CFR “di traduzioni da lingue nazionali e regionali”, una sfida entro la crisi endemica della piccola editoria, in specie poetica, in linea con il carattere antagonista del valtellinese e con la sua vita di migrante (lavorò in Svizzera, a Bolzano, a Piateda, dove risiedeva e, per molti anni, frequentò l’associazione “Libera”, in Calabria). La terza ragione va cercata in Fabrizio Bianchi, direttore delle Edizioni Dot.com press che, con professionalità, sta traghettando le Edizioni CFR verso un futuro sul quale non soltanto lui scommette. La quarta ragione riguarda il traduttore, Salvatore Violante, napoletano combattivo e poeta, che, nella propria opera, coniuga le neuroscienze con l’impegno civile, fermezza della visione con la consapevolezza di vivere in “un tempo desertico” che tuttavia si può raccontare, come scrive in Sulle tracce dell’uomo. Traduttore non professionista, Violante ha affrontato la materia con massima dedizione, con affetto addirittura, verso l’opera e la persona di Benoît, sentendosi egli stesso responsabile di promuoverlo nel territorio; ne scrive oltretutto l’introduzione, ricordando le affinità con la poetica di Pierre Jean Jouve e rilevando come in questo libro, uscito per Gallimard nel 1988, tutto sia “in perenne instabilità, visiva, sonora, logica attraverso paesaggi quasi sempre privi di luce, in una doglianza perenne, sorda, pietrificata”. Una fotografia convincente, a cui si potrebbe aggiungere una dialogo stretto con l’infanzia, intesa quale origine, focolare, il paradiso perduto di jouveana memoria, ma anche nucleo vitale che l’età adulta spegne sempre più, in un cammino verso la morte. E il rapporto con la memoria, attraversata dall’oblio quale condizione di sopravvivenza, di alleggerimento dal lutto, ma anche memoria che dovrebbe garantirci d’essere vissuti davvero, di contro alla percezione di avere sognato ogni cosa.

Un altro aspetto presente in Per un’isola futuraè il sentimento tragico dell’esistenza, in cui paesaggio e destino, parola e vastità impronunciabile dialogano con moto acceso, dando luogo a immagini tese, tra simbolo e allegoria. Alcuni esempi: “Le bestie massicce drenano il fondo d’acqua densa” e “All’impercettibile grido di una faccia disfatta” e “Altri sogni a brandelli in questa notte selvaggia”;  debiti verso l’espressionismo e il romanzo cavalleresco medioevale (penso oltretutto alle “tre gocce di sangue”, care a Parsifal),  ma anche Lebenshauungdi Benoît, sentire vissuto nella carne di un presente moribondo, dove “non canta più rondinella” e tuttavia ancora abitabile, a patto di cercare in esso le scintille della vita pulsionale capaci di contrastare il nero che avanza. Una speranza che Violante riconosce, sotto il profilo metrico, nel “versetto biblico”, misto di immagine lirica e racconto, struttura direi comunque cara alla poesia francese sin dal Romanticismo, passando per Rimbaud, le cui illuminazioni mi pare guidino lo spirito da “voleur de feu” di questo libro.




Il n’est de terres que presqu’îles.
Toujours, par quelque côté, nous touchons
à ces lagunes sombres, à cette
mer insatisfaite en son cercle brisé. Toujours
une langue terreuse, ici ou là, nous
lie et nous sépare. Phrases éparses, chaotiques,
pour une terre duelle, approche
inachevable d’une Avalon à venir, rêvée
et désirée, D’où cette île non encore
délivrée de ses vieilles amarres, de ses
remords de bras de mer combles.
      Sur la jetée, là-bas, il semble que
quelqu’un hèle l’océan.



Non vi sono terre se non penisole.
Sempre, per qualche motivo, noi siamo in
contatto con queste lagune oscure, con questo
mare insoddisfatto nel suo cerchio interrotto.
Sempre una striscia di terra, qui o là, ci
lega o separa. Frasi sparse, caotiche,
per una terra doppia, approccio
incompiuto ad un’Avalon futura, sognata
e ambita. Donde quest’isola non ancora
liberata dai suoi vecchi ancoraggi, dai suoi
rimorsi pieni di braccia di mare.
      Sul molo, laggiù, pare che
qualcuno chiami l’oceano.





Voyelles entrechoquées, rythme, natif, rompu aux
battements du coeur,
Heurté soudain à cette peur qui le surprend,
Âme rouge du plus profond foyer d’enfance,
j’insuffle
En elle ce qu’autrefois elle me donna,
Aile traversée! flamme! transpercée d’une lumière
Plus grande. N’était-ce que cela,
Cette voix qui en moi interrompt son silence?
Bientôt l’hésitation, le mouvement, bientôt l’union.
Bientôt l’acquiescement fragile et le consentement
Aux flancs nus, au souffle,
Le sang suspendu, lumineux, retenu en de pures
limites,
Le grand cri jeté aux haillons de la nuit et la mort
enchantée. Le vieux jeu à nouveau. Mais du sang coule
le long du bras.
Et l’ancien conte, ici, s’arrête et dit que trois
gouttes de sang, sur la neige, suffirent à l’apaiser.
Le monde aboli.
Je resonge à celui qui, la lance à la main, oubliant le
combat à venir,
Au premier matin du monde comprit,
Toi, si longtemps attendue, prise, en une image de
passage.
Sang au haut de l’épaule,
Orée, fût-elle rayon au fond du bois, étrange; et le
soleil épelait les feuillets d’or de l’horizon,
Orée, que j’avance dans la lumière si poignante,
Comme s’allument les branches sèches, au feu
dernier de l’automne, les dépouilles de l’arbre.



Vocali in contrasto, ritmo, innato, rotto ai
battiti del cuore,
Turbato improvvisamente da questa paura che lo sorprende,
Anima rovente del più profondo focolare d’infanzia,
alimento
In essa ciò che una volta lei mi diede,
Ala attraversata! fiamma! Trafitta da una luce
Più grande. Era tutto qui,
Questa voce che in me rompe il suo silenzio?
Presto l’incertezza, il movimento, presto l’unione.
Presto l’acquiescenza fragile e il consenso
Ai fianchi nudi, al respiro,
Il sangue sospeso, luminoso, fissato entro puri
limiti,
Il grande urlo scagliato contro gli stracci della notte
e la morte incantata. Daccapo il vecchio gioco. Ma del
sangue scorre lungo il braccio.
E la vecchia storia, qui, si arresta e dice che tre
gocce di sangue, sulla neve, furono sufficienti a placarla.
Il mondo annullato.
Ripenso a chi, lancia in mano, dimenticando
l’impegno futuro,
Nel primo mattino del mondo comprese,
Te, così lungamente attesa, presa, in un’immagine
passante.
Sangue sopra la spalla,
Limitare, quand’anche fosse raggio dal fondo del bosco,
sconosciuto; e il sole compitò i foglietti d’oro dell’orizzonte,
Limitare, che porto avanti nella luce così straziante,
Come si accendono i rami secchi, all’ultimo caldo
dell’autunno, le spoglie dell’albero.





Quel est l’oiseau, là bas, qui rit de son pouvoir et
repliant les ailes
Se fait chute soudaine au ciel qu’il renie?
L’enfant pourtant court sans rien voir, les bras
ouverts à tout le vent
Qui s’engouffre, les bras ouverts à ce vent qui le
dépasse et qu’il étreint
De toute sa jeune force;
Jeune arbre ou jeune pousse ce qui poussant se
developpe et ouvre
Vers la mort les grilles sombres de l’âge.
Puis se renverse; autre paysage de sable nocturne.
Où ce grand froid? ce vent d’hiver?
Où cet enfant égaré? Le souvenir est traître, le
remords moribond.
Étoile au front! pierre! le meurtre est ancien,
derrière les yeux,
Il pousse des lierres d’oubli, des feuilles vertes ruines
Se dissimulent au fond de l’esprit,
Se transfigurent, lentement, en lisières nouvelles.
Des voix parlent en langue étrangère et cela sonne
drôlement.



Che uccello è quello laggiù, che ride del suo potere e
ripiegando le ali
Cade improvvisamente dal cielo che rinnega?
Il bambino tuttavia corre senza vedere niente, le braccia
aperte ad ogni vento
Che s’infila, braccia aperte in questo vento che
l’oltrepassa e lo stringe
Con tutta la sua giovane forza;
Giovane albero o giovane germoglio che crescendo si
sviluppa ed apre
Verso la morte le grate cupe dell’età.
Poi si rovescia; altro paesaggio di sabbia notturno.
Dove questo grande freddo? Questo vento d’inverno?
Dove questo bimbo smarrito? Il ricordo è traditore, il
rimorso moribondo.
Stella in fronte! pietra! L’assassinio è antico,
dietro gli occhi,
Spinge edere d’oblio, delle foglie verdi danneggiate
Si nascondono nel fondo dell’anima,
Si trasfigurano, lentamente, in lineamenti nuovi.
Voci parlano in lingua straniera e questo suona
strano.





Par ce doigt de soleil à peine qui se pose
Au sommet de pierres vives dérive lentement
Jusqu’à nos corps durcis d’insectes dévorant
Hauts sont les monts ténébreuses les vallées
Que hante le souvenir de nos lèvres meurtries
La femme comme un enfant
Et nue sous la chemise elle allait en la mémoire
De vagues désirantes
Que l’on voulait saisir et toujours échappaient
Celui qui va mourir regarde aux monts l’ombre précise
À l’ombre il tend sa gorge à l’épée
Le dur rocher de la vie minérale
Il nie qu’il fut touché autrement
Qu’en son orgueil superbe il nie
Que la mort même puisse l’effleurer
Il la provoque lui enjoint de paraître là où
Hauts sont les monts les vallées ténébreuses.



Per questo dito di sole che a malapena si posa
Sulla sommità di rocce vive che va alla deriva lentamente
Fino ai nostri corpi ti indurisci di insetti divoranti
Alti sono i monti tenebrose le vallate
Che ossessione il ricordo delle nostre labbra assassine
La donna come un bambino
E nuda sotto la camicia percorreva con la memoria
Ondate di desideri
Che si volevano afferrare e che sempre sfuggivano
Chi va a morire guarda ai monti l’ombra precisa
All’ombra tende la sua gola per la spada
La dura roccia della vita minerale
Egli nega che fu toccato altrimenti
Nel suo orgoglio superbo nega
Che la morte stessa potesse sfiorarlo
La provoca intimandole di apparire là dove
Sono alti i monti tenebrose le vallate.





S’appellera
Absence sur la page
Sous la langue informelle salive des mots agonisants.


Si chiamerà
Assenza sulla pagina
Sotto la lingua informale saliva di parole agonizzanti.



Benoît Conort è nato nel 1956 a Villeneuve-sur-Lot. Attualmente insegna letteratura francese all’Università di Rennes II. Su Wikipedia altre notizie biobibliografiche.

Ambra Simeone

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Qualche mese fa, a proposito di alcuni inediti di Ambra Simeone, scrivevo che l’autrice “riconosce l’onestà quale misura di tutte le cose, come se la voce uscisse dalla pancia e dalla testa, intrecciandosi là dove finisce il corpo e comincia il mondo. C’è una distanza di sicurezza nel suo modo di raccontarlo quel mondo fatto di stereotipi e luoghi comuni, uno spazio che le consente di vedere con la maggiore lucidità possibile, come fa il pittore per cogliere, degli uomini, i più minuti dettagli, ma non per salvarli, giacché, pare di intendere in queste sue poesie, essi sono già tutti omologati, bambini da nutrire e far felici con i beni fittizi del consumismo”. Leggendo ora Ho qualcosa da dirti (DeComporre Edizioni, 2014) la sua poetica emerge con maggiore chiarezza, a partire dal gioco messo in esergo, dove lei e Giorgio Linguaglossa si esibiscono in due soliloqui che diventano dialogo solamente alla fine, quando il critico romano accetta la sfida di pronunciarsi intorno a questo libro, definendolo, citando Brodskij, “un avviamento all’insicurezza e all’incertezza”, pronto forse a diventare un “Mito” ossia a durare nel tempo, proprio per la sua “fragilità” e “intemporalità”.

Succede di rado che Linguaglossa si sbilanci così, ma la Simeone comunque non gli crede fino in fondo, tanto che mette in epigrafe alle poesie due citazioni pesanti come pietre (di Valery e Picabia) quando una pagina prima l’interlocutore gli aveva esposto le sue perplessità in merito alle “genealogie esibite”. Citazioni che riguardano il gioco, la serietà dello scherzo. Ed è su questo insieme di fatti, oltre che sulla prefazione scritta di suo pugno, che si fonda l’ipotesi che Ambra Simeone si scarti da qualsiasi radice, da vincoli troppo esigenti (dai padri, insomma, dalle tradizioni), per darsi apparentemente in veste di titubante e fragile esordiente, di una che, pur scrivendo “quasi poesie” (come recita il sottotitolo, e non alludendo semplicemente alla misura non-lirica del dettato), sfida il lettore a cimentarsi con la sua scrittura, niente affatto ingenua, a interpretarla come meglio crede, tanto a lei, sembra dirci, preme solamente di dire qualcosa, di dirlo in quel modo, con quegli accenti, quegli scarti, quegli equilibrismi.

A me, soprattutto l’autoprefazione (un unico periodo di una pagina e mezza), ha ricordato, in piccolo, la magistrale scrittura dada di Gertrude Stein nelle conferenze americane, oltre naturalmente allo Stefano Dal Bianco di Ritorno a Planaval. Non c’è da stupirsi, d’altro canto, visto che la giovane poeta di Gaeta è co-direttrice de Il Guastatore – Quaderni Neon-Avanguardistie, sul poeta italiano, ha fatto la tesi di specializzazione.

La differenza dalle scritture avanguardiste e da quella di Dal Bianco è altrettanto evidente, tuttavia; la Simeone scrive come parla e parla come pensa e pensa che parlare e scrivere siano lo stesso esercizio socio-culturale, imparentato con le funzioni fisiologiche. Sotto questo profilo, ancor prima della poetica di Dal Bianco, lei fa propria la lezione di J. Keats:Se la poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi è meglio che non nasca neppure”. Soltanto che il poeta inglese dice io con la forza di chi si sente consegnato alla morte e il suo movimento è a spirale, un gorgo in cui l’identità si condensa, mentre la Simeone ama la forza centripeta che, nel suo movimento vorticoso, prende con sé le cose che la circondano, i ricordi, i fatti, le persone, il giudizio su cose, ricordi fatti e persone, trasformando tutto ciò in discorso tremolante per scelta metodologica, un discorso messo in opera da una controfigura che sembra parlare davanti a una telecamera oppure in una sala d’attesa o dal parrucchiere. Potrebbe essere la casalinga di Voghera, se non sapessimo che dietro a quella maschera c’è una donna, altrettanto insicura, ma colta, e diffidente verso l’intellighenzia di regime o di contro regime, verso chi di fatto usa le parole per dominare. Quello che lei ha da dirci, insomma, lo fa dire da una sorella chiacchierona, ma non per questo ironicamente rappresentata. E questo la differenzia anche da chi mette in scena un io-inetto per raccontare la mediocrità e la volgarità contemporanea, come fa per  esempio Aldo Nove.

L’ulteriore filtro è dato, come accennavo all’inizio, dalla leggerezza giocosa che permea il dettato: è una sottile sarabanda contestativa ai luoghi comuni, un umorismo pirandelliano decupato dall’orrore esplicito verso la morte. Perché qui la morte è esorcizzata nel troppo-grande-troppo-violento-per-essere-compreso: “non mi va di sapere tutto, e delle cose, non so perché, ma preferisco non saperle”. Questo fermarsi prima dell’orrido vero, non è conformismo borghese, ma proprio il segnale che quell’abisso esiste, per darcene un assaggio attraverso un fraseggio vagantivo, mosso su di una superficie che lascia intravvedere i cadaveri sottostanti.

La vetusta diatriba sul verso e sulla prosa smette qui d’interessare, proprio perché il verso lungo di Simeone è la misura esatta del suo rapporto con il mondo e con l’interiorità, è un metro con il quale, appunto, lei tiene a distanza di sicurezza entrambi, uno strumento di sopravvivenza, prima di essere una scelta stilistica. E questo, dico io, dovrebbe valere per tutti i poeti: il verso è il correlativo oggettivo dell’io, è spazio dell’agio e del disagio dove la tensione che lo costituisce non la decide il poeta, è il senso del nostro abitare la terra, che ci dispone in esso sempre in precario equilibrio. Il metro insomma è l’indisponibile, quando la parola è autentica; oppure è solo un modo di far parte di una scuola, una stampella artificiale, una tecnica per stimolare l’ispirazione, una scusa per fingersi poeti. Di questo mi pare consapevole anche la Simeone quando scrive, in un commento in rete (nel blog di Nazario Pardini Alla volta di Leucade, post del 28 aprile 2015): “Uno pensa sempre di aver scelto una forma poetica tramite la quale veicolare un contenuto, ma in realtà è il pensiero che lo fa per noi, nel momento in cui vogliamo comunicare un qualcosa e di solito ciò avviene in modo molto naturale”.


Da Ho qualcosa da dirti (DeComporre Edizioni, 2014)


sugli scrittori depressi

avrei da dire tante cose su questi tipi di scrittori,
ma ne dico una sola, ho letto diverse biografie di autori famosi,
che a me poi, non piace molto leggerle, mentre chissà perché,
io preferisco leggere i loro scritti, così, direttamente,
e mi sembra di leggere un testamento, quello vero, non quello lasciato dal notaio,
comunque, quando leggi queste biografie sarebbe meglio premunirsi,
con qualche tranquillante o ansiolitico, che per parlare in breve della loro vita,
converrebbe farci un dramma, tra morti, malattie, incidenti e violenze,
poi ci sono quelli che hanno optato per il suicidio in gran stile,
e dunque, a me, viene da dire che ho tanti amici che scrivono,
e che non sono famosi e  forse non lo saranno neppure dopo morti,
però alla fine io non gli auguro mai queste grosse tragedie,
anche se delle volte vedo già un germe di sfiga radicato in loro,
ma forse è meglio così, soprattutto per quello che scriveranno un giorno su di loro,
in quei libri che parlano della loro vita, piena di avvenimenti disgraziati,
io però mi vedo poco depressa, poco violentata, poco alcolizzata,
poco drogata, poco impazzita, insomma troppo poco per diventare famosa.



l’idea balorda dell’a capo

non sono mai riuscita a togliermi di testa la voglia di usare l’a capo,
scrivo una cosa e me lo dicono in tanti, che non c’è mica bisogno dell’a capo,
ma io lo faccio lo stesso, dicono, sai non c’è bisogno che lo usi, non sono poesie,
e io caso strano ce lo metto l’a capo, che mi è entrato nella testa e non vuole andar via,
mi dicono anche che se scrivo queste cose qui, che chiedono, sono prose? no, gli rispondo,
sai, sono quasi poesie, e allora l’a capo non è obbligatorio nella prosa, perché lo usi?
non sono mai riuscita a eliminare questo tic dell’a capo, scrivo una cosa e poi vado giù,
e dicono che quell’andare giù è superfluo, perché è una cosa che riguarda la poesia,
così un giorno mi ci metto d’impegno, nel senso non d’impegnarsi, ma di sacrificarsi,
e provo a non andare a capo, poi quando rileggo ci trovo ancora gli a capo, e mi chiedo
ma io non li avevo messi? che strano, com’è che sono comparsi? dico a quelli che mi dicono,
perché metti l’a capo, sai che non serve per questi testi, tu come li chiami, poesie?
no, non sono poesie, allora non ci va l’a capo, nel frattempo gli dico che sono comparsi,
e giuro, io non volevo, non volevo cambiarvi le regole, che non è poesia questa, è quasi poesia.



i telegiornali, secondo me, non servono a nessuno

secondo voi i telegiornali, adesso come adesso, a cosa servono?
io me lo chiedo spesso, il meteo, per esempio, a cosa serve saperlo?
non so, basta che la mattina ti affacci alla finestra e vedi che tempo fa,
e se hai il balcone fa lo stesso, la cosa non cambia poi molto,
poi, per esempio, se per caso sai pure in che stagione sei, sai anche più o meno
se fa freddo oppure caldo, ma se è un caldo umido o asciutto,
a che ti serve saperlo? volete sapere come sono andate le cose al governo?
non si sa che sono tutti bravi, operosi, che la crisi è rientrata,
che quelli lì stanno facendo questo e quello? cos’è non lo sapete?
a cosa serve sentirlo al telegiornale? volete sapere se è morto qualcuno?
o volete sapere, come, perché, con chi e quando? no, perché se è così,
basta sapere che ne muoiono fin troppi ogni giorno per malattie,
guerre, omicidi, violenze o  per negligenza dei medici, magari per suicidio,
e non c’è mica bisogno di sapere altro, poi dai telegiornali, perché volete saperlo?
io penso che non ce n’è bisogno, che non ne abbiamo un vero bisogno,
ma se le so io queste cose, che per fortuna non sono una giornalista,
e che per lo stesso motivo, non sono neppure un genio in statistica,
né un politico, figuratevi voi, voi anche lo dovreste sapere,
cos’è ce ne siamo dimenticati? e allora che facciamo?
io spengo la televisione, ecco cosa faccio, e voi?



mi prendo la libertà di quel che scrivo

e poi questa storia della libertà io davvero me la sono sempre chiesta,
che ti dicono che molte persone della tv, politici, soubrette, giornalisti, attori
e che persino molti scrittori famosi, non sono liberi come quelli che non li conosce nessuno,
perché a loro manca di fare certe cose normali, come andare a fare una passeggiata da soli,
farsi fotografare solo quando vogliono loro, fare l’amore senza dire niente a nessuno,
e che allora la notorietà non è più una questione di libertà, se dicono, che più sei noto
e più perdi la libertà di fare certe cose, come le fanno tutti gli altri sconosciuti,
ma a molti sembrerebbe una bufala, e allora non conviene essere famosi? lo dicono tutti?
io quindi me la sono sempre chiesta questa cosa qua, che forse uno è libero se non è riconosciuto
è libero se nessuno sa chi è, cosa fa e come vive, uno è libero se diventa invisibile,
e forse è proprio una bella scusa, una bella invenzione ideata da chissà quale creatore,
mah, sarà, proprio un bell’affare la libertà, che uno però non è libero di diventare famoso,
ma di essere uno come tanti, uno in una massa indistinta di sconosciuti, così ti dicono,
dunque secondo me la libertà l’ha inventata un bravissimo scrittore.



il mio giorno della memoria

a me questa storia della memoria non mi va giù,
la memoria, a volte, è meglio che non ricordi niente,
una mia amica aveva una memoria di ferro, quando gli dicevi una cosa
stava lì a ricordare quando l’aveva già sentita, e a me veniva un gran mal di testa,
mi dispiaceva di aver già detto quella cosa, ma quella volta lì non era come oggi,
e lei non lo capiva, che io quando dico una cosa, e poi la ripeto anche,
non è mai come la prima volta, è passato del tempo, sono passati dei pensieri,
ho fatto delle altre esperienze, e anche se ho detto le stesse parole
nella mia testa e nella mia vita, non sono esattamente gli stessi pensieri,
perché non è mai come la prima volta, perciò a me questa cosa della memoria
non mi piace affatto, e quindi avrei voluto che non ricordasse nulla,
questa mia amica, che in fondo non c’è bisogno di una poesia per capirlo,
che non conta solo quello che dici, ma anche quando lo dici,
perciò il mio giorno della memoria, io ho deciso che non lo festeggio mai.


Ambra Simeoneè nata a Gaeta il 28-12-1982 e attualmente vive a Monza dove lavora. Laureata in Lettere Moderne, ha conseguito la specializzazione in Filologia Moderna con il linguista Giuseppe Antonelli e una tesi sul poeta Stefano Dal Bianco. La sua prima raccolta di poesie “Lingue Cattive” esce a gennaio del 2010 per Giulio Perrone Editore (Roma). Del 2013 è la raccolta di racconti “Come John Fante... prima di addormentarmi”. La sua ultima raccolta di quasi-poesie esce nel 2014 per deComporre Edizioni con il titolo “Ho qualcosa da dirti - quasi poesie”. È co-curatore de “Il Gustatore - quaderni Neon-Avanguardisti” che hanno ospitato Aldo Nove, Giampiero Neri, Peppe Lanzetta, Giorgio Linguaglossa, Paolo Nori e molti altri. Ha curato un progetto multi-antologico attorno al tema della scrittura dal titolo “Scrivere un punto interrogativo” edito da deComporre Edizioni. Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste letterarie nazionali e internazionali tra le quali: l’albanese Kuq e Zi, la belga Il caffè e l’americana Italian Poetry Review. Sue poesie sono apparse su diverse antologie tra le quali: Il Quadernario Blu per Lietocolle a cura di Giampiero Neri e Il rumore della parole per EditLet a cura di Giorgio Linguaglossa. Ha organizzato diversi incontri poetici collettivi, fa parte del gruppo dei Pentagrammaticiattivo nella provincia milanese. Sulla sua poesia si sono espressi: Gian Ruggero Manzoni, Franca Alaimo, Giampiero Neri, Giorgio Linguaglossa, Claudio Damiani, Nazario Pardini, Marzio Pieri.



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(scusate il tono, ma da oggi è legge)

Avanti popolo

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Va bene mettersi in regola con la LEGGE
ma non dimentichiamo che Blanc 
è un blog di POESIA!!!

Nicola Ponzio

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Lo spettacolo osceno del corpo femminile in putrefazione corre lungo tutta la modernità, da Baudelaire di “tu sarai simile a questo / immondo grumo, a questa peste orrenda” a Gottfried Benn, che ci descrive minuziosamente una ragazza riversa sul canneto, “tutta rosicchiata” dai topi, fino alla liquefazione del corpo nella Valduga di Donna di dolori e, ancora più di recente, nella donna morta in discarica, di Paolo Donini in Ablazione. La luminosa postfazione di Gianpiero Marano a Il mio nome nel tuo nome (Oèdipus, 2014) di Nicola Ponzio ci ricorda altresì Douve di Bonnefoy e il racconto Il signor Münster di Alberto Savinio, ai quali si potrebbero aggiungere alcune pagine di Houellebecq delle Particelle elementari o la scena dell’obitorio nel racconto Un corpodi Camillo Boito. Insomma: l’argomento affascina i moderni, sia per la pregnanza metamorfica del corpo e sia per l’enigmaticità scrutabile che lo caratterizza. 

Eppure, malgrado quest’affollata schiera di cantori della materia in disfacimento, che farebbe supporre una saturazione tematica ed emotiva, Il mio nome nel tuo nomeè uno dei libri più originali che ho letto negli ultimi anni, capace di tenere insieme tradizione gotica (diventata, in autori più modesti, maniera e gusto del macabro) e visione lucida, scientifica del processo diveniente, di quel continuo scambio di energie atte a mantenere l’unità dell’insieme, che non ha nulla di edificante o di salvifico, essendo il naturale lavorio dell’organico, dove la forma leggibile emerge in temporanea precarietà, per essere poi riassorbita nell’amalgama del tutto. Ovviamente Il mio nome nel tuo nome è molto di più. Per esempio un catalogo delle specie animali coinvolte nel riciclo biologico dei cadaveri, e di piante che da quest’ultimi traggono nutrimento: decine di nomi mai sentiti e altisonanti, che sono una dichiarazione di poetica sul valore del canto per la sopravvivenza della specie, come se il disfacimento avesse un suono nato nelle parole che lo raccontano prima ancora di essere l’effetto, come nel Baudelaire di Una carogna, del brulicare di mosche e vermi veri nel ventre: “soprofagi, lividi, antreni / decremento del calore / e del pH: ipostasi, fenoli ammoniaca. / l’apparire annualmente di foglie”; è la  prima strofa della prima poesia, l’incipit di un’autobiologia in prima persona della donna-spartita-dal-creato, spartizione a cui partecipano, poco più sotto, anche l’aggregato stellare Tarantula Nebula e l’orneoblenda, un silicato: nulla infatti fugge all’interconnessione degli elementi, ma soprattutto, sembra dirci Ponzio, che gran piacere pronunciare questi suoni!  

Del resto il “nome” appare due volte nel titolo, a cancellare il corpo, il mondo: il libro sui nomi trova qui la sua dizione, l’humus che lo incrementa, come recita la poesia di pagina 16, il luminoso nome che dona l’essere alle cose e il non essere, che parla al posto delle cose, oramai tutte artificiali o derelitte, se non fosse appunto per la poesia, che le rimette nell’ordine del linguaggio, fianco a fianco al sole che splende, all’estate, alle qualità della luce, alle muffe, alle placente. Si capisce che Ponzio ama il barocco soltanto perché è in lutto rispetto alla semplicità del paradiso, perduto da sempre; ama il barocco come lo amava Manganelli, per perdersi scetticamente in quel grembo labirintico e specchiarsi come un Narciso cieco, ora che viviamo nella palude definitiva.

In questo gioco di sguardi, entra anche un secondo personaggio nella storia, che Marano chiama “voyeur”, ma anche “coro e anghelos tragico”, che parla a tondo, laddove il cadavere usa il corsivo, e che “riferisce le fasi della putrefazione senza adesione”; è una figura maschile, perduta quanto il suo contraltare femminile, che agisce in uno spazio appena accennato, ma che a volte diventa cornice che riordina l’accadere in un’immagine emblematica, tesa a unire l’eterno e transeunte, l’intatto del paesaggio con il corrotto dell’umano, come in questa terzina: “la dorsale del cielo ti separa / dalla luce dell’estate / attraversandoti la schiena rosicchiata”.

Oltre al barocco, e il gusto per l’anamorfosi (da intendersi come guardare il mondo da un’altra prospettiva, quella del cadavere, appunto, e dell’osservatore neutrale) mi sembra importante sottolineare la passione di Nicola Ponzio per il rizoma, che qui si mostra nel corpo senza organidella donna, del molteplice centrifugo, le cui linee di fuga, come ci spiega Deleuze in Dieci piani, sono già parte dell’intrico, nel tentativo di annullare il principio di non contraddizione ossia la supremazia dell’Uno tiranno. Che sia questa una delle lenti con cui leggere Ponzio, ce lo dice anche una sua Nota teorica, presente nel sito di “Anterem”:  “Nell’aperto l’universo metamorfico della poesia si manifesta in tutta la sua crudeltà e bellezza. L’aperto, ovvero la natura ignota e liberatrice, ci espone al rischio dell’erranza totale, al nomadismo definitivo e inafferrabile. La coincidenza degli opposti si fa esplicita, nel fuoco dei possibili alfabeti”. 

Spiace davvero che un autore così significativo passi quasi inosservato. Fanno eccezione, in rete, le letture di Giacomo Cerrai, Viviana Scarinci, Mariangela Guatteri e, in postfazionea un altro libro, Marco Giovenale. Guatteri e Giovenale si soffermano su Scanning (Corraini Edizioni, 2014), un “viaggio on the road” compiuto con Paolo Mussat Sartor; fotogrammi di quest’ultimo, testi-catalogo di Ponzio: scansioni del visibile e del dicibile, organizzazione e disorganizzazione del possibile in segmenti misurabili, catalogazione / accumulazione dell’onda cromatica, stando nei paraggi della poesia concreta, come già (e ne do appena un assaggio) ne Il mio nome nel tuo nome: “rosso squama, rosso chiaro, rosso cielo. / rosso ambra, rosso ribes, rosso cadmio. / rosso milza, rosso fuoco, rosso eosina. / rosso carne, rosso airone, rosso magma” ad libitum.




da Anamorfosi

saprofagi, lividi, antreni.
decremento del calore
e del pH: ipostasi, fenoli
ammoniaca.
l’apparire annualmente di foglie.

poi mi sono seduta. ho aspettato.
ho aspettato che il buio
venisse da me.
traiettorie di api, metano,
autolisi.
le radici vicine s’impiantano nelle ossa.

Tarantula Nebula, ortiche
orneblenda.
iniziavano i nomi, i fenomeni
e le sembianze, – l’invisibile etc.

---

combustioni solari
sulle vertebre,
mentre incedi traballante tra le talpe.
penuria alla penombra, acidità
disfacimenti minuziosi delle gonadi
nel giubilo ipogeo.

immanenze boschive.
cellule alterate dalla crescita
precoce delle ife, –
dai sali che ne limitano il peso. 

la dorsale del cielo ti separa
dalla luce dell’estate,
attraversandoti la schiena rosicchiata.


da Imago picta

varcato l’intrico
di rovi che chiude il fondale,
sono entrata nel bosco.
riconosco il sentiero
dal buio che induce all’erranza.


mi rincorro mi perdo.
ripercorro le vie del ritorno
irradiate dal corpo.
mentre l’acqua compenetra
l’erba tingendo i vestiti.

mi rincorro nel buio alla cieca
ricerca di tracce, 
che conducono a un nome.

---

mani pietose raccolgono
fiori dagli occhi dei morti.
parole dalla crescita
di un mirto.

lievi conservano l’ombra
degli ultimi gesti, – i colori,
la brama.
come l’ambra condensa il ricordo 
di un’ape assopita.

---

…rosso arboreo, rosso cuore, rosso chimico.
rosso bacca, rosso acceso, rosso agata.
rosso nube, rosso legno, rosso cimice.
rosso spento, rosso minio, rosso fragola.

rosso squama, rosso chiaro, rosso cielo.
rosso ambra, rosso ribes, rosso cadmio.
rosso milza, rosso fuoco, rosso eosina.
rosso carne, rosso airone, rosso magma.

rosso areola, rosso terra, rosso resina.
rosso smalto, rosso piaga, rosso fegato.
rosso arteria, rosso arancio, rosso ruggine.
rosso fungo, rosso ardente, rosso acaro.

rosso scuro, rosso Sole, rosso porfido.
rosso foglia, rosso labbra, rosso acero.
rosso autunno, rosso grumo, rosso fard.  
rosso bosco, rosso veste, rosso muffa. 

rosso aurora, rosso ife, rosso acido. 
rosso vulva, rosso sangue, rosso croco.
rosso intenso, rosso Marte, rosso globulo.
rosso alga, rosso brace, rosso porpora.

rosso mestruo, rosso stigma, rosso afide. 
rosso rame, rosso lipstick, rosso spora.
rosso quarzo, rosso argilla, rosso oro.
rosso volpe, rosso Luna, rosso incendio…


da Dell’acqua

dell’acqua profonda è sodale
la lingua che dubita, annaspa 

e s’incava – che duplica
e inquieta, abitando l’erranza. 

---

nel catino di zinco sbiancato
galleggia una chiazza
oleosa, un residuo di resina.

sono accanto al pontile.
sto lavando i miei piedi.
il larice specchia i suoi rami
nell’acqua increspata.

non c’è ancora nessuno.
soltanto un cielo cavo
che si stinge.
tuberi che stringono
le tube rimediandone una lingua.


da L’urna e la Luna

c’è un tappeto nell’atrio.
una piccola stuoia 
di plastica, iperico e vetro.
tra i ritagli di tetrapak.

c’è una quercia oltre il fosso.
un libro aperto sulla terra.
ricicli gli avanzi di cibo,
e convochi i morti.

c’è una finestra accanto al letto.
una lavagna che delimita
la notte.
senti il bosco, la Luna.
                                  ti alzi.
coi gessetti rimasti disegni
i rilievi dell’argine,
intorno alla casa.
---

lunula, valvola, tuorlo e bisillaba.
magma, cerniera, molecola
e vulva. trottola, enigma,

ghirlanda e cervice. sfera 
errabonda, albedo e matrice. malva
corolla, Selene ed ovario. bussola

prua, eone e diatomea. cenere
assiolo, pupilla e bivalve. femmina
spora, albume ed aureola.

lucciola perla, clitoride e cellula. mix 
di materie che culla e germoglia.
acino bocca, Navicula e arnia.

nottola, arnica, alveolo ed anello. rotta
notturna, falena e baccello. cruna,
nottambula, ovuloe specchio.

capsula, maschera, epistola e urna.
cardine, origine, botola e iride.
ciclo, dimora, gibbosa lanterna.

pagina, sposa, vocabolo e ala. globulo,
falda, vestale e semenza.
argine, opale, placenta e scintilla.


da Agnizioni 

spazi in tentativi di unità,
date le locuzioni, le mucose
sul muschio, – nella crescente acidità
dell’uvaspina che scompagina le ovaie.
ecco il corpo, il telaio: l’agnizione
dettata dall’aporia,
nel processo che segue.

generando all’interno altro seme, vigore
e dissidi. vere necrofanie,
se fiorisce nell’utero.
nell’olio che tornava a colare
impregnando i colori, – l’icona
residua in funzione di un nome, di un’alba
più fertile.
fonte viva nella quale si lava.

---

finiva così la stagione invernale.
la fedeltà delle sostanze.
premono il grembo allestendo un amplesso.
mi tramuto in ortica.
circostanza prevista da un modello teorico.
gusci, – genealogie dell’universo.
un cieco ti guida mostrando il dipinto.
sorprendente scoperta della notte.
fedele alle matrici più spietate.
nella luce che cela ogni traccia.
sequenziamento del linguaggio.
buio simultaneo alla mia veglia.
trasparenza, parole, orditura.
tempo che diventa infiorescenza.



Nicola Ponzio(Napoli,1961), vive e lavora a Torino. Poeta e artista visivo, dal 1987 ha esposto i propri lavori in diverse mostre personali e collettive sia in Italia sia all'estero. Sue poesie sono apparse su Nuovi Argomenti, L’Ulisse, Nazione Indiana, Blanc de ta nuque, gammm, eexxiitt e Lettere Grosse.

Ha pubblicato Scanning, con le fotografie di Paolo Mussat Sartor, postfazione di Marco Giovenale (Corraini Edizioni, 2014), l’e-book Breve storia del blu, 2014: http://gammm.org/wp-content/uploads/2014/09/Ponzio_Blu.pdf, Il mio nome nel tuo nome, postfazione di Giampiero Marano (Oèdipus, 2014), 10 Wunderkammern (La camera verde, 2012), L’equilibrio nell’ombra (LietoColle, 2007),Esercizi del rischio (e-book, Biagio Cepollaro e-dizioni, 2007), Gli ospiti e i luoghi (Nuova Editrice Magenta, 2005). È presente in antologie e testi critici.


Ercolani sul "Rilke" di Flavio Ermini

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UN LINGUAGGIO ULTERIORE

 […] l’essere si può pensare anche come abbandono. Ciò fa emergere l’esperienza dello smarrimento come valore costitutivo del canto [...]

Ermini 




In un libro di circa dieci anni fa, Il moto apparente del sole. Storia dell’infelicità Flavio Ermini scriveva un trattato poetico-filosofico sull’uomo e sulla parola, sulla magia dell’inizio e l’ineluttabilità della fine, dominato non tanto dal nichilismo della finis quanto dalle strategie che l’“uomo immaginoso” (Leopardi), l’uomo delle “illusioni”, contrappone all’inevitabile e comune mortalità inventando attraverso l’opera artistica i segni originali della sua lotta.

Quel discorso ora si riapre nel nuovo libriccino Rilke e la natura dell’oscurità. Discorso sullo spazio intermedio che ospita i vivi e i morti, AlboVersorio, 2015, breve saggio in cui l’autore scandaglia alcune opere di Rilke, dalle Elegie duinesi a Worpswede, con una particolare concentrazione sulla consapevolezza, centrale nel poeta, di essere-per-la-morte: attento a fissare il punto in cui “la scrittura accetta di celarsi nell’ombra”, nel “gesto incompiuto della scrittura”, Ermini perlustra il tema dell’oscurità rilkiana, che non esige illuminazione ma sottomissione. L’illuminazione sarebbe come un tradimento della notte del linguaggio: sottomettersi a questa notte è un gesto più sovversivo. Non opporsi al destino naturale dell’uomo; trovare la vita necessaria non nella prima nascita, dalla quale siamo lontani, “modello plasmato da mani estranee”, voluta da altri per noi, ma nella seconda nascita, nel nostro vero “inizio”, quando ci inoltriamo nell’indicibile della scrittura e lì lavoriamo con pazienza la nostra morte, entrando in colloquio e non in opposizione con la fine.

“Poeta è chi oltrepassa (colui che deve oltrepassare) la vita” scrive Marina Cvetaeva a Rilke, che proprio su questo tema dell’andare oltre incentra alcune delle pagine più intense del suo Malte. Ermini sottolinea la necessità di un “terzo spazio”, fra vita e morte, dove tutto si compie, dove il visibile viene varcato, dove alla fine è il linguaggio a trovare il suo vuoto e non l’io a soddisfare i suoi desideri. E lo scrittore si trova a essere sentinella e custode di questo passaggio.

Ermini, da sempre, continua a scrivere il suo libro ininterrotto, dove  linguaggio poetico e filosofico, inestricabili l’uno dall’altro, si generano uno dall’altro, in un moto di costante avvicinamento. E qui affiora la verità inseguita dal poeta: “l’essere si può pensare anche come abbandono. Ciò fa emergere l’esperienza dello smarrimento come valore costitutivo del canto”.  Un canto che è ora e qui, frammento del nostro abitare poeticamente la terra anche in assenza di canto, come testimonia la lacerante esperienza dell’ultimo Orfeo contemporaneo, Paul Celan, maestro di oscurità e di dolore.

L’analisi di Ermini dell’oscurità rilkiana, coerente con la sua ricerca di poeta e di critico, non ci guida verso un nulla indifferenziato, da cui la vita è assente, ma verso un nulla da assecondare docilmente, cercando sempre nuovi inizi. Questa docilità, gentile ma inflessibile, non è forse la stessa che ha generato le pagine migliori di Robert Walser? O, per restare a Rilke, è la docilità dello sguardo, quella da cui si fa totalmente pervàdere: «Ma di Cézanne volevo ancora dire: mai si era visto prima quanto la pittura sia da sola in mezzo ai colori, come la si deve lasciare sola, perché quelli si spieghino a vicenda. I loro rapporto reciproco: ecco tutta la pittura». Un rapporto, ma anche una solitudine: su questo contiguità riflette Rilke. E la scrittura, in modo non dissimile, è, e resta, ossessione e pervasione. “Con l’avvento della seconda nascita la scrittura emette un grido liberando insieme la sua passione e la sua fatica”.

Il tema centrale di tutto il libro è l’accettazione della morte e della necessità fondante e mitopoietica della scrittura. Si scrive per continuare a vivere, per lasciare tracce che sconfiggano l’orrore della nuda mortalità, oppure si scrive perché la scrittura è, rilkianamente, la morte al lavoro dentro la lingua e chi scrive non è abbastanza vivo e conosce, più di questo mondo, l’“altra parte” del mondo? Ermini sceglie una via intermedia: scrivere per lasciare sì delle tracce, ma tracce lievi, che non dureranno mai troppo a lungo, perché la strada resta tracciata e non tracciata. L’arte della parola è sempre un orizzonte aperto, un linguaggio vivente, metamorfico, ulteriore, nonostante la certezza della finis terrena.

La penultima pagina dello Zibaldone leopardiano (4525) ci orienta verso le ragioni più segrete del suo pensiero: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”. Trasformare questa certezza, che può sprofondare lo scrittore nell’afasia creativa, in un silenzio fertile, carico di digressioni, domande, aforismi, interrogazioni, parabole, è il progetto utopico e ossessivo di Ermini. Che in quest’ultimo libriccino, dedicato allo spazio intermedio fra i vivi e i morti, raggiunge un acme di illuministica chiarezza. Lo scrittore ha proprio questo compito di traghettatore: di aiutare a colloquiare, dal mondo dei vivi, con filosofi e artisti.



Flavio Ermini,Rilke e la natura dell’oscurità. Discorso sullo spazio intermedio che ospita i vivi e i morti, Alboversorio, Milano 2015.


Incipit del libro


Con la sua scrittura, Rainer Maria Rilke si assume il compito di posare lo sguardo sul lato umbratile dell’anima, al fine di nominarne la natura. Ciò avviene grazie a una nominazione che non pretende luce, bensì sottomissione.
Scrive Rilke nel 1907 all’amata Clara: «Dove persiste oscurità, là è un’oscurità del tipo che non esige illuminazione, ma sottomissione». Così Rilke rifletteva durante il suo pellegrinaggio quasi quotidiano – durato almeno due settimane – al Salon d’Automne, a Parigi, nelle sale che esponevano i lavori di Cezanne.

Proviamo a darci anche noi questo compito, aderendo con il nostro sguardo allo sguardo cui Rilke si affida con la sua scrittura. Noi stessi, dunque, nell’accostarci all’opera di Rilke non richiederemo illuminazione, né seguiremo vie maestre, bensì sentieri obliqui, laterali, in ombra. Probabilmente correremo in tal modo il rischio di smarrirci; di inoltrarci per strade senza uscita, per sentieri che d’un tratto potranno assumere un volto diverso o appariranno ingannevoli oppure minacceranno di scomparire. Correremo forse il rischio di cadere in un pozzo, com’era un tempo accaduto a Talete di Mileto, mentre camminava osservando il cielo stellato.
Accogliendo la “sottomissione” all’oscurità, inevitabilmente passeremo tra terre ignote o non riconoscibili. Per lunghi tratti ci avventureremo in spazi comunemente inaccessibili. Sarà faticoso; ma la vera fatica sarà in fondo accettare di perdersi senza tornare in vista di Itaca.
Va riconosciuto che il pensiero non potrebbe addestrarsi a pensare l’impensabile se, a sua volta, non si educasse alle tenebre. È quindi possibile che ci riservi delle sorprese questo modo non convenzionale di accostarci alla poesia di Rilke. In fondo un mutamento prospettico non può lasciare inalterata l’indagine.

Facendo nostra questa prospettiva, inizieremo da un dato biografico estremo, prossimo alla morte del poeta e segnalato da una data: maggio 1926. Marina Cvetaeva scrive a Rilke: «Poeta è chi oltrepassa (colui che deve oltrepassare) la vita». Ovvero, poeta è colui che nella sua opera apre uno spazio che non è più vita né è più morte, ma una «nuova terza cosa», che entrambe – la vita e la morte – comprende e in pari tempo supera. Ciò che risulta stupefacente, come evidenzia Franco Rella nella sua introduzione alle Elegie duinesi, è che quando Marina Cvetaeva scriveva queste righe ancora non aveva letto i Sonetti a Orfeoe nemmeno le stesse Elegie duinesi; libri che avrebbe ricevuto solo successivamente. Cvetaeva, dunque, leggendo le prime opere di Rilke aveva subito individuato ciò che il poeta avrebbe compiutamente scoperto solo dopo anni di ricerca, quando sarebbe giunto a nominare questa «nuova terza cosa»; quando sarebbe giunto finalmente a respirarne lo spazio, accogliendo in sé lo spazio stesso, quale dimensione interiore dell’aria in movimento; apprendendo che la realtà esteriore si aspetta sempre qualcosa da noi, tanto che – quando noi oltrepassiamo la vita – il nostro dimorare nello spazio ulteriore può trasformarsi in un esistere nella sua essenza. Qui i vivi e i morti, infatti, convivono gli uni di fronte agli altri; si guardano, si osservano, si affrontano, si scontrano.



Francesco Maria Tipaldi

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Si apre con “Angelus” il nuovo libro di Francesco Maria Tipaldi, e non poteva essere diversamente: Traum (Lietocolle, 2014, prefazione di Maurizio Cucchi) indaga infatti il mistero dell’incarnazione, qui affrontata nella sua più cruda terrestrità, nell’impasto di orina, terra e doglia che ci costituisce in quanto esposti al massacro di Kronos. Uno stare sofferto nell’ibrido animale, nel “tanfo della natura che si rigenera”, in attesa dell’Apocalisse, che chiude (come “compimento” dell’amore divino per le sue creature) questo viaggio dantesco nella terra di mezzo, dove veglia e sonno, vivi e morti, fisiologico e patologico, altezza e precipizio s’incistano nella parola del poeta, nitida nel raccontarci la vita zoologica prima che diventi società umana (cfr. la differenza, nella cultura greca, tra zoé e bios), la vita nel suo indistinto muoversi per tensioni e distensioni, per boccioli e tumefazioni, per fluorescenze e diarree, quando ancora non si è organizzata in un moto di condivisa e patinata civilizzazione.

Tipaldi interroga la materia e i suo interstizi, quel nulla che, dice bene altrove Tommaso di Dio (“Premio Castello di Villalta” 6/05/14), “non è il non-ente della tradizione parmenidea, ma il nulla che permette il transito vitale, il nulla rigenerante, il nulla eccessivo e sempre eccedente che è potenzialità del divenire e, al contempo, giuntura vuota dove giocano gli assi della trasformazione della materia”. Un nulla in ogni caso inquietante, che si muove nell’impensabile, nell’impraticabile: i personaggi di Traum infatti, contadini e animali, soprattutto, vivono nell’eccesso di pienezza e nella fatica dello svuotamento, inconsapevoli della logica economica, per accumulazione e minimo dispendio, del sistema in cui sono inseriti, e presi invece, anzi prigionieri, dei loro umori, fisici e psicologici. Sembrano uscire da un Cristo si è fermato a Eboli dopo essere però passati per le lavande gastriche dell’espressionismo tedesco (e il titolo ne porta memoria; penso al Sebastian im Traum di Georg Trakl) e de La parte maledetta di George Bataille, dove appunto la dissipazione (la dépense) costituisce l’essere naturale, il modo in cui stiamo al mondo, prima di ogni finzione progressiva e conservativa.

Come nel filosofo francese, anche nel poeta campano il sesso contende sovranità alla morte, per quanto la morte vinca inesorabilmente. Ciononostante, l’amore, che “mette le ortiche nelle mutande” e fa impazzire gli uomini, trionfa nell’accadere, è Kairos, non più Kronos, “momento opportuno” in cui il senso torna senza resto e l’identità non piange la separazione originaria raccontata da Platone nel Simposio.

Anche la scrittura, per Tipaldi, assume la stessa funzione: contende il tempo alla morte, tenta di sopravvivere alla cancellazione, incidendosi nella carta, inventando immagini memorabili, potenti e precise, asciutte nella struttura sintattica ma ricchissime di richiami simbolici e culturali. Cito per intero forse la più bella poesia del libro, quasi additandola a modello di un percorso che ha fatto tesoro della cultura tragica novecentesca e dell’antisublime, che non cade nell’inganno della resa al quotidiano: “Dicono sia la morte questo senso / di spossatezza / questa stazione zuppa / di mosche // si dorme quasi sempre / uno sull’altro / sui corpi fiorisce l’edera della casa / – io lo so che verrete / madre / il nulla ci mangia nella mano / come fosse un cane”. Due versi finali splendidi, forse debitori del celaniano “L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici”?



POESIE DATRAUM (2009–2012)



novella seconda o del trauma


Da quando i maiali l’hanno caricato nel ‘92
il poveruomo è diventato demente,
passa il giorno a letto; di tanto in tanto
picchia a sangue l’albero di pere.




glory hole


siedi con me, cosa vuoi che
importi
se la morte ti germoglia sulle mani
o sul viso
io ho il nulla sul letto
e sbadiglia ed ingoia rumore

cosa vuoi che importi sotto il sole (?)
la vita è graziosa
noi avemmo il privilegio di non
durare
ricordi? qualcuno fecondò quelle tue
terre come fosse
un arcangelo




219


Erano labbra reali
parole reali nello stesso posto
e tu eri bianca come pane bianco
e ti ho toccata come un cieco
t’avrebbe toccata, avevi i capelli bagnati,
i capelli bagnati
anima



Angelus


Via dai culoni delle contadine
dove finisce l'orto.

La terra dà le grida del parto,
le carissime doglie, nasce la verzura.
-Sia lode alle molli latrine dei maiali-
la domenica non si lavora,
si posano le zappe e ci si veste per bene.
-Dio presenta al mondo le sue lattughe-
Ai petti tumefatti degli alberelli
una giostra di fieno, e l'anima uterina che bruca
di dita di pane a sazietà




264



Quella non fu una giornata
pregiata.
Angelino perse i suoi
tenimenti, l’oro e divenne cieco, sordo
e impotente.

fu molto morto Angelino,
fu morto come prima che il padre e la madre
facessero cose,
prima che il nonno facesse cadere la zuppa
nell’erba e prima ancora
dei laghi di Garda e delle rane
nei laghi

dove si trova, dove si trova adesso
il cortisone è un fiore, le api hanno la testa
nel muco e le foglie pregano




novella quarta o della distrazione



e fuori una canoa sopra gli uomini
i fiori, la morte che aveva riempito l’androne di casa

bisogna arieggiare la stanza dopo la malattia
far scolare, fare brodo
di pesce


passarono i vecchi, nell’erba del poggio
una capra era esplosa




stazione pioggia


dicono sia la morte questo senso
di spossatezza
questa stazione zuppa
di mosche


si dorme quasi sempre
uno sull’altro,
sui corpi fiorisce l’edera di casa
- io lo so che verrete
madre
il nulla ci mangia nella mano
come fosse un cane



Francesco Maria Tipaldiè nato a Nocera Inferiore il 29/III/1986. Laureato in farmacia. Ha pubblicato “La culla” (Lietocolle 2006), “Humus” (Arcolaio 2008) e con Luca Minola “il sentimento dei vitelli” (EDB 2012) con il quale si è aggiudicato il premio Mauro Maconi sezione giovani nel 2013. “TRAUM” (Lietocolle 2014) è la sua ultima raccolta.




Daniele Poletti

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Foto Silvio Pennesi

Daniele Polettiè un operatore culturale di sicuro interesse: studioso di Augusto Blotto, del quale porta avanti una poetica dell’irrapresentabilità del mondo, gestisce il blog Dia-foria, uso alla sperimentazione dei linguaggi e a studi sui padri delle avanguardie contemporanee (collaborai nel 2014 con un articolo su Gianni Toti, che divenne libro collettaneo – Totilogia, edizioni cinquemarzo – a cura della Casa totiana di Roma e, appunto, di Dia-foria).

Come accennato, Poletti è anche poeta, controcorrente per scelta, attore della parola che converge nell’idea che il genere lirico attinga a un fondo emotivo niente affatto gestibile con l’acrobazia della metafora secreta dall’io; piuttosto, parte dal principio che alla parola spetti d’essere metonimia del corpo stesso, inteso come pluralità di funzioni e disfunzioni, di fisiologie e patologie, prive di ordine gerarchico quando, appunto, diventano testo, texture, rete luminosa o smangiata, coagulo di tensioni e distensioni prodotte dal corpo. Il corpo orina, defeca, scrive; gli è vitale non per dare ordine allo spirito, bensì pulizia al sistema. Quasi come l’haiku per un buddista. Non sembra un haiku, infatti, il “crepuscocita” n.104? “Nell’acqua lercia del lavacro un timido pezzo di merda mi saluta timidamente”? Si provi a dargli la ieraticità della terzina, l’esperienza dell’apparire improvviso e la bellezza del particolare naturale (qui capovolta): “Nell’acqua lercia del lavacro / un timido pezzo di merda mi saluta / timidamente”.

La vicinanza all’haiku è ovviamente una forzatura, ma non troppo. La differenza sta soprattutto nel contesto: qui siamo alla fine dell’occidente, nella sfiducia piena verso la riorganizzazione dell’esperienza e nella credibilità del vettore storia; siamo in una condizione postuma, come direbbe Giulio Ferroni, ma non solamente della letteratura: del mondo così come lo abbiamo conosciuto, come ci è stato tramandato, in particolare dalla cultura umanistica e dei suoi altarini. Rovesciamento che talvolta diventa ostinazione compiaciuta verso il disgustoso: “Sei una vacca / lamentosa soprapparto uno stupro / non stuprato / che rigurgita le sue frattaglie” (Defixiones, crepuscociti, n.43); oppure l’incipit dell’inedito “Ipernova”: “Alluminato di cancro fluoro, piscia / del sole nuovo pompata nell’ano fuoriuscita / dalla boccale in un vomito di sera”.

Nella sua poesia convivono queste due anime: una sovradeterminazione espressionista, che carica l’evento di valenze escrementizie (ed è la parte che meno mi convince), e la scelta di una poesia appunto come organismo autonomo, come sistema che va indagato nelle sue strutture logico-formali che diventano strutture materiche del testo-corpo. Daniele Poletti non è solo in questa ricerca d’oggettività: l’avvicinamento alle scienze di molta poesia novecentesca attesta la volontà di uscire dalla palude sentimentale e approssimativa con cui l’occidente ha guardato alle cose dell’anima, distinguendole da quelle, considerate sudice, del corpo (lasovradeterminazione espressionista-escrementizia agisce sul capovolgimento del “sudicio” in metafora universale con la quale descrivere la fisiologia dell’umano).

Poletti, dal suo bunker, parla a raffica e si fa attraversare dalle raffiche di tutte le avanguardie immaginabili, ma anche fuggendolo l’illusione economicista secondo la quale disperdere energie sia l’esatto contrario della verità, da leggersi come sinonimo di profitto. La sua poesia, quella per esempio di Ottativo, non conduce in nessun luogo, in “gnessulogo” direbbe Zanzotto, doesn’t working, in apparenza ma, appunto per ciò, porta con sé i germi della rivoluzione, della destabilizzazione, e inquieta il lettore convinto che nella poesia la macchina dei sentimenti funzioni come un orologio svizzero: “Vasca vorticosa di girini portico l’orecchio del torace camera del plesso / dove amplessicaule rimbombano memoria di voci”. Significa qualcosa questo distico? Volendo sì, funziona, ma succede probabilmente come nelle macchie di Rorschach della psicodiagnostica, dove la forma tocca i nostri fantasmi e li chiama all’appello (questo tuttavia succede sempre, anche nella lirica, se ben riuscita).  Che cosa vedo in questi due versi? Una vasca con i girini e delle foglie attorcigliate a un fusto (“amplessicaule” significa appunto questo); per analogia: due corpi in amplesso, ma di questi riconosco solo un orecchio e un torace. E se invece fosse la parte curva di un torace, l’esterno, il suo “orecchio” che vedo? Il corpo è uno, solitario, masturbatorio. Sì, probabilmente il corpo è solo, con in testa uno sciame di memorie (l’Annetta montaliana vi sosta irrequieta?), la camera come una vasca vorticosa, e il corpo che sceglie di stare nel buio, dove memoria e desiderio salvano, forse. Vedo anche la desolazione di Corazzini dentro questa stanza, e i vetri non detti sono di cattedrale. C’è tutto il novecento, ma bisogna cercarlo. E questa fatica, non sempre piace al lettore.



Passer domesticus, Linnaeus, 1758


Gli occhi di tutti gli animali
da imbalsamazione, gli uccelli
occhi neri
hanno gli occhi neri tutti gli uccelli non nominati…
occhi bruno-chiaro
Pernice rossa, Ottarda, Rondine di mare maggiore…
occhi gialli
Basettino, Storno, Fagiano…
occhi rossi
occhi azzurri
occhi grigio chiarissimo o bianchi
Gli occhi di tutti gli animali
da imbalsamazione vengono forniti dal commercio.
Per il passero dell’ebreo si usa un ferro quattro.
Si racconta del passero di un ebreo.
Si tagliano e si sfoderano le zampe fino al torso
lasciando la tibia e le ali fino all’omero.
Nella piccola gabbia solo un trespolo
le cose travestite di luce vengono
è l’idea precisa dell’ossido sul torso
della mela lasciato sottratto l’abbaiare
è nel meccanismo delle ore viene
sui vetri la condensa dei fiati va.
Forse tornerà, ossalato e urato d’ammonio, fosfati,
sali minerali, nitrati sul fondo della gabbia
altri due giorni, avvertire il negozio in via Nazionale
che sto bene. Raccolto nel canto non piove.
Altri due. Tremito del piumaggio.
La presenza determina le possibilità dell’assenza.
Misurazione degli animali in carne
Lunghezza della coda (dall’uropigio alla penna più lunga) +
lunghezza del corpo = lunghezza totale.

                              

                                                                                    per Giuseppe Biagi



Marzacotto


La mattina a letto.
       Il male riserva sorprese.
       Un altro passero sbattuto.
Tutto becco giall’arcuato           :        ricordatelcom’era.
  Chiurlo casca secco in campagna.
  Il palleggiare contro il muro.
Continuo                                       variato
la crosta la scialbatura il mattone. Un anno.
Dietro di una giornata confusa fittile
       non fĭctus
                     mancata la solerzia
del sole poi ce ne sarà fin troppa.
Il soave dei bidoni degli scarichi a detonazione
di ottani denotano casa rassicurazione.
Pini e lecci piovono freddo lo staglio
        contro il cobalto nero.
                          Rotula e pietra
                          gomito e pietra
                          alluce e pietra
                          coccige e pietra
                          occipietra. C’è bassa resilienza.
Venti centigrammi di tartaro stibiato
in centocinquanta di tilia tomentosa
destano l’espettorazione delle immagini.
A onor di cronaca stasera proverò
a tagliarmi la gola, catturerò
un numero esiguo di zanzare, massimo nove.
               Erano vie a ritorno incerto.



Bada


Confuse negli occhi sgranano resina con l’approssimazione
dei denti. Il risveglio all’occidentale è un angolo retto di cosce
e tibie, l’uomo comune, fulcri di rotule pesi del sonno sterzati
sui due remiganti più lontani dalla fronte. Quale fortuna sia
che il terreno su cui stai ritto non può essere più largo
dello spazio coperto dai tuoi piedi. Due piedi di tutto due
di traiettorie certe e diverse col fiato nottoso, il primo ingoiare
e rimettere aria a mandibole slegate, caverna il respiro.
Aruspicina del cesso, fresco in faccia rimando degli anni
intravisti, il rosario di bottoni e cerniere, chiavi, meccanismi
due spazi due temperature. Il rosaio immemorabile radice
nodosa filipendula erba perenne bulbacee quasi quasi
d’uccelli quasi qualsivoglia quiqui quel quali quasiquell. Glossite.
I lampioni hanno perso di luna con l’eclissi del giorno ancora
ipotesi sconnessure vibrati, vista del cono di luce che tracima
la macchia, ma debole che cercarlo tra i tetti
e il verde mattino presto, il faro sta e starà di sette in sette
nel giro, negli intervalli nascondimenti distratture e frutti decidui.
In questa ora i luminelli sul muro giallo del canale sono tenui.




Comio


Il gancio serra nel legno
il battente, digradante vetro
che ottunde il grasso disegno
del colle già rammutito, metro
del salire lieve tra muraglione e platani sacellosi.

Denso di torba lo sputo
e conferente con la gravità
per poco in aria poi muto
sboccia in terra perduta levità.
In cima la via di fronte al feudo ventre il conflitto è conflato.

Giù e su per le antiche scale
ambulato troncone d’agnello
corpo pellucido male
che fienato seguita il modello.
Le vesti scorporate ammucchiate sono stracci da spolvero.

Empìti i laveggi enormi
migrazioni delle acque e clamori
di lavoro sui contorni
sul vetrato alto buio e lucori.
Nei fuori le densità non allentano si mangia si muore.

Le coppelle sui muretti
del chiostro, le carte i quadrigliati
la cura la doccia i letti
in spazio deroga il tempo in fiati.
Tutto ciò che occupa non rimane solo uno sciamito d’api.

Maggiano, gennaio 2012


(canzone, ottonari e decasillabi alternati con verso ipermetro di somma (18 sillabe) con schema ABABC
rime alternate)



Di cenere e d’ombra


Trasudano le domeniche ambulanti
i lunedì distratti ventricoli
della deflazione inflazione d’alberi
malati come di filossera ma è solo
inverno. Sul fumigare mattino
innervata di rami l’aria soffre
ipertenuse pazienti e sconsolate.
Ci hanno tolto o forse non siamo
riusciti a mantenere l’opportunità
di mangiare il sole, le costruzioni a colpi
di squadra popolare, loculi per i morti
nidi ingrommati di nevrosi.
Non tutto rimane
sono cambiate anche le ombre la filotassi
del tuo volto è diventata scalena
nel mio sono rimasti gli occhi.
Non ancora
un tributo alla notte labbra
scottate dal mozzicone quale resistenza
hanno opposto i capillari
del fumo
un tribuno del niente




Sui Quaderni in ottavo di K. (Ottativo)


I.

Tentennio di un non fissato a muro, passo svelto in specie di notte
sotto annuvolati limpidi tacchi tintinnaboli.
Vasca vorticosa di girini portico l’orecchio del torace camera del plesso
dove amplessicaule rimbombano memoria di voci
voce sconosciuta la tua ispessita dal callo, prece d’altare vespero
verbera verba, pregresso di voci che si accavallano dentro una camera.


II.

Nonostante la cura si consumano troppo in fretta sul mio stesso corridoio
calda sera in un’unica stanza che dà sul mio stesso corridoio, con porta
antelucana, la tromba, scalea ricca di libecci abita nell’andito di quella
porta che dà sul corridoio androne un rammendatore
e nonostante la cura si consumano troppo in fretta.


VI.

Conoscere per se stesso afferrandosi ai propri capelli su dalla palude
dalla legge di gravità abolita senza volo, gli angeli non volano
le creature impregnate di terra vedano terra ovunque misera
è la conoscenza che ho della mia stanza dove sostano rispecchiamenti
della terra, ovunque ci volgiamo le coordinate di permanenza
di un posacenere incertano il dentro dettato non dettabile.



Daniele Poletti nasce a Viareggio nel 1975. Poesia e performance sono le attività che da più di quindici anni si intrecciano nella sua ricerca. L’esperienza performativa parte da letture pubbliche per arrivare a veri e propri progetti di teatro del corpo.
Sul finire del  1995 pubblica, in edizione privata, la raccolta di poesie lineari Dama di Muschi, con i testi introduttivi del poeta visivo Arrigo Lora-Totino e dall’artista Antonino Bove.
Sue poesie e lavori concettuali sono apparsi su varie riviste e contenitori d’artista (Offerta Speciale, Risvolti, Geiger, l’immaginazione, BAU tra le altre).
Nel 2003 è presente nella raccolta collettanea di poesie L’ora d’aria dei cani, per i tipi di Mauro Baroni. Sempre per Baroni ha pubblicato il racconto breve Una giornata particolare.
Sul finire del 2005 pubblica la raccolta di poesie “Ipotesi per un ipofisario”, Marco Del Bucchia Editore.
Nell’aprile 2010 escono 10 sue poesie sulla rivista “l’immaginazione” (Manni editore) con una nota di Edoardo Sanguineti.
È presente ne La vetrina dei poeti del blog Il fiore del deserto con una silloge presentata da Lorenzo Mari;
su Poetarum  Silva con un’introduzione di Natàlia Castaldi, su Rebstein e su Trasversale blog con un testo di Rosa Pierno.
Ottobre 2013 testo dedicato a Emilio Villa, pubblicato nel volume collettivo PARABOL(ICH)E DELL'ULTIMO GIORNO. PER EMILIO VILLA Dot.Com Press.
Fondatore e promotore del progetto culturale [dia•foria: www.diaforia.org,  che all’inizio del 2013 ha inaugurato un nuovo spazio dedicato alle scritture di ricerca: f l o e m a - esplorazioni della parola (http://www.diaforia.org/floema/)



Saverio Bafaro

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Libro pervaso dalla rivelazione demoniaca e dalla verità dell’ombra, contrapposte al mondo dispiegato e luminoso della filosofia aristotelica, Poesie del terrore(La Vita Felice, 2014) di Saverio Bafaro ci riporta nel luogo senza tempo della paura, che nasce quando l’io comprende d’essere costantemente in un limbo slabbrato (irrequieto, sghembo, oscuro, brutto, dice l’autore), uno spazio asimmetrico e vorticoso, in cui l’identità si agita, ignara “della sua genesi e apocalisse”. Siamo sospesi tra due vuoti, direbbe Conrad, nell’età dell’ansia, aggiungerebbe W. H. Auden; se non fosse che la poesia di quest’ultimo è tutta intrisa di pessimismo storico, laddove Bafaro interrompe ogni legame causale con il divenire, per concentrarsi sulla condizione dell’esistente a sé preso, prescindendo dalla possibilità di qualsiasi salvezza, sia terrena che celeste. “Tu sei il tarlo che sgranocchia il cuore infestato” scrive in una quartina metafisica dominata da un agente corrosivo, “il tarlo”, che può essere il tempo distruttore ma anche la natura stessa dell’io, pervasa da Male, altrettanto metafisico.

Epigono di Lautremont, Bafaro ci consegna una sequenza di illuminazioni forse guidate dallo stesso intento adolescenziale di Maldoror: assassinare Dio, farlo a pezzi. E Dio, qui, è anche l’Auctor, la poesia, il gesto cortese, ogni segno che la tradizione riconosce armonioso e bello.

Tutto interessante e scritto con buon orecchio, sulla falsariga dei maestri ottocenteschi e forse memore dell’heavy metal e del fumetto dark, con la solennità profetica di chi rivendica la vendetta non per un maltrattamento subito, ma per la stupidità del mondo (“Al Mondo / la mia peggiore delle doléance” recita il primo distico), e tuttavia, se vale l’idea che fra vita e opera ci sia continuità, in specie quando parliamo di poesia maledetta, mi sembra che qualcosa qui non quadri. Non conosco Saverio Bafaro, ma dal suo curriculum vedo che ha fatto studi importanti, in ordine con quel “Mondo” che quest’ultimo libro vorrebbe gambizzare. Penso a Baudelaire, Rimbaud, Nerval, Ducasse, tanto per citare i più noti, e ci vedo pidocchi e sangue vero nelle parole, sangue che scorre prima sulla strada e poi diventa poesia. In Poesie del terrore ci leggo invece un canto addestrato, frutto di buone letture, che recupera immagini già viste, con pipistrelli, Bestie e putrefazioni, un canto che cerca l’effetto (ed evidentemente lo ottiene viste le lusinghiere recensioni e il recente premio “Ponteldilegno”).

Naturalmente sarò in torto io, che penso a una poesia contemporanea che finalmente si liberi del sublime demoniaco – è questo che trasmette Bafaro – per rifondare l’identità a partire da uno spaesamento radicale ma non mistico, lontano da vendette (“Pagherete / il mio sacrificio” minaccia una voce verso la metà del libro) e dal gotico romantico; una poesia che ci racconti il buio e la paura con immagini nuove, non consumate da una tradizione alta, inavvicinabile sia per il genio dei maestri e sia perché oggi viviamo irretiti da linguaggi e orizzonti di senso differenti.

Se invece l’autore, che si sta specializzando in psicoterapia, voleva raccontare i mostri che abitano chi è affetto da malattie nervose (e quindi in parte presenti anche in ciascuno di noi), allora qualche segnale doveva darcelo, qualche momento di stacco dal registro dominante, una stratificazione delle esperienze, una pluralità di voci, che avrebbero aiutato il lettore a orientarsi in questo inferno; se così fosse stato, il già visto avrebbe avuto un senso perché tutti sappiamo che cosa sia l’archetipo e in quali forme s’incarni. Così come Bafaro ce lo consegna invece, il libro non mi convince, malgrado sia accompagnato da alcune pregevoli tavole dell’artista Piero Crida, nate appositamente, e da una prefazione partecipata di Roberto Deidier.



Estetica non-aristotelica

Noi che abbiamo scelto il Brutto
e letto al contrario il libro dello Stagirita
conosciamo i risvolti
dell’armonico divenuto sghembo
del calmo divenuto irrequieto
del limpido divenuto oscuro
dell’ordine divenuto caos
del simmetrico non più tale
delle proporzioni volutamente saltate

***

Le case attendono
più in là della notte
basse lungo i binari
sanguina l’occhio
della sola finestra accesa
come un lume maligno

Le case attendono
più in là della notte
basse lungo i binari
schiere di serpi scacciate dalle chiese
contorcersi e sputare verdi bave

Le case attendono
più in là della notte
basse lungo i binari
le ruote dei vagoni-fantasma
sfrecciare invisibili e crudeli

***

Esiste un sorriso insano
– oltre la soglia del dolore –
impresso sul volto
come un assurdo promemoria
del tutto ignaro
della sua genesi e apocalisse


***

È l’attimo in cui
accoltelli il mio corpo
come colpendo su fette d’arancia
ed io credo nella lingua oscura
non essendo ancora approdati
sulla spiaggia inviolata

***

L’Oceano

Questa notte l’Oceano
veste i panni del Mostro:
bluastra creatura svenatasi
nel suo stesso ventre,
immense noie
trasudate da pori invisibili
urlano senza forze
un orrore accolto
nel gigantesco inganno

***

Lucciole

La mano mortale della notte
ha spalancato il palmo
per disperdere malvagia
gli antichi gioielli
lasciati cadere
con cura sinistra
tra le spighe scapigliate.
Fino allo spegnimento
urlano
voce flebile e
inaudita:
l’elettrica fratria
delle lucciole tradite


***


La pianta del basilico

Tanto odorosa
la pianta del basilico
cresciuta alla luce
del mio mare,
un poco meno
la testa seppellita
nel vaso
orbite riempite
di terra bruna
estratte dal Sogno
e date in pasto ai vermi:
«Mangiate piano l’amore integro,
mangiate piano l’amore vero!»
Dentro e fuori
vedo ogni giorno
in segreto
lo strazio e il fiore
la dipartita e la vicinanza
la mia contromossa
ai fratelli assassini

***

Occidente

Le aurore inorridite
nella parte dove
il Sole si uccide


Saverio Bafaro nasce a Cosenza nel 1982. Vive tra l’ Umbria e Roma. Ha pubblicato: Poesie alla madre(Rubbettino, 2007); Eros corale(2011) disponibile in formato e-book sul sito www.larecherche.it; Poesie del terrore  (La Vita Felice, 2014) – finalista Premio Pontedilegno 2015.
Sue opere sono apparse, inoltre, all’interno di antologie poetiche, di riviste letterarie come Poeti e Poesia, Fermenti;  di rubriche poetiche come “Lo Specchio” de La Stampa e di blog come Poesia2punto0, La poesia e lo spirito, L’Estroverso. Fa parte della redazione della rivista di scritture poetiche Capoversoe collabora con il sito Postpopuli.



Chiusura estiva

Alessandro Fo

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Gli ingredienti della poetica di Alessandro Fo ce li indica molto bene Cortellessa ne La parola plurale; in sintesi (e svirgolettato per agilità blogghiana): un crepuscolarismo intenerito che si combina con un virtuosismo spesso inesibito, un’attenzione alle cose minime, carezzate secondo l’insegnamento di quell’Angelo Maria Ripellino del quale Fo è stato curatore per l’Einaudi. Una poetica enunciata, come ci ricorda ancora il critico romano, in Argini all’entropia, una delle prime sue poesie edite (1988), dove si dice che al poeta compete di ricondurre “a unità lineare” la realtà “scomposta e piegata”, ma non per finzione o esercizio consolatorio, bensì per amore, per quello spirito compassionevole verso il destino caduco degli esseri, che impone la scelta del salvare nella pagina ciò che il tempo sta macinando. All’etica civile, pubblica, al dissenso schierato ideologicamente, Fo preferisce dunque il sussurro esistenziale, che non prende di petto l’ingiustizia o il malaffare perché, in una prospettiva più radicale, non ci sono responsabili assoluti al corso naturale di ogni cosa, leopardianamente consegnata al proprio finire, all’estinzione. Più che una scelta alessandrina, di manierata fuga nel bello per consapevole decadenza epocale (Cortellessa: “L’ultimo discendente di una schiatta letteraria illustre quanto minoritaria: quella degli alessandrini moderni”), a me pare che Fo, appunto, dialoghi con l’impermanenza intrinseca al divenire, con quei gorghi commisti di pieni e di vuoti, di sentire e svanire che è vita dei mortali, così come si dà nel tempo storico sin dal principio. E se età dell’oro è rintracciabile, questa vive nell’attimo fuggente, se sappiamo coglierne la tenerezza o, come direbbe Montale, l’occasione che salva.

Mancanze(Einaudi, premio Viareggio 2014) è un catalogo di presenze semitrasparenti eppure umanissime, colte nel loro passare e salvate con la parola poetica, ma anche con la creazione di un cielo non inquisitorio, per quanto imperscrutabile, vicino ai terrestri. È un cristianesimo francescano che suggerisce il dettato a queste liriche, il pane da condividere con gli angeli, in una comunione sospesa, come le viandanze di Chopin, che in questo libro diventa maestro di stile, per tocco leggero ed estrema dolcezza, per la capacità di dare sostanza all’impercettibile e all’impalpabile. Quest’ultimo assunto piega anche l’intenzione originaria di arginare l’entropia con strutture sintattiche quadre, per darle scacco, invece, in un dettato franto, mimetico all’aleatorio vorticare del senso, che forse, pare suggerirci il Fo più maturo, non si consegna al caos entropico, ma piuttosto verticalizza in un mulinello arioso e centripeto, che, plotinianamente, dal cuore sale a Dio, dalla pietra all’Uno. In questa prospettiva, compito della poesia non può essere dar conto dell’indicibile, ma far parola dell’esperienza finita quando questa tende all’indicibile, quando lo presuppone per riconoscersi sensata. E ogni esperienza può essere fondamentale se chi la compie ne coglie la tensione tra finito e infinito. Eppure non può esserci perfetta linearità continua in questo; ne consegue che ogni vivente sperimenta su di sé le lacune, la corruzione, le “reliquia desiderantur”, le mancanze, appunto,  con cui il tempo storico inevitabilmente impasta la realtà, tenendoci così in bilico tra fallimento e speranza di ricomposizione.


La ricerca del senso ha tuttavia un’altra dimensione, l’orizzontale, che si traduce in Fo nel costruire una rete di citazioni, di legami partigiani fra uomini magni ed esistenze minute, accomunate dall’essere state attraversate dal sentimento di quel bilico, figure di un eroismo della consapevolezza e spesso conosciute dal poeta attraverso i libri, come ci spiega l’appunto che chiude Mancanze(tali sono per esempio i canti dedicati a Chopin, nati dall’amore per le sue sonate, ma anche dalle suggestioni di Andrè Gide sul compositore polacco e dalla biografia sul medesimo di Jaroslaw Iwasztkiewicz). I riferimenti colti, se letti in questo modo, non disturbano in quanto sono connaturati alla poetica della relazione, del dialogo fra i vivi e i morti, al sentirsi parte della comunità degli affetti, il cui lascito ereditario, nel profondo di Mancanze, consiste nel tramandare la lingua e i suoi tremori, l’esperienza e la sua inenarrabile contiguità con il silenzio.

Marta Fabiani (un omaggio)

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Questo articolo nasce dalla lettura di un post di Mariapia Quintavalla pubblicato sulla sua pagina facebook. Eccolo:


“Questa sera una notizia scioccante ha fermato la mia vita e dio non la sapevo: è morta MARTA FABIANI, una grandissima, coetanea poeta, del secondo novecento. E'avvenuto questa estate, nessuno me ne ha parlato. Sento quasi ogni giorno poeti o sedicenti, e nessuno, ripeto, ne ha dato notizia, Segno che i desaparasidos devono essere zitti. Ora, Marta pur avendo avuto una certa fortuna di pubblicazione e lettura, e riconosciuta da Raboni, Porta ad es. negli anni settanta, all'improvviso, col girare del vento degli anni ottanta, solidificate confraternite, scompare!!! Va a vivere in Francia, le tolgono le figlie, (figlia di una famosa critica d'arte). Ora quello che mi sconvolge è che cosa io debba fare: di fronte a queste, troppe ormai, sorelle di cui la chiave si è persa nel castello (anche interiore ) di Barbablù. Omertà e silenzi, cupole e indifferenza le hanno tacitate. Sono ancora viventi o sono morte, sono però inoffensive: le pagine della critica e del canone hanno saltato a piedi pari di integrarle, ritenerle, come si doveva, innovatrici formidabili, come i loro coetanei! Vorrei qui ripetere che Fabiani e è una grandissima . Ed io avevo deciso che la mia vita svoltasse verso auto realizzazioni e amore di sé pacificati, oltre all'impegno etico dei sempre, io, ora, sono impietrita. Come ignorarlo al convegno su Nadia Campana, come non essere scossa, dalla loro vita marginale ed eroica e distruttiva, sacrificale di sé? Non lo so. Quando vedo ogni giorno la cancellazione progressiva di memoria di uno, di due, di tre decenni addietro, mi prende la voglia di cancellare tutto, allora. E sarebbe partita vinta, ma giovani o meno, svegliatevi è l'ora: di riaprire tutte le carte rimescolare tutti i giochi, chiusi –”

***

È il “Correre della sera”, il primo luglio 2014, a dare la notizia della morte di Marta Fabiani a livello nazionale. Se ne incarica Franco Manzoni, che con un breve ma sincero coccodrillo, la definisce “Poliedrica, sensibile, geniale, una donna forte e fragile,” ricordando che fu tra “le prime in Italia ad eseguire performance utilizzando voce, corpo, movimento per rappresentare il malessere femminile nel quotidiano.” Manzoni ricorda che la Fabiani aveva pronta una nuova raccolta, L’arte del sognare, che si augura di poter vedere edita presto. Sarebbe doveroso, a questo punto, che tutta l’opera della poetessa vedesse la luce.


***


Un’interessante lettura della sua poetica la diede Luigi Cannillo, inserendola in uno studio intitolatoLa Resa dei corpi. La ferita della materia nella poesia di Giorgio Luzzi, Marta Fabiani, Patrizia Valduga, Michelangelo Coviello, Dario Bellezza (in Sotto la superficie-Letture di poeti italiani contemporanei, Bocca Editori, Milano, 2004):

 […]

Negli ultimi decenni è sembrato emergere ed affermarsi piuttosto un distacco problematico/critico rispetto alla rilevanza delle dimensione sociale e alla capacità affermativa o seduttiva del corpo. […] Quello che ci perviene, in autori/autrici e raccolte significative, è la rappresentazione di una condizione del corpo non solo di rivendicazione, ma anche di separazione e rinuncia, come di distacco dalla propria vicenda materica contingente. Si tratta di un arresto, se non di una resa provvisoria,  di fronte alla complessità di fenomeni politici collettivi o, anche, di una presa di coscienza del proprio stesso deperire. Lontano e separato dai suoi presunti fasti, il corpo resta testimone insostituibile, naufrago, scarnificato nella sua funzione, reso itinerante alla e dalla poesia come prototipo, simulacro, bambola.
Allo stesso tempo sono proprio i nodi problematici che attraversano il corpo a innalzarlo a figura emblematica del distacco e della ferita all'interno della natura, della materia e della nostra società.

[…]

In Marta Fabiani la funzione della scrittura poetica accentua ancora maggiormente la forza del vissuto, non tanto su un piano collettivo o metafisico. Qui il corpo più che pensante è corpo percettivo e percepito nella propria storia personale. Le esperienze esistenziali sono strettamente legate al femminile, a una linea a un quadro familiare definito. Sia che ci troviamo in un ambiente domestico borghese che in una dimensione onirica l'autrice trasmette il tragico e ineluttabile nell'eseguire il proprio vissuto, sia nel rapporto con l'uomo, suggestivo ma deludente, che nella propria identità familiare di donna, sulla quale pesano pregiudizi precedenti o aspettative che il Soggetto non riconosce: un insieme di vanità e tragico che indignano, portano alla denuncia oppure sfociano in fantasie di morte.
Nelle raccolte poetiche di Marta Fabiani è assolutamente centrale la componente autobiografica, posta in gioco direttamente, messa alla prova ed evocata da e con personaggi talvolta circoscritti, ricorrenti e riconoscibili, altre volte da figure fantastiche, angelico-diaboliche. I testi vivono la pressione della centralità assoluta dell'Io rispetto agli avvenimenti e della loro restituzione attraverso  una sincerità spudorata o rifermenti simbolici: «Qui è il gennaio perenne, in una stanza/ vuota spazzata sempre sporca e sempre/ rutilante. Tentenno sulla soglia, criminale,/ truffatrice, profferta, che al risveglio/ si pettina e si trova sempre uguale./ E tu non sai perché si aggroppano i capelli/ perché vengono i brufoli, e ti attacchi/ circospetta alle bambole, perché devi/ infinite volte/ toccar con la sinistra quel ch'è stato/ con la destra. Stretta da confini/ che incalzano, dai dirupi degli sguardi/ come verghe su pecore smarrite.»
Lo spazio vuoto e la soglia, evocati in questa poesia da Le nanerane (Ed. Il gatto dell'ulivo, Balerna,  1988), evocano una storia di donna, per raccontare la quale Fabiani vive e supera orrore e vertigine. Nei cicli del corpo, come nei cerchi nel legno di un albero, è inscritta la propria vita, e ognuno di quei cerchi porta con sé personaggi, microstorie.
La forma lirica, incline sempre più verso la narrazione, ha assunto poi la forma della ballata, utilizzata in senso moderno come ampia e duttile struttura narrativa. Così in particolare la raccolta Ballate dell'odio e del disonore (Manni, Lecce, 2002) ha consentito all'autrice una libertà espressiva assoluta nel sottolineare slanci e ripiegamenti, ed  è pare integrante della necessità di raccontare l'estremo e la complessità dell'esistere. La materia del vissuto così stratificata si presenta in questi grandi affreschi con i riferimenti simbolici e la carica visionaria tipica della Fabiani. Specificamente femminile, spia per esempio le funzioni corporali più intime e la materia emblematica delle fasi della vita di una donna e del rapporto tra i sessi: il sangue mestruale: «Ricusata/ con l'acqua sporca buttano la bambina,/ la donna che affluisce nel suo sangue/ e vi affoga, adieu, adieu./ Dissero che era il suo: dei suoi peccati/ mensuali, calcolati secondo un calendario/ sfasato gregoriano. Ora/ l'alta marea le copre le ginocchia/ come una gonna rovesciata, rossa/ di venature marmoree di candoglia./ Il sangue che segnala la presenza/ di una vita cosciente è la sua assenza/ la caduta del vessillo dell'ape-navicella/ che si gonfia e si affloscia a un ritmo personale,/ estenuante, purgandosi ogni volta del suo sangue./ La coppa e l'interezza, ecco ciò/ che non riusciva a reggere: ogni cosa/ si falla e defluisce, la pietà, la casa, l'amor filiale./ Il marito, un Davide colossale che gettò il sasso,/ e fece sgorgare quello zampillo rosso notte e giorno/ perché non fosse più soggetto alla strenua legge/ naturale, ma getto continuo, verticale, eretto/ come un esempio, un monito illustrato per aver/ navigato l'intero fiume della legge del menarca/ fino alla fonte, e avervi trovato/ l'Arconte, il padre morto e smemorato/ il padre del suo fiammante libro rosso.
Il vissuto sembra quindi assumere una forma circolare, di ritrovamento, dove ogni punto di arrivo può coincidere con un punto di partenza. “Senza passato/ non si costruisce passato”, scrive esplicitamente Fabiani. Le sue poesie sono stazioni di perdita e ricerca del Sé, descrizioni di personaggi, identità che diventano maschere, in un apparente disordine di allegorie e divagazioni descrittive. Dignità e rivendicazione sono i fili a cui annodare i diversi testi e che fanno esplodere la necessità di osare dire l'indicibile, ciò che di più intimo e riposto esiste sotto le apparenze delle convenzioni sociali. Fino a ricercare quella interezza ferita che l'autrice non riesce a ricomporre. Tra la donna-bambina, figura ricorrente nei versi, e il compimento della cosiddetta maturità esiste una serie di passaggi, le stazioni del dolore, dove l'unità si frantuma, la vecchia identità/età è in pericolo, messa alla prova, e la nuova non si realizza ancora, non si riconosce né nel proprio passato né in prospettive future.
A prescindere da ogni retorica rivendicativa, sono le convenzioni borghesi, le costrizioni familiari, fatte proprie e tramandate da una linea familiare femminile, a essere carnefici della libera esistenza. Si tratta però di un processo portato successivamente a compimento dall'Uomo. Nel rapporto tra i corpi si misura la distanza e la separazione, e nel corpo la scissione dell'identità. La salvezza è per Fabiani, più che nel non subire nuove stagioni esistenziali, la sopravvivenza delle diverse parti di sé,  e il riconoscimento di queste non può prescindere dalla spietata analisi e dal dire contro e oltre le convenzioni: «Con l'Uomo consumavo il mio calvario,/ il fornicante, maleodorante gnere infisse/ chiodi su chiodi nei miei polsi bianchi/ e bravamente, credendolo oltraggiare, tenendo testa,/ lo spingevo avanti. Quel delirio corrivo reiterato/ lasciò un pesante strascico nuziale/ carico d'api, lungo come un convoglio/ di deportati che non giungono al campo./ E nella luce/ devastante del giorno sul telone/ vedono visi aztechi, il male/ venuto fin qui a propagandare/ le sue fiale ormonali 'ingoia e taci'./ E la vita che avanza di spalle al finestrino,/ quella prima del male, scansata, piccina,/ ancora tuta da coltivare/ per poterla finalmente adottare/ un giorno, come orfana.»

[…]


***


Le naneraneavevano la prefazione di Mario Lunetta (la riporta “Le Edizioni ulivo”):
[…] Adesso, in questa nuova raccolta Le nanerane, l’inclinazione meno rassicurante della torva vocalità della Fabiani pare riprendere nettamente quota, e sistemarsi perigliosamente all’interno di un canto soffocato, di una sliricata smemoratezza di sé. Le “nanerane”, sono definite dall’autrice “raccapriccianti revenants” e comunque insopprimibili “muse ispiratrici e inquietanti”, e hanno ambigua funzione di spiritelli o di angeli.
[…] Il tutto, dentro un delirio accentuato di perdizione e di instabilità, di disordine e di buio, regolato con estrema sicurezza da una griglia metrica in cui l’endecasillabo lavora da pivot insostituibile, e al tempo stesso si pone come diagramma regolatore di un magma interno che fa crudeltà a se stesso fingendosi acquietamenti e pause che all’antica virulenta vitalità sostituiscono puri movimenti di teatro, fantasticherie sceniche; insomma – ancora una volta – simulacri e nulla di più.


***


Le Ballate dell'odio e del disonore contenevano una nota introduttiva di Giancarlo Majorino. Questa: 
“ Slanci... Slanci sorretti da un pensiero crudo e chiaro, ansioso di poter “chiamare” disonore, odio, ciò che amaramente respiriamo. Ballate e non forme più concentrate, senza tutavia che concentrazione e bellezza manchino. E' il neolibro di Marta Fabiani, una grande prova che mina, non rinunciandovi però, le costruzioni e le distruzioni del passato, ora divenuto giustamente presente e magari futuro, qui nella poesia dove i tre tempi canonici ballano, e severamente e scherzosamente.
Un indice di memorabili versi o salienti si può certamente stendere ma scalfirebbe l'inquietudine maggiore del libro, quella che intende disporsi per lasse, strappando al narrare certe prerogative: meglio fuoriescano da sé, nel sillabare o udire cavo del lettore, brillanti come un gesto amoroso o voci attese. E' che dettagli e sostanza di un vissuto composto di più vissuti s'arroventano a contatto e contagio di un'immaginazione radicalmente violenta, impaurita mai.
Altra filiera di acquisizioni scende da un'irrinunciabile libertà ben contemporanea perché incorporata senza riserve, che può di volta in volta agglomerare nidi di senso e suono, timbri trasformati del dovuto, coercizioni disossate e vagabondanti in una sarabanda tagliata per “noncuranti sprazzi e microstorie intensificate: il tesoro, insomma, del romanzo, del racconto issati nel verso.
E, ultima approssimazione, un linguaggio ansiosamente sostenuto da passioni, vergogne, moti condivisibili che puramente un sotterraneo desiderio di comunicazione malgrado tutto sorregge.”


 [Ringrazio Luigi Cannillo per il materiale che mi ha fornito e con il quale ho in gran parte organizzato questo post. Di Marta Fabiani avevo già scritto qui]


***

da Maratona, 1977


Poesia n. 19



Ci sono voluti
uno svenimento
un fidanzamento
un'aggressione notturna
un po' di sadismo
una protesi mammaria
una rovina finanziaria
la mia poesia (se non è poco)
per far pronunziare a tua moglie
la parola: fica.
Ma adesso lei la pronunzia
in un modo eccezionale
benché un po' tremulo, a volte
per paura di versarla
nella pappa dei bambini
e allora sarebbe tutto guasto di nuovo
sarebbe figa come magagna
o ferrovecchio, l'ennesimo dispetto.
Ha riempito di frutta le tue coppe
ma, che disdetta,  ancora non ci vede la metafora.
Anzi, vuole succhiarti
senza grazia i tuoi ricordi osceni
e imbandirli ai tuoi ospiti, mentre solleva
occhiate maliziose dalla minestra e dice
«a noi ragazze non c'insegnavano» e riscuote
benevoli consensi agli anni persi.
Tu li hai persi, eh sì, ma in altro modo.
Giravi a vuoto con il tuo tesoro, e ora
lei ti sbatte sul tavolo la spesa
cazzi di plastica, carote, preservativi
pergamenati, i più cari, e poi a quattro zampe
s'industria, assieme a trote e maialini
col tovagliolo, sembra proprio
che a dire «mangiami» le venga l'acquolina.
Guarda come impallidiscono
le robuste emicranie del passato:
sdraiata accanto a te lo fa ingollare
il frutto prelibato, tutto quanto
chicco per chicco, finché
non ti ritorna l'uovo marcio al fiato.




Poesia n. 22


Eh sì, eh sì
miei signori anfitrioni
quando ero un po' linfatica
e appena mestruata, e impallidivo
di fronte alle prodezze
delle dame secolari, e mi scoprivo
le cosce, che erano sublimi, ma, ahimé, ancora
così poco espressive,
al bar, al ristorante, c'eravate
grossi tonanti burberi, pronti a dire
tra una birra e un tramezzino
«roba da marchette» oppure
«tuo fratello marchettaro».
Adesso mi tocca ascoltare le vostre battute
dolorante di spalle, sotto il peso
di un'influenza cronica, ancora
incespicante per via di una moda
di riflesso condizionato malappreso
e rimpinzarvi
di allusive occhiate disilluse, e accarezzare
i vostri cani chow-chow, le penne stilografiche
perché una bocca spalancata di stupore
se le accaparri, a una voglia
subito gratificata in cambio di una barzelletta
comari, uccelli con le ali, vulve birichine
niente è cambiato, niente, tranne questo tic
invisibile naturalmente, riportatemi
alla parola caduta in disgrazia
all'insolenza desueta, più sicura
più sicura della vostra
camerata.





Da Le Nanerane, 1988



Mostri monotoni
non avete letto
il libro dei mutamenti?
Non è più il mio letto
il vostro campo di battaglia
né io la viola passa
tra le lenzuola dell'immondo libro.
Altre vite sfogliate, altre alleanze.
Aria, aria, via. Altre stanze.





da Ballate dell'odio e del disonore, 2002



Certe nicchie
profumano di pace, t'invitano
a non guardare in tralice la scure
che trancerà il passato, e fuori campo
la tua vira con esso.
Stanno appostate agi angoli umettati
della visione quando a briglia sciolta
torna alla stalla nel girabondare
rapito tra le tempie.
L'ombra sinuosa, palpabile di quei ricordi
protunde e si slancia come un girfalco
da un Duomo che t'inchioda il volto in alto.
Vi è via d'uscita? Sì, passando per essi.
Ma ti toccherebbero le spalle, con dita così fini
come il poeta le ha descritte. E andresti
al sacrificio turbato da quei guanti.
Dov'è quindi quella profondità di campo
che sognavi? Quello
stacco errato che ti avrebbe permesso
di ascendere a pensose solitudini?
Uno, uno solo è morto
così completamene solo. Le vesti delle statue
piangono petali di rose.




**


Se devi gridare al lupo fallo presto,
a guancia tenera, quando l'occhio
è umettato di acquetta cilestrina
tra due tende di salici del pianto.
Può darsi che ascolti.
Può darsi che gli strappi una promessa
di arrivare, non sai, ma solo quando
avrai alzato le tue torri in alto,
fin dove l'occhio arriva,da uno spalto.
Ti stupirà con il suo passo
moderato con brio, con il fracasso
tremendo dello spirito di uguaglianza
con cui la spunterete su ogni chiave,
tu il tuo passe-partout per ogni stanza.
Vedrai sovrani in bagno accoccolati,
tu stessa in ritirata, un elmo in testa
di forcute forcine, le stesse
con cui volevi infilzarti gli occhi
chiamando il putiferio: questi
e altri prodigi in una notte.
Lui si sciacquerà la bocca
a compito finito, e riprenderà il suo andare
dinoccolato, senza tema che lo sorpassi.
Tu lentamente guarderai all'indietro
dall'altra parte del castello, dove si apre
tutto il mondo: e vedrai l'infuriata
muta dei cani superare il fosso.




**



Allora, da bambina, non sapevo
spiegarmi il mio sguardo triste e attonito,
pensieroso e incantato. Era la vita
che portavo in braccio, un pacco
la ragione di quel peso.
Ora se ritorno a quello sguardo
passando per i neri salici, le pietre
incatramate trasudanti estate
da estate, per le rotaie
annodate in un mucchio,
lo sguardo si riempie del mare del passato
che non riesce a colmarlo, quanto
quello che allora aveva avanti a sé la Morte
senza che mancasse un granello, un solo granello
di pianto, un sorso d'acqua strappato alla bottiglia
posta ora come lente
tra le cose viste, sfumate
e l'incolmabile distanza
da quelle che mai potrò vedere.



Marta Fabiani (1953-2014) ha pubblicato, tra l'altro, le raccolte Maratona (Cooperativa Scrittori, 1977), Le Nanerane (Ed. Il gatto dell'Ulivo, Balerna, 1988) e Ballate dell'odio e del disonore, /Manni, Lecce, 2002). Ha curato e tradotto l'epistolario di Sylvia Plath e liriche scelte di Christina Rossetti. È stata  autrice di numerose commedie radiofoniche per la Radio della Svizzera Italiana. Ha studiato danza e recitazione con grandi maestri con Herbert Berghof e ha portato le sue poesie in teatro.




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