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Chelsea Editons a Milano

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Biblioteca Sormani
Sala del Grechetto – Via Francesco Sforza 7  

e Milanocosa

invitano ad AttraversaMenti
 28 novembre 2014– ore 17,30

serata nell'ambito di
Milano Cuore di Europa
con gli Autori di Chelsea Editions:
Rinaldo Caddeo, Maurizio Cucchi, Gabriela Fantato,
Giampiero Neri, Giovanni Raboni, Adam Vaccaro

coordina
 Adam Vaccaro
con contributi e testimonianze di:

  Sebastiano Aglieco, Stefano Guglielmin, Mauro Germani,
Sean Mark, Alessandro Rivali, Mary Barbara Tolusso,
Patrizia Valduga
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Chelsea Editions, New York, fondata e diretta da Alfredo De Palchi, svolge da decenni una funzione preziosa volta alla conoscenza in America della poesia italiana contemporanea.
Le Autrici e gli Autori di Milano delle prestigiose edizioni newyorkesi dedicano un incontro   di testimonianza e riflessione critica, in un momento in cui la cultura più attenta agli orizzonti internazionali impone anche all'espressione poetica aperture e rinnovamenti adeguati.   
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Entrata libera


Info:
Associazione Culturale Milanocosa – www.milanocosa.it– c/o A. Vaccaro, Via Lambro 1 – 20090 Trezzano S/N
T. +39 02 93889474; +39 347 7104584 – E-mail: info@milanocosa.it; adam.vaccaro@tiscali.it
Ufficio Conservazione e Promozione Biblioteca Comunale Centrale – C.BiblioPromozione@comune.milano.it




Guglielmin, Maybe It's Raining (Chelsea Editions)

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Fra qualche settimana uscirà, per le edizioni newyorkesi Chelsea, di Alfredo De Palchi, una mia selected poems dal titolo Maybe It's Raining, con traduzione di Gray Sutherland.

Questa che segue è l'autopresentazione.


Dopo le due prove giovanili (Fascinose estroversioni e Logoshima), ancora debitrici verso lo sperimentalismo italiano degli anni sessanta, sono passati quindici anni prima che uscisse il mio terzo libro, Come a beato confine, nel quale ho cercato di raccontare l’esperienza dell’identità nel suo passaggio da struttura forte a sostanza dialogica, aperta al prossimo. Se la poesia vuole davvero parlare agli uomini, ho pensato (anche sulla scorta di tante buone letture), essa deve mettere ai margini l’identità autoritaria, quella che sa sempre tutto e impone le proprie scelte agli altri. Per questa ragione, in Come a beato confine l’identità sceglie di essere debole per salvare lo spazio, il confine, che ci tiene vicini e ci permette di parlare, ciascuno con le proprie difficoltà. L’ultimo capitolo del libero, “Dappertutto”, mette in scena un mondo spaventato, dove i più deboli soccombono e la storia è governata dal terrorismo e dalla finanza internazionale. Il motivo ispiratore è la catastrofe del World Trade Center del 11 settembre 2001.

La distanza inmmedicata, attraverso l’allegoria dei fiumi, il loro differente modo di essere, è un libro che indaga l’impossibilità di essere stabilmente felici, di ricomporre la ferita originaria, indipendentemente sia dal luogo in cui si vive e dalla qualità degli affetti. C’è l’idea che l’origine sia perduta per sempre, anche se il desiderio di tornare nell’armonia dell’inizio ci spinge costantemente a scontrarci con le cose, con le persone e con noi stessi. La lotta è violenta e può portare alla morte oppure, quando ci va bene, a produrre un’opera d’arte, qualcosa che custodisce per noi quella separazione e la rende feconda di bellezza. È una bellezza moderna, figlia del terrore, del desiderio e della malattia, come in Baudelaire.

C’è bufera dentro la madre uscì in plaquette autonoma ed è stata poi ripresa tale e quale in Le volpi gridano in giardino. Quest’ultimo libro è diviso in due parti: la prima affronta, per la prima volta in modo così esplicito nel mio percorso poetico, il tema amoroso; la seconda parte continua la riflessione etico-civile sulla società contemporanea, in particolare su quell’area italiana industriale e culturalmente piena di pregiudizi che è il Veneto e la Lombardia. C’è bufera dentro la madre dice appunto la bufera che tormenta l’economia e la morale di queste terre, piegate dalla crisi economica attuale, ma già devastate in precedenza rispetto all’idea di solidarietà e di salvaguardia della natura. Al centro del testo c’è l’imprenditore, la sua famiglia, la fabbrica, l’ambiente, tutti macinati nel ventre della Madre, ora moribonda. Un altro testo esemplare, in questo senso, è “Voglio dire”, poemetto che parte dalla crisi culturale del’occidente, per poi fare i conti, anche attraverso giochi linguistici credo intraducibili in altre lingue, con alcuni maestri del canone italiano del novecento e con la possibilità stessa della poesia di essere significativa dentro un sistema che non crede più alla parola autentica.

Gli inediti non potevo che scriverli ora, che ho un’età in cui fare i conti con la mia giovinezza. Ciao, cari sono i testi più autobiografici che abbia mai scritto, sono un saluto affettuoso ai miei morti, a quei ragazzi e ragazze con i quali ho condiviso quasi tutto, e a qualche adulto, amico, che non è riuscito a vivere in questo freddo.


Fabio Giaretta su "Le vie del Ritorno"

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È uscita oggi, su "Il Giornale di Vicenza", la prima recensione al mio Le vie del ritorno, scritta da Fabio Giaretta. Eccola.


Con la nascita e con il conseguente allontanamento dal grembo materno, da “quell’Inizio che è principio stabile e protetto, ma già da sempre perduto”, l'uomo sperimenta la dimensione dell'esilio e della finitudine in quanto essere mortale. Si sente spaesato e questo lo spinge a cercare incessantemente una comunione con il “centro del mondo” inteso come terra abitabile “in cui situarsi se non altro da nomade, da viandante” e in cui ricercare la pienezza del senso. Partendo da queste considerazioni, Stefano Guglielmin, nel suo ultimo saggio intitolato Le vie del ritorno (Moretti&Vitali, pagg. 135) indaga come questi temi, che il poeta e critico scledense chiama “tensioni aurorali della caducità”, ossia esilio e morte, vengano sviluppati in due generi letterari opposti, il comico e il tragico, e in tre autori dell’illuminismo francese quali Diderot, Voltaire e Rousseau.

Per quanto riguarda il genere comico, Guglielmin compie una scelta controcorrente: decide cioè di mettere al centro della sua analisi le “Rime” di Cecco Angiolieri con l’intento di smontare la visione di Pirandello che considerava i versi del poeta senese delle facezie prive di profondità e drammatizzazione. I versi dell’Angiolieri, invece, mostrano una profonda tensione drammatica legata per l’appunto al tema della caducità declinato sotto forma di un duplice esilio: dalla società e da Becchina, la donna amata dal poeta. A livello sociale, Cecco cerca accoglienza e riconoscimento tra gli uomini subalterni al potere e/o in conflitto con esso, in nome di una marginalità che diventa condivisione e da qui, dalla necessità cioè di essere accettato, nasce la volontà di usare il registro del comico. Becchina, invece, si pone come unica fonte di gioia, madre terribile che potrebbe salvarlo dall'esilio e che invece, con il suo rifiuto, lo getta in un immedicabile stato di mancanza.

Per quanto riguarda il genere tragico, Guglielmin si sofferma su “L’Orestea” di Eschilo in cui il tema della caducità si manifesta sia  in chiave individuale, in quanto tutti i singoli personaggi, soprattutto Agamennone, Clitemestra e Oreste, sono degli esiliati nel senso già specificato, sia in chiave sociale. In questa seconda accezione, “L'Orestea” permette di fare i conti con il momento della nascita della società e di dare una forma simbolica al suo inizio-esilio che nasconde sempre l’indicibile violenza da cui la civiltà proviene. In questo modo la comunità può guardare in faccia la condizione ferina, fatta di sangue e violenza, insita nella sua nascita e legata ad uno stato di natura, ergendola a monito di una nuova infanzia - lo stato di diritto - frutto questa volta dell'unione della sapienza umana e della sapienza divina.

La seconda parte del libro, invece, si concentra sul tema dell'altrove analizzato in Diderot, Rousseau e Voltaire. Altrove inteso come altra possibile via attraverso la quale rifondare una nuova nascita, caratterizzata da una pienezza individuale e sociale, da una verità insomma che scaturisce dal confronto con l’irrazionale e le culture dell’oriente, oltre che dall’istinto e dell’esperienza del corpo nello spazio. Secondo Guglielmin, infatti, “la verità illuminista non nasce né da un concetto astratto né dalla rivelazione divina; è invece l’incontro di forze molteplici e incontrollabili, che convergono verso un centro mai definibile a priori che spetta alla parola tenere nell’aperto del dialogo politico, là dove le scelte hanno luogo”.

In questo saggio molto denso e acuto, Guglielmin, facendo interagire differenti saperi, da quello filosofico e psicoanalitico a quello antropologico, dalla storia delle religioni alla critica letteraria, e usando il tema della caducità come grimaldello, ci offre un importante e originale contributo capace di aprire nuove prospettive critiche all’analisi delle opere e degli autori trattati.


Annamaria Ferramosca: Ciclica

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Di che cosa tratti Ciclica(La Vita Felice, 2014), l’ultimo libro di Annamaria Ferramosca, me l’ha scritto direttamente lei in una mail: “il tema si identifica con la nostra richiesta di senso lungo ogni fase della vita e occasione del quotidiano, insomma come una continua vigilanza che acuisce il dolore di fronte al degrado globale, dell’umanità e della natura.”. Due sono quindi i temi entro cui si muove quest’opera: l’inevitabile “urto” del mondo sugli esseri, che è incontro / scontro, modo in cui si sta nell’aperto dell’esistenza, sempre segnato dal contatto; l’autodistruzione della civiltà o perlomeno il suo progressivo imbarbarimento, “gli infiniti modi [che essa ha] di sprofondare”.

Il libro si apre con la necessità di scegliere dentro la confusione di facebook, entro un mondo ipertecnologico che sfalsa le relazioni. Il contatto diventa così contagio malefico; l’occidente tutto, invero, contamina il mondo con il suo tramontare “senza ritorno di alba”, lo travolge. “L’insulto alla terra” è costante e, proprio per questo, noi dobbiamo ripensare il paradigma dello sviluppo, l’irrazionale equivalenza tra benessere e felicità. Dovremmo imparare dagli alberi, ci dice la Ferramosca, “mappe di salvezza / dispiegate nei rami”, testimoni di pienezza che ci invitano a curare frutto e radice e a tramandare il messaggio: “sii migliore del tuo tempo”. Perché ciascuno di noi è appunto relazione, per quanto assediata dal buio: “Il toccarci denso abbiamo / il vederci   il pensare   il nudo fare”. Ecco che l’urto può essere gentile, come recita la terza sezione del libro; “il tocco-random di una mano / che plasma e scompiglia” aveva scritto in Fioriture, quasi in principio di Ciclica, così che il contagio non infetta, ma salva, se risultato dell’incontro tra parola e cosa: “Con la lingua vorrei solo esultare / […]  sulle cose far luce / anche feroce […] / o velarle le cose   di compassione / coprirle scoprirle interrogarle / romperle corromperle / ammalarle infettandomi   guarire”. Lei, biologa, sa quel che dice, conosce la natura uniforme della materia, l’esser fatti della medesima sostanza, in quel centinaio di elementi chimici organizzati nella tavola periodica.

L’altro collante è la memoria, l’infanzia che la memoria recupera anche attraverso la scrittura e qui messa in gioco soprattutto nella sezione “Urti gentili” dove la terra natale, il Salento, traspare con tutta la sua carica di nostalgia.

Coerentemente con i suoi libri precedenti (in particolare Curve di livello e Other Signs, Other Circles), la Ferramosca contrappone la linearità del pensiero platonico-cristiano alla circolarità della natura: Ciclica, come lei stessa mi scrive, “nel nome evocail destino cosmico che tutto accomuna”. Destino che tuttavia, pur non togliendo la paura della morte, la fa rientrare in un ordine superiore, “un oltre riconoscibile   gentile / terra calda dai suoni attutiti”: un aldilà più pagano che cristiano, un “paradossale calmissimo caos”; un passare da uno stato all’altro dell’essere, come direbbe Severino.



Dalla sezione Techne


scelgo  mi piace  condivido
soltanto se
la posa non è teatrale    se intravedo
il capo rasato sotto la pioggia
la stanza fiammeggiare
allontanarsi il punto cieco

l’urto mi chiedi l’urto ma
sei virtuale    un’ipotesi una
finestra sul vuoto    poi non so
quanto davvero vuoi
 farti plurale
dimmi se chiami per conoscermi o solo
per riconoscerti 
chiami chiami dai tetti
da eccentriche lune chiami da
nuvole    pure dal basso chiami  
voce di fango che mi macchia il petto
segna la fronte    pure
si fa lacrima    cristallo che
taglia il respiro    

stiamo come in un rogo a far segni attraverso le fiamme
malferme sagome stordite da mille nomi  
la lingua disartícola e l’audio
sarebbe comprensibile soltanto se
intorno il rumore attutisse
se fossimo
puro pensiero    silenziopietra
statue serene dal sorriso arcaico
ai piedi un cartiglio e 
                                      lampi negli occhi




trasporto in files                 

tutte quelle diapositive ormai pelle da macero
impallidite    in pile
forme disperse disperate da deportare
in fili d’aria   files

un laser ti trafigge  inesorabile
ti copia-incolla   eri
così smagrito    avevi
occhi di pianto e sorridevi
 la postura inchiodata dal clic   non sapevi
di accecarmi 
il  tuo respiro per anni conservato
in raccoglitori di plastica    
concluso
                
per quali occhi salvato il tuo calco?
per quale tempo del riepilogo? del senso?
chi svelerà il mistero di un sorriso etrusco? 
 tutto quel sole sulla pelle   
e il cuore in ombra

per chi ancora resistere    durare ancora
di dura fine 
                     fine hard   disk


dalla sezione    Angelezze

alberi

non sappiamo di avere accanto mappe di salvezza
dispiegate nei rami
gli alberi sono bestie mitiche
invase dall’istinto    fieri suggerimenti
restare accanto
non per generosità ma per pienezza
-- intorno l’aria splende in rito di purità --
la terra tenere salda
perché sia quiete ai vivi

gli alberi hanno strani sistemi di inscenare la vita
prima di descrivere la morte
s’innalzano 
con quei loro nomi di messaggeri
le vie tracciate sulle nervature
lo sgolare dei frutti
sii migliore del tuo tempo  dicono

devo
far correre quest’idea sulla tua fronte
devo    
e tu su altra fronte ancora
e ancora   prima
                           che precipiti il sole



remi per itaca                                                          
                                             
                                     E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
                                     Sei diventato così aperto e saggio,
                                     che avrai capito cosa vuol dire Itaca.

                                         K. Kavafis         


sarmenti dalle viti
in duello con l’aria                             
uno strappo deciso li stacca  -- dente bambino --
deve ac-cadere prima che il legno s’addensi
e animelle sulle biforcazioni  
deboli getti anch’essi da allontanare 
 animule respinte
con rabbia lanciano la loro delusione in terra
strato dopo strato   fino alla vigna-nadir
(all’altro orecchio del mondo
                              tutto sarà compreso)

in questo braccio di appiantica un laerte
versa linfa nei rami   si avverte
lo scroscio sottile    lontani i remi di ulisse
l’angoscia   l’esilio (qui la tortora  ancora
 sul nido a ripetere)

la casa è vicina alla cava di selce
perché sia graffito sul muro
il presagio  vignarinascita  
e sia compreso il tempo
compresi anche noi con il nostro
tozzo di paneolio e il bicchiere d’ebbrezza

la vita così simile a questa
nebbia etilica chiara di voci
il cielo rossoacceso
e in petto un’onda larga

così trascurabile
il prezzo della pace


dalla sezione  Urti gentili

sotto la nuova luna

è già notte artica sotto la nuova luna
luna che bruca    interroga
quali parole restano per quale
sovrappiù di voce?

inflessibile lampada scandaglia
il fondo della retina   nella rete s’impiglia
eco indistinta che martella voci
quale verginità di suono a spaccare il fondale?

sulla banchisa alla deriva l’orso
dondola il capo con moto autistico
nell’impaziente attesa della fine
nessuno accorre
al gridoghiaccio indurito in gola
all’ultima domanda   nessuno
dalle città febbrili dai multipiani ciechi
dagli abitacoli che schizzano sulle autostrade

solo fruscii lontani oltre le dune
dall’erba rada e bassa
lenta nel crescere per ostinatezza del resistere
mentre lupi si azzannano
che più non riconoscono la stessa specie  
nel bosco che sussulta
ingoia stelle come rimorsi
               
 al largo  
monta un fragore mediterraneo    cupo
come di gorgo
si annega ancora sotto la nuova luna
in quel mare-di-mezzo che mediava 
un tempo tra buio e luce




urti gentili

mi  manca la lingua   mi manca
quella timidezza di vocali aperte
di  zeta dolce nel grazie
un incurvarsi della voce in gola
come a piegarla fossero le pietre
salentine del ricordo o forse
una malinconia residua della nascita
ingorgo che resiste
allo sperpero del vivere

furore dei cieli di una volta
grida bianche dei dolmen che insistono
nel vedere il mattino sorgere
sulle rovine   ogni  volta
qualunque sia l’inclinazione della luce

mi manca  quella strana paura  
prima di ogni viaggio 
come un sottile rifiuto della distanza
come di albero che impone alle radici
 un limite all’espandersi e si concentra
sulla cura dei frutti      

pure amo
tutto questo calpestio di genti nella città
l’impasto lento di animelingue 
il rompersi dei meridiani   l’inarcarsi dei ponti per
            urti gentili 
questo annodarci annodando
i cesti della fiducia con antiche dita



dalla sezione   Ciclica

revisioni

errore: non essere rimasti accanto al fuoco di fila
con occhi di cane a implorare o -- muso in alto -- ad abbaiare 

urgenza del mutare
un grido-scheggia che trapassi la retina
apra varchi inattesi
un tempuscolo rovente che accenda
la permanenza stabile del coro
torre inattaccabile dove
le lingue si traducono solo sfiorandosi

così i fallimenti possono mutare
in categorie di seduzione
come la catena trasmessa dal seme al frutto
nonostante il  marciume   il trambusto dei rami


pagine ancora per voltare pagina

ancora
un sangue abbiamo  consapevole
di voler coagulare   come fosse troppo nobile
per  l’uscita selvaggia dalla vena
umori fertili abbiamo 
che premono sulla fioritura  
e profili aggraziati a chiamare
la tenerezza degli urti le gratitudini

abbiamo sulla fronte un rogo che fa paura 
ma nell’aggrottare appaiono    onde    
un oceano che trascina
il mio corrimano di legno    tentativi di ponti
capre e pastori erranti  (hanno il nostro profilo)
pani   tastiere   reti
incastrate tra rami di olivo e note di sassofono
e  -- a ondate --  pagine   
immarcescibili (la voce come di un’alba o di un vagito)
pagine ancora   
                         per voltare pagina



è l’ora

raccogli i miei lumi residui 
aprimi infine un po’del tuo segreto    non
troverai  fossette che ridono
solo indulgenza   tremore trattenuto    
inutile cercare la vertigine 
resto inchiodata a un cielo calmo
 da cui piovono miti anche feroci   
ad es-empio se oggi
la bambina
(colei che vola sui sentieri)
nella coda al supermercato si sporge
dal carrello verso di me squillando
 facciamo che io ero in macchina
 e guidavo e  volavo e tu dormivi
                       so
che sto andando verso la fine e lei 
mi stringe forte la mano mentre
a me già la stanza si oscura





Giuseppe Nibali

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È bello leggere un libro di un giovanissimo esordiente, Giuseppe Nibali, accompagnato da una postfazione precisa e competente di un altro poeta nuovo, Bernardo Pacini. Il siciliano Nibali, ci spiega Pacini, si muove nell’aspro e nell’arso della canicola siciliana, facendo tesoro dell’insegnamento “implacabile” di Bartolo Cattafi, un poeta che in effetti, come Nibali, perfezionò “l’arte della sottrazione”: “Togliamo anche / l’acqua l’aria il pane. / Giunti all’osso buttiamo / fuori della vita / l’osso, l’anima” scriveva Cattafi  in “Tabula rasa”, proponendo un ermetismo materico, di contro a quello rarefatto fiorentino. La scrittura siciliana, d’altro canto, si riconosce anche da  questa spigolosa tragica movenza, da Verga a Bufalino, da D’Arrigo a Consolo, sino alla poesia di Angelo Rendo, classe 1976, del quale scrivevo, a proposito di La medietà, “raramente un’opera prima sa fondere l’urgenza biografica nel solido di una scrittura essenziale, smussata intorno alla forma-periodo e venuta a galla perfettamente asciutta dopo aver attraversato il diluvio dell’interiorità.

Giuseppe Nibali in Come Dio su tre croci (Edizioni ae, collana diretta da Davide Rondoni) si racconta con questi strumenti umani, ficcando i piedi nella miseria della vita messa in scena attraverso la metafora del mare, fra mito e storia: mare origine e mare morte, mare madre che prende e che dà, cosmo preso dal risucchio del tempo e della memoria, due tiranni a cui egli affida la penna con la stessa ansia a cui si darebbe la mano alla medusa. Nibali si getta nella scrittura come da un precipizio, affidandosi all’intreccio metaforico, rete in cui l’analogia non lascia passare l’orizzonte, mescolando appunto l’urgenza ermetica d’intimità con l’assoluto e una poetica degli oggetti di radice più siciliana che lombarda, più esistenziale che culturale. L’effetto è labirintico, uno spazio claustrofobico eppure ricchissimo di sensualità, dove l’espressionismo, il gusto barocco per l’eccesso, il piacere di sentire la parola nei suoi elementi tattili, fonici e olfattivi, si concretizzano in figure guizzanti eppure potenti come pietre. Un esempio: “Mentre le mani pescavano / nella mattanza dell’inchiostro / le ossa pesanti del tonno / i rigurgiti, i libri / i giornali freschi del mattino”. Talvolta il giovane Nibali si fa prendere la mano, l’adrenalina corre, pesca nei fondali, portando a galla un rimosso che ci parla per enigmi: i “ricci giustiziati / fra i tuoi seni” o “gli occhiali della resa / inforcati sul mutismo / sul Cristo, il bambinello / il fango crollato sul letto” o “Estirpa quest’ortica / dalle corde. Tagliami / il prepuzio osceno / delle vene / ché esplode ché morde” o “Questa terra tanagliata / piange tre ronzii di ratto / da ogni punta”. Quest’ultima immagine, tuttavia, più che enigma è stemma, emblema di una Sicilia martoriata, Trinità in croce nelle fogne dell’illegalità e dell’ingiustizia. La responsabilità, pare dirci Nibali, è autoctona: “Siamo noi adesso / a chiodarci i polsi / alle croci – noi ladroni / con la noia domenicale / che copre la televisione / spegne l’urlo al Golgota // e non vogliamo deposizioni”.

Il tema cristologico attraversa il libro apparentemente sottotraccia, ma invero in una triangolazione analogica che fonda il libro stesso: il padre di Giuseppe, Salvo, fu poeta, tanto che lo potremmo pensare quale primo maestro di metafora e di responsabilità. Tra i due si istituisce infatti un dialogo segreto, fra colpa e liberazione, che si muove parallelo a quella trinitario, dove, in Giuseppe, è la scrittura stessa ad essere lo Spirito Santo, il sacro legame con il padre, che sotto questo profilo diventa Padre, causa prima. Il sottotitolo del libro, affinità elettive, dice questa relazione decisiva, per combinazione chimica, naturale, e per cultura, per condivisione di un progetto, quello di essere uomini e non caporali, “uomini senza padrone – scrisse Salvo Nibali – che sanno / ai Saraceni strappare una croce una brace / per morire”. I Saraceni di oggi Giuseppe Nibali non li nomina, ancora non è pronto a rivelarne pasolinianamente i nomi, ma del poeta di Casarsa sceglie la strada più intima, esistenziale, mettendo in esergo una citazione in friulano che ci dice, in estrema sintesi, il pensiero tragico che costituisce nel profondo Come Dio su tre croci: “Vuei a è Domènia / domàn si muore” (“Oggi è domenica / domani si muore”). Ed è bello anche questo legame fra il profondo sud e il profondo nord, due terre di confine, che hanno sempre dato molto alla cultura italiana. 


Da COME DIO SU TRE CROCI

Faccia chiusa
e lo strascico vedovale
che mi regalava il sole e la chiesa
nei giorni che mancavano al tuo nome

gli occhiali della resa
inforcati sul mutismo
sul Cristo, il bambinello
il fango crollato sul letto

un bacio un vento
una parola sola ancora
cruenta sul ventre cercato come il seno
dal tuo figlio

poi  vera come ai primordi a palmo
a palmo risalisti i mesi
i rosari e i comò di gioielli

su tutto si stenda la materna croce            
                                      e bene in vista.


A Mariuzza
Brucia gli occhi
questo esplodere
l'erosione che a notte 
richiama ai sudari

gli altari freddi come balconi
e la tua libertà che aspetta
che aperta ancora trema

Tuo un giorno d’isola pura
Che stringerai ai rosari
– sicura – Nel vestito della domenica
Due labbra serrate, neanche una bestemmia.


Ti vedo in vita
in vitreo andare in cerca
sulle basole sconnesse
che dall’arsura del paese vanno
ai monti incanutiti

Un’insegna introduce i ricordi
la ruggine dei fratelli sui muri diroccati
dalla chiesa uno sbuffo
chiuso in una parola da rosario
 “ora pro nobis” – il tuo cattolico viandare –
E donaci un vangelo crudo:

“a cu da – a cu leva lu distinu
    e nun ci pari mai lu nostru dunu.”


Non di te, mai di te

crocefisso che squadri
noi penosi dietro ai muri
tutti sporchi di pensieri
senza spalle dove appendere
quelle voci, quel colore
di gesso.

Siamo noi adesso
a chiodarci i polsi
alle croci – noi ladroni
con la noia domenicale
che copre la televisione
spegne l’urlo al Golgota

e non vogliamo deposizioni.


INEDITI

Forse meno della vita Di tutta la mia Anna
vestitacoi Gioielli dell’infanzia, m’interessa
una svista sul cemento, il tuonare dal giardino
qui davanti ché c’è un merlo alla ringhiera, forse due,
o te, o me a rinunciare col becco a tutto il futuro.
Sul muro a un passo lì dalla catastrofe si svolge
all’occasione una fontana.
E ci beve e non sente tutta la rovina. Che violenza
l’avere – come noi – solo piccole ali e scendere i pozzi
per risalirli.

Poi il merlo ritorna, nel neo della sera, magari
– mi dico – diretto alla Maceria e col becco, ma
spaventa e gonfia e scappa via.



Tutto questo rumore umano che ti canto
è il dolore bambino dei giorni nel sorriso
da rivista, col rossetto ora mi parli sicura
dei treni e hai la mano a coprire la luce del
viaggio, dei baci alla fronte nel segreto delle vie.
Io faccio tutto per dirti, per chiamare lo spicchio
di sole sui tuoi occhi e penso sia fisso in te  
il bene che si muove per il mondo.

Come ti chiudi a tenere il reggiseno nel volo
dell’acqua o sui balconi dove si svolge una
solitudine che non senti ma spaventa,
spaventa chiunque, anche gli altri (ed erano molti)
a buttare il dolore dalle ringhiere, e sporti
anche noi, amore, in questo alveare guardiamo
insieme la partita, ora io sono tornato,
ma forse è più importante la partita, non rimane
altra metafisica, neanche la finzione
della risposta, della domanda:

«ti disturba questa storia?»

«No, aspetto ancora tutto il tempo E poi dopo, altro tempo, per abbracciarti. Tu rilassati Ti porto qualcosa, qui sul balcone, un’insalata di mare Ma divertiti, guarda la partita, ché ha ripreso a piovere, e c’è un silenzio perfetto, non dobbiamo annaffiare il giardino, si sta bene così oggi, i bambini sono a scuola, dopo magari, più tardi, sarebbe bello fare l’amore».


Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Dopo avere conseguito la Maturità presso il Liceo classico “Don Bosco” di Catania nel 2010 col voto di 87/100, si iscrive in Lettere Moderne presso l’Alma Mater Studiorum, Università degli studi di Bologna dove si laurea nel novembre 2013.
Iniziando a collaborare con giornali periodici e quotidiani già da ragazzo, oggi vanta collaborazioni con il settimanale “Prospettive” e il bisettimanale “Il mercatino”; con il mensile dell’associazione Mettiamoci in gioco e con quello dell’ Associazione etnea di studi storico-filosofici, rispettivamente “Prospettive giovanili” e “Timeo”; Nel 2012 entra a far parte della redazione del quindicinale “Avviso ai naviganti”, promosso dalla Fondazione CEUR  e inizia l’attività di corrispondente per la pagina culturale del quotidiano La Sicilia. Nel 2013 scrive un programma radiofonico per l’emittente siciliana: “Radio voce della Speranza”, intitolato “Spes Publica” di cui è autore e voce.



Comunicazione di servizio: Cambio mail

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Ne approfitto di questo spazio, 
l'unico pubblico rimasto dopo la chiusura di "About blanc", 
per informare che la mail

 info@stefanoguglielmin.com

non è più attiva.

Chi desiderasse contattarmi, lasci qui la sua mail o passi per facebook, grazie.

Enzo Lavagnini su "The Italian" (un film americano del 1915)

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Dal numero di dicembre 2014 di "Diari di Cineclub" della Federazione Italiana dei Cineclub, riporto questo interessante articolo di Enzo Lavagnini su The Italian. Buona lettura.

Si avvicina il centenario de “The Italian”, regia di Reginald Barker, scritto e prodotto da Thomas H. Ince (uscito sugli schermi americani nel gennaio del 1915).
Ispirazione riconosciuta, sia per Mario Puzo che Francis Ford Coppola per le ambientazioni de “Il Padrino”, “The Italian” è un film muto conservato dal 1991 presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti per il suo particolare valore artistico e sociale. Si tratta di un'opera davvero ragguardevole, ed andrebbe riproposta e studiata, sia per le rare ed innovative capacità di racconto cinematografiche sia perché consente al contempo di comprendere meglio l'immagine che degli emigranti italiani aveva l'America di allora; immagine che da questo film spartiacque in poi si è radicalmente modificata, cominciando quanto meno a contingentare rappresentazioni fatte solo di macchietta e maniera.

La storia è davvero essenziale, emblematica di tante altre, e l'italiano del titolo è ovviamente un emigrante; cos'altro potrebbe essere, in quei primi anni del secolo scorso nel corso dei quali milioni di connazionali varcavano l'oceano in cerca di fortuna?
Ecco la sinossi: il gondoliere Beppo ama Annette. L' America è quello che gli serve per guadagnarsi il rispetto sociale che consentirà al padre della ragazza di dire si al matrimonio. A New York Beppo trova da fare il lustrascarpe grazie al boss irlandese della zona in cui abita, Corrigan: non fa fortuna, ma può comunque far venire Annette a stare con lui. La ragazza lo raggiunge, innamoratissima, si sposano, hanno un figlio. La loro condizione economica però era e resta precaria. Al punto tale che il latte pastorizzato prescritto dal medico e necessario per il bambino diviene una spesa davvero ingente per le loro finanze. Per giunta Beppo viene derubato. Cerca l'aiuto di Corrigan che cinicamente si nega. Beppo non ha soldi per il latte, finisce addirittura in carcere per qualche giorno per rissa, nel mentre il figlioletto muore. Disperato, Beppo torna al suo lavoro di lustrascarpe, oramai senza più ragioni per vivere. Gli si presenta però subito l'occasione per la sua “vendetta”: da un giornale scopre che il figlio di Corrigan è molto malato e che un qualunque rumore potrebbe ucciderlo. Mentre sta per compiere il delitto, si accorge che il bambino fa con la mano un gesto che faceva sempre anche suo figlio. Desiste, scappa. Va al cimitero a piangere sulla tomba del suo bambino.

La prima impressione sul film, relativa alla parte “italiana” è quella di trovarsi difronte ad un vero, ancorché “affettuoso”, scempio a base di eccessive dosi di folklore per giunta davvero volutamente confuso e disinformato: come è stato notato, l'idilliaca ambientazione è quella di una Venezia fuori dal tempo, finta (girata infatti a Venice, California), mal riprodotta, situata in mezzo ad improbabili colline e vigneti, attraversata da asini ed ovini, abitata poi da contadini vestiti alla maniera sarda, e con Beppo che fa il gondoliere ovviamente sempre allegro e per giunta suonatore di chitarra (vestito però come un siciliano).
Si è insomma al cospetto di quella tale, almeno apparentemente, insormontabile quantità di affastellati luoghi comuni, che però costituisce inevitabilmente gran parte della descrizione indifferenziata che il cinema “americano” fa all'epoca della comunità italiana agli “americani”.

Come da una tale congerie di ben esibite “italianerie” venga fuori, nel corso della narrazione, un film significativo ed importante, e certo affatto banale, è cosa che lascia davvero il campo alla sorpresa. O che, meglio ancora, fa riflettere sulla costruzione ingegnosa che lo sostiene.

Scritto, prodotto ed accuratamente supervisionato da quel gigante del cinema hollywoodiano che è stato Thomas H. Ince, il quale appare molto più autore dello stesso regista, a cominciare dai titoli del film (dove il nome del regista non c'è proprio), secondo un ben architettato schema “The Italian” si riscatta infatti decisamente dal cliché nella seconda parte, la parte ambientata in America – a New York, nel Lower East Side- , da quando cioè l'ex gondoliere Beppo mette piede sul suolo americano.
Qui accade come se il racconto precipitasse d'un tratto da una favola a tinte pastello fin dentro la più cruda realtà. Cambiamento repentino di registro che conferisce ancora maggior forza al verismo del racconto nelle strade di New York.

La variazione nel racconto avviene sia con una recitazione naturalista, soprattutto quella del protagonista, George Beban/Beppo, che con la descrizione fotografica inclemente, diretta, non mediata della grande città, frettolosa e senza anima, dei suoi abitanti elettrizzati dalla fantomatica ricerca del successo: strade che colano di ectoplasmi, di anime emigrate, vestite con panni che sembrano uniformi da lavoro, finite, nel caso degli italiani, dal paese del sole dritti dritti in una città a chiazze bianche e nere: enorme, gelida, crudele e disorientante. Una città in cui bisogna soltanto cogliere l'attimo ed afferrare la fortuna al volo, se passa. E se non passa, sopravvivere.

In questo modo, con questa incalzante e brutale sequenza narrativa, lo stereotipo arcaico dell'Italia, appena descritto dallo stesso film, comincia a cedere dalle fondamenta: quel mondo definito, rassicurante, conosciuto, non esiste già più: la realtà è un'altra cosa. Quel vecchio mondo è solo una cartolina illustrata dai bei colori sgargianti che si smaterializza per far posto al suo rovescio: l'indefinito, il non rassicurante, lo sconosciuto: i frutti contemporanei e selvaggi della metropoli.
Con questo scarto narrativo, il mondo in cui abita l'italiano tutto gondola e chitarra, ingenuo e operistico, -il suo naturale palcoscenico- viene relegato nell'album dei ricordi. E' un mondo bello, ma andato, come nelle favole. Un mondo che non appartiene al reale.

Cliché nel cliché, nel gioco di ricalchi e rimandi che fa Thomas H. Ince, è interessante davvero soffermarsi sul fatto che “The Italian” del film non è affatto un italiano: per interpretare un italiano ci vuole qualcuno che ne replichi gli atteggiamenti più consueti, quelli più “riconoscibili”: qualcuno che questi atteggiamenti li guardi appunti da fuori.
Infatti, George Beban, il protagonista, scelto da Ince, si cala in questo “personaggio”, come si calerebbe in un qualsiasi altro ruolo. E' un bravo attore, piuttosto noto, cresciuto sulle tavole dei palcoscenici del vaudeville di San Francisco. Beban fa dunque la sua adeguata “full immersion”, passando settimane ad osservare gli operai italiani impegnati nella costruzione del tunnel tra Manhattan e il New Jersey e in tal modo, imitandoli, si “specializza”, per così dire, nel ruolo dell'italiano, per questo film e in altre opere che seguiranno.

All'epoca il “ruolo dell'italiano” per certo doveva corrispondere a precise caratteristiche, anzitutto somatiche, con i capelli, gli occhi e la pelle scuri e poi tutto un corredo fatto di gesti caricati, primitivi, teatrali, eccessivi.

Ma come appaiono gli “spaesati” emigranti italiani intorno a quegli anni nei film americani coevi, mentre cioè Rodolfo Valentino è appena sbarcato dal piroscafo a New York e si guadagna da vivere ballando, mentre appena pochi anni prima Joe Petrosino ha ingaggiato una lotta senza quartiere alla Mano Nera composta da italiani che taglieggiano altri italiani?

Nell'immaginazione comune ed anche per gli sceneggiatori, l'“italiano” era un “personaggio” sempre dentro la propria comunità, in relazione autentica solo e soltanto con la propria famiglia, quasi mai in grado di integrarsi, quasi mai disponibile a fidarsi delle istituzioni locali, diffidente, con un perenne senso di perdita del  legame comunque inscindibile col paese d'origine, con le sue tradizioni, con la religione, con il cibo, con la musica, con la lingua. Ed aveva anche una certa, naturale, predisposizione alla criminalità; questo, come pregiudizio molto diffuso.

Era, l'italiano, un emigrato, un disperato senza futuro, spesso senza arte né parte (e se l'“arte” l'aveva, doveva comunque adattarsi ai lavori disponibili) e, allo stesso tempo, incredibilmente, il rappresentante di quella terra favolosa, a buon diritto orgogliosa e piena di sole. Lasciava, con tutta la malinconia del caso, una terra bellissima, ma povera, ricca “solo” di storia, di arte, ma arcaica, destinata ad essere solo un museo.

Aveva, l'italiano, per convenzione, attitudine al melodramma. Viveva di passioni smodate, di forti amori, di grandi amicizie, di famiglie incrollabili, di fedeltà, di onore, di tradimenti, di riconciliazioni; e quando subiva “male azioni” si vendicava, anche con ferocia inaudita; il coltello a serramanico, l'“italian stiletto”, sempre a portata di mano, la “vendetta” -parola italiana che finisce a buon diritto nel vocabolario americano (come ci ricorda “V for Vendetta” dei fratelli Wachowski), quasi fosse davvero una “specialità” italiana- col suo carico sempre fatale, come unica soluzione per mettere riparo ad un torto subito. L'unico modo per pareggiare i conti. Bagaglio sanguinario che, nel pregiudizio imperante, definiva i sempre più numerosi membri della comunità italiana come non proprio raccomandabili.

La vera forza de “The Italian” sta nel mettere in disparte con un sol colpo questa grande quantità di stereotipi sugli italiani. Li evidenzia e subito dopo li rende poco credibili. Li mostra e già li archivia, allo stesso tempo: fa capire che sono, possono essere, retaggi del passato. Soprattutto quelli meno “accettabili” socialmente.
Quando nella narrazione si arriva al capitolo della “vendetta” di Beppo, “The Italian” distrugge col resto anche questo luogo comune dell'italiano non placato altro che da quella. Lo fa per amore del plot o per dare giustizia ad una comunità? Ad ogni modo accade.

Succede sul finire del film, quando Beppo si introduce furtivamente nella bella villa del boss, dell'irlandese Corrigan, il quale gli ha negato l'aiuto che poteva salvare il figlio: la villa è piena di servitori in livrea e con ricchezze ben in mostra, con un medico in doppiopetto che si prende cura del figlio di Corrigan.

Beppo è accecato dall'odio, un odio che qui diviene anche “sociale”, ed ha un solo proposito: la camminata è lenta, il corpo ripiegato su se stesso, le movenze un poco animalesche, viene da temere il peggio: è davanti al bambino che dorme. Beppo vorrebbe e ora potrebbe compiere il suo delitto, per brutale istinto, e consumare così la sua “vendetta”; “replicare” quello che proprio tutti si attenderebbero da un emigrante italiano nelle sue condizioni di spirito, come è anche troppo facilmente prevedibile dal cliché.

E invece no. Ecco invece che accade qualcosa di nuovo, che non ti aspetti in un italiano da stereotipo, qualcosa che apre una gamma più complessa di sentimenti in un personaggio finora storicamente unidimensionale: un piccolo gesto del bambino che sta per sopprimere gli ricorda con nettezza un gesto che faceva anche suo figlio. Beppo improvvisamente si immobilizza. Di botto non è più uno stereotipo. Prende coscienza della propria unicità. Ora si vergogna di se stesso, dei suoi stessi istinti ancestrali. Non sa più capacitarsi di quell'orrendo delitto che stava per compiere: è come se avesse osservato un suo doppio che agiva per conto suo: cerca, confuso una distanza dalla scena che ha visto. Capisce piuttosto solo una cosa: che non troverà mai pace. Uccidere e così vendicarsi non gliela darà.

L'unica cosa che gli resta è tornare alla tomba del suo bambino, quello è il suo posto: tornare a piangere il suo dolore, che nessuna vendetta potrà mai placare. Non si pone nemmeno il problema di uscire dalle tenebre, vuole solo considerare quella morte, vuole solo stare lì.

Ora, nella tremenda solitudine della sua vita, chino su quella tomba, “The Italian” è un uomo come tanti altri, non importa da dove provenga: come tutti deve affrontare la vita coi suoi carichi fatali, le sue disperanti difficoltà; in fondo, il Nuovo Mondo gli ha dato, come a tutti, sensazioni eterne, millenarie, che dovrà vivere appieno e in profondità. Non c'è Nuovo Mondo che ne tenga al riparo.

E' solo, in una terra che è di tutti, dove tutti sono soli: ciò lo rende paradossalmente già compartecipe del sogno americano, agli occhi di chi guarda. Dietro quella sofferenza, c'è un altro giorno e -forse- un altro uomo. Di sicuro dietro quella tragedia, che gli si legge sul volto, c'è ora una “immagine” nuova dell'“italiano”.


Sulla poesia (mia, non mia)

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La primavera scorsa Maria Grazia Insinga mi ha invitato a preparare una breve video-conferenza sulla mia poetica (che potete ascoltare qui sopra), da presentare al Laboratorio “La Balena di ghiaccio”, rivolto agli studenti del liceo “Lucio Piccolo” di Capo d’Orlando, in Sicilia. Dev’essere stato un laboratorio davvero interessante, visti i poeti poi approfonditi (da Artaud  ad Anedda, da Beckett a Pasolini, da Cappello a Pizarnik). L’elenco completo lo trovate nell’esile pubblicazione uscita di recente, a cura della Biblioteca comunale di Capo d'Orlando. Libriccino che contiene una nota di Emilio Isgrò e le poesie dei ragazzi vincitori del concorso, con il quale si è  concluso il Laboratorio, dedicato al poeta Basilio Reale.


Il progetto è stato ideato dalla Insinga, giovane docente di pianoforte presso L’istituto “Vittoria Colonna” di Vittoria (Ragusa)

Stefania Bortoli su "Gli Eletti" di Erika Reginato

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La visione, l’ascolto delle voci degli eletti, il viaggio interiore, sono le misteriose presenze del nuovo libro di Erika Reginato  (poeta italo - venezuelana), intitolato appunto Gli Eletti - Los Elegidos (Raffaelli 2013, pref. di Milo De Angelis).
Invisibile e visibile, vita e morte nella loro complementarietà, ricevono e danno vita alla dimensione visionaria dell’esistenza attraverso la poesia. La poesia che getta un ponte tra l’origine, noi, l’Altro.
In questo cammino silenzioso e solitario si delinea una mancanza dolorosa. Quella mancanza che prende corpo nelle voci interiori che abitano i luoghi dell’anima. Quest’anima abitata da due paesi lontani, il Venezuela e l’Italia, che tracciano il percorso dell’esistenza. Danno respiro alla delicata e profonda poesia di Erika che parla del suo viaggio di ritorno lungo i sentieri della vita e delle persone incontrate, lasciate e amate.
Talvolta siamo in una prospettiva temporale e spaziale che rimane sospesa. Forse l’attesa dell’angelo: “un sottile silenzio” custodirà il mistero e l’età delle ferite. La figura dell’angelo appare spesso nel libro ed è presente anche nella raffinata incisione della pittrice Graziella Da Gioz, scelta per la copertina.
Spazio e tempo si intrecciano tra l’origine e gli arcani legami “con gli spiriti antichi, con gli antenati, con i portatori di una suprema saggezza: gli eletti, coloro che sono stati scelti per indicarci la via dell’amato, coloro a cui ci volgiamo per placare lanostra sete”, come scrive Milo De Angelis nella prefazione.

Nella poesia d’esordio leggiamo:
“Gli Eletti/sanno a che ora danzano le spighe,/il viso del vento,/quelle delle fiere.
[...] Gli Eletti viaggiano senza corpo.”

La ricerca poetica custodisce questo misterioso cammino degli eletti, che si svela nell’istante dell’apparizione. Parole, figlie e sorelle dell’acqua, che annegano e rinascono a contatto con la natura e il respiro del mare.
Leggere “Gli Eletti” è come immergersi in un mondo d’acqua, materno, femminile, sacro. Troviamo frequenti parole liquide: mare, marea, oceano, mare dei Caraibi, grotta d’acqua, delta del fiume, e altre ancora.
L’acqua, la luce, il vento sono alcuni elementi vitali e vibranti delle sue liriche. La percezione visiva e uditiva si offre al respiro dei versi lievi e assorti che fluiscono come l’acqua lasciando passare “la forza del vento” e il respiro dell’aria.
Poesia dell’ascolto di un silenzio che scorre tra le immagini e gli occhi del poeta che vede l’invisibile nel visibile; sono i luoghi dell’anima che tracciano corrispondenze emotive “e l’orizzonte sommerso/degli abitanti dell’acqua.”
Se la memoria dell’acqua e dell’origine non ancora alla terra, il luogo dell’anima è impermanente e nomade, altrove e ovunque.
Lo evidenzia bene Santos Lopez, che viene ricordato in “Manto d’acqua”, l’ultima sezione del libro:
“L’istante della vita è quello, acqua luminosa.”

E nella poesia “Rivelazione” leggiamo questi splendidi versi di Erika:

“La mia casa è di neve,
si trova sulla cima dell’albero,
nel percorso di un fiume.”

Come la fragilità della condizione umana ha molti volti e stati d’animo, la poesia che parla della fragilità appartiene alla vita e alle emozioni fragili che la attraversano: attesa e inquietudine, gioia e dolore del corpo nell’anima.
Il suo sguardo visionario sfiora l’indicibile e l’invisibile che risuonano tra i confini dell’esistenza. La natura interagisce con l’umano che sente “il sottile silenzio” e la solitudine feconda del vero ascolto. Come nell’esperienza mistica che accoglie una differente prospettiva temporale e spaziale dove rivivono le ombre e il dialogo con Dio.
In questo prezioso libro non mancano ispirati cromatismi che diventano specchio dello sguardo interiore e delle apparizioni. Vengono invocate nell’attimo dove tutto va oltre , al di là. L’eco di significati ulteriori scorre nella luminosità dell’oro, non soggetto all’ossidazione, materiale nobile, che contrasta con l’opacità del bronzo.
La visione, il cromatismo, quel torrente di voci che evoca anche Dino Campana, poeta straordinario ricordato da Erika Reginato, in epigrafe alla prima sezione del libro intitolata “Porte di bronzo”.

Nel viola della notte odo canzoni bronzee.
La cella è bianca,
piena di un torrente di voci che muoiono
nelle angeliche cune.”

L’origine, la visione, il viaggio interiore ci prendono per mano ...
“Per essere più che un ricordo/un uccello di mare nella memoria”.


Erika Reginatoè nata a Caracas, Venezuela, nel 1977. Figlia di padre italiano.E' Poeta, saggista, traduttrice. Si è laureata in Lettere presso l’Università Centrale del Venezuela. Ha pubblicato: Campocroce (Archivio della Poesia del ’900, Mantova 2008); Día de San José (Caracas  1999), Campo Croce, Antologia poetica 1999-2008 (Venezuela 2008). Il saggio Cuatro estaciones para Ungaretti (Caracas 2004). Ha tradotto: Antologia poetica di Milo De Angelis, (Monte Ávila 2007), Caminos del agua. Antología de poetas italianos del segundo Novecientos, (Monte Ávila 2008), El bar del tiempo y otros poemas de Davide Rondoni (Monte Ávila 2008), El trazo infinito del universo. Antología de poetas italianos contemporáneos (Ventotto poeti italiani contemporanei, Monte Ávila 2013). Sue poesie sono state tradotte in catalano, libanese, inglese e italiano.

Adam Vaccaro, "Seeds"

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Seeds(Chelsea Editions) di Adam Vaccaro organizza l’esperienza autobiografica in due fuochi, in due semi: il primo luminoso e fortemente segnato dal mito delle origini, il secondo conficcato nel buio della città, in quell’opaco dove sopruso e ingiustizia sono di casa. Nato a Bonefro, Molise, il poeta vive da quasi cinquant’anni a Milano: due patrie di sangue e sudore, eppure di linfa diametralmente opposta. Se infatti l’infanzia contadina incontra la violenza intrinseca alle culture arcaiche, (“guardavo scannare i maiali / con allegra tranquilla innocenza / lanciavamo stecche appuntite di ombrelli / contro civette crocifisse alle porte” ), la vita metropolitana custodisce quella lontananza dolorosa dal centro del senso, che porta ciascuno a una solitudine spaesante, nell’ “aperto inferno”, in quello “immenso spettacolo lunare / accerchiato da una vita accanita”, che spinge ciascuno a rifondarsi nel privato amoroso,  “ a ripartire da te / da questa punta di miele mattina / per viaggiare lungo gli orli / dell’orrore”, per sopportarli quegli orli, armati del coltello-amore. Se nella comunità contadina, la natura è zolla dura ma anche orto del bendidio, “tra voci perse ruscelli e uccelli” e le case raccontano la vita di fame e latte, nella società urbana cova “l’odio feroce”, la violenza, entro “sommersi / viali di pizze stracci fumi e giarrettiere”. La città moderna, infatti (già lo sapeva Baudelaire), è diventata selva, disordine artificiale dove regna l’hobbesiano homo homini lupus.

Riassumendo: i due semi che Vaccaro cerca di rivitalizzare con la sua poesia sono, uno, la memoria felice di un’infanzia cresciuta nel cerchio buono del paese e, due, la relazione amorosa, l’unica salvezza entro le tenaglie gelide delle città industriali. La scrittura, come “un piccolo graal”, può forse “aprirsi e vendicarsi della morte” perché noi, in qualsiasi latitudine e condizione viviamo, non siamo che gazzelle costantemente in pericolo. Questo annuncio, incipitario nel libro, è la chiave antropologica con cui leggere i due fuochi antitetici, campagna e città, infanzia età adulta, gioco e lavoro; nessuno di questi è paradisiaco eppure non per questo  risultano equivalenti.
Sono molto belli versi che ci descrivono “l’ortogiardino” dove “brillano rose fiori di zucca e pomi / doro” al riparo delle siepi, facendo “rifiorire l’attesa / il progetto, la gioia”, per quanto sia ben chiaro che la terra è bassa, dura zolla, secca. Ma altrettanto efficace è il verso quando racconta la città-labirinto, dove puoi trovare enclave premoderne, come “Quintocortile” (e non è un caso se proprio lì, ogni anno, si svolge una giornata di letture poetiche organizzata proprio da Vaccaro) o quando dal suo grembo infernale escono figure tragiche come Clitennestra, assassina del suo protettore. Fuori da mito, tuttavia, ce lo spiega bene il poeta, la morte violenta non è che gesto solitario e disperato entro una logica che fagocita il bene e il male in nome del profitto o della sopravvivenza biologica.

Le ultima sezione del secondo seme, intitolata “Nilo maggiore e minore”, allarga lo sguardo sulle malefatte dell’occidente e alle guerre giuste dei differenti monoteismi, nati dall’astrazione ontologica, dalla rarefazione della carne in puro spirito totalitario. Qui il sarcasmo, soprattutto verso i costumi turistici nostrani, si fa bruciante e non risparmia nemmeno i poeti che si compiacciono dei loro “lumini accesi”, mentre nuotano beatamente “nel mare delle cose // appesi alle code dei saldi.”

La penultima poesia, “Meta!” condensa tutte queste tematiche, le fonde nel crogiuolo del ritmo e della forza immaginifica, e se qualche volta l’intento moralizzatore sfoca l’armonia creativa dell’insieme (“questa madre che impotenti / s’ostinano a voler violentare”), la qualità stilistica e conoscitiva del libro rimane intatta, a testimoniare l’esperienza di un poeta che prende posizione nel mondo, che crede nella funzione civile della scrittura, nell’etico prima che nel estetico, e che intende tenere aperta la comunicazione con il lettore, a costo di perdere, qualche volta, il sacro fuoco della creatività, subordinato alla necessità del messaggio. Ma questa abbassamento del canto appartiene a molti poeti lombardi, così come una certa passione civile di radice illuministica. Sotto questo profilo, anche Milano ha seminato la parola terrestre di Vaccaro, trovando in lui una terra ancora bagnata dal sole molisano e da una tenerezza mai vinta dal grigio dei suoi cieli inquinati.


SEMI

I parte

Che sia questo un piccolo graal
simile a un seme che può forse
aprirsi e vendicarsi della morte

del male stupido che ci invade
e delegittima la vita quale
gazzella dall’occhio attento che

si abbevera al ruscello e ascolta
rumori di foglie secche e vento
convinta di tenere a bada così

i pericoli che incombono
e come occhi silenziosi e
non visti di ragno tessono



(l’ortogiardino

curava mio nonno un luogo un
giardino per me d’incanti e fatica.
Il mio braccio – mi disse – si sposa
qui con questa terra e polla d’acqua

e ne fa bellezza e frutti che nessuno
può sapere fuori da quel cancello
là in fondo se non sale quest’erta
di sassi e spine e non sa che qui

brillano rose fiori di zucca e pomi
doro che al riparo di siepi di un orto
giardino appeso al mio dito con ali
di foglie gira gira intorno al mondo 

sognando l’infinito



(Lo scalpellino)

Ricordo tra tutte le pietre dure della vita
quella che briciola su briciola graffiai
da ragazzo e che ora pare
riposi architrave di questa casa

Fu quel giorno col dito nel sangue
che venni folgorato dalla verità del dolore
folle fuggendo alla ricerca della gioia e
quella pietra diventò l'architrave della mia vita




(biciclette)

frotte di biciclette nel sole annegate
imbiancate tra polvere e sassi arrampicate
sulle colline molisane spietate e ricche
di cicale stordenti in coro ininterrrotte
al cigolìo di freni selle e pedivelle
tra ansimi e perle silenti di sudore

Sentenzio sciamando in cima tra sogni
castagni e quercioli col cuore balbettante
nei calzini gridò tra risate e pernacchie
a quell’impasto di luce e fatica un modo
a suo dire d’imparare a sudare le regole
del piacere s’una forma di piacere delle regole

In discesa a testa in giù come siluri dalla guerra
ormai finita al sol dell’avvenire cui nemmeno Sentenzio
sapeva che dire mentre i padri scappavano in cerca
di fortuna e schiavitù a noi sembrava bastare
quella scodella di polvere luce e sassi bianchi
fino a quando
                       ci ritrovammo muti
                                                       attorno alla testa rossa
scomposta da un invisibile sasso – impietoso sasso
incastonato nel piacere di una nuvola bianca
di calzoni corti e biciclette anni ’50  




(feroci innocenze e oltre

guardavamo scannare i maiali
con allegra tranquilla innocenza
lanciavamo stecche appuntite di ombrelli
contro civette crocifisse alle porte
e arrostivamo feroci zoccole finite
disperate in gabbie fischiando
un’uscita cercando da fiamme d’inferno
eppure già (di)versi cantando
                                               m’illumino d’immenso

e nessuno può dire se fu quel piede fondato nella terra e
nel letame che diede una spinta a sogni d’assalto al cielo
o s’aprì in quei primilampi di parole un oltre
                                                                         possibile
nel vortice sempre nuovo
                               sempre vecchio di questi decenni
                  pur avendo già un grido nel cuore
che poi la curva ridiscende
                                           ed è subito sera




II parte

Nell’aperto aperto Inferno

Coltello necessario

(immenso spettacolo e lunare

accerchiato da una vita accanita
che sguarnita e inarresa annusa
come un orso ferito
                                 al cuore

ma conviene ripartire da te
da questa punta di miele la mattina
per viaggiare lungo gli orli
dell’orrore. Amore
unico coltello necessario
a fare dell’orrore un ventre aperto



(Quintocortile

Milano infila tunnel del metrò
per rincorse di istanti veloci
che sommati fanno un niente

per farne montagne di macerie
tra sogni di un perduto verde e
incanti di incontri che a settembre

fumavano salsicce e bandiere rosse 
parentesi in attesa di ragazzi bravi
a fare il gioco delle coppie con siringa

Milano ora fila sogni disfatti su uno spiedo
sapiente che cucina mucchi di denari
ricchezze povere di dolori e pensieri

Milano infila eppure ancora cortili uno dentro l’altro
che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo



Quale bellezza

Abbagliato imberbe e senza parole
rimase dalla bellezza trafitto e
reso palloncino panico e afflitto 

gonfio solo della tonda domanda
se la bellezza era questa sconfitta
che taglia alla gola le solite parole.

Poi imparò dai più grandi – Dante etc. – che
ogni scuro squallore e viso sfigurato da
dolori e orrori più atroci ti sfidano

ad accendere segni che come amante
rovescia in luce la fragile clessidra
della bellezza che ti apre al mondo 

E si volse alla bellezza che toglie
parole a chi ne ha paura e si chiude
o ama chiudere nel suo sacco il mondo

scegliendo tra potere e bellezza il polo 
che insiste non si arrende e resiste  
tra la morte e la vita che continua


META!

*
se tu vedessi, amore mio, come splendente
è qui il Mito, come sorridente e trionfante
esplode qui, tra gli orti di Meta l’immagine
del Caos, la sua frondata Fonte e la sua Ombra!

…………………………
 *
si sono arresi dunque al silenzioso caos
emergente da un’origine nascosta
di energia. Si sono arresi come pupille
spalancate da un bagliore non più
capaci di compiere il dovere
di rendere ragione. A imitazione insana di
un’incontenibile miscuglio di levità e
grigiore, d’acquiescenza e insofferenza, di
dolcezza e di violenza, da questo Cono
che ha smesso di fumare e fino al mare
si distende insensato un miscuglio
di scatole chiamate case, informi
insiemi di cose che vagano affollate tra
brandelli di vita verde che non si arrende


*

Così, dalla finestra, la casa
specchiava lo stato delle cose
così invase
                   dalla sospensione
che la corsa affannosa che la casa
correva nell’insieme
                                 squarciava lumaca nel vento
del tempo-lampo
                            che non accompagna
                                                               e non fa in tempo
a costruire una mente





 Qui su Blanc un'altra nota.

Blanc 2014

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Il 2014 è stato un buon anno per me. In primavera sono usciti due libri: un racconto pubblicato nell’antologia Père-Lachaise  (Ratio e Revelatio editore) e il saggioLe vie del ritorno (Moretti&Vitali). In dicembre è uscito infine Maybe It's Raining (Chelsea Editions); ne parlerò ancora. Anche Blanc de ta nuque si è dato da fare: 34 recensioni sono quasi una ogni dodici giorni, agosto compreso, con 72 post complessivi. Ecco l'elenco dei poeti italiani (a difendere i poeti stranieri c'è Mahmud Darwish):

Adam Vaccaro, Erika Reginato, Giuseppe Nibali, Daniela Raimondi, Valeria Rossella, Agostino Contò, Niccolò Furri, Annamaria Ferramosca, Eros Alesi, Paolo Pistoletti, Marco Bellini, Mariasole Ariot, Lina Salvi, Riccardo Martelli, Veronica Tinnirello, Vincenzo Anania, Pietro Roversi, Nadia Agustoni, Gianmario Lucini, Alessandra Paganardi, Luisa Righetti, Mia Lecomte, Luigia Sorrentino, Marco Giovenale, Giuseppe Samperi, Guido Cupani, Alessandra Carnaroli, Nanni Balestrini, Annelise Addolorato, Enrico Testa, Anna Maria Carpi, Federico Scaramuccia, Cristiano Poletti, Gian Ruggero Manzoni.


François Bruzzo su Antonio Porta

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Qualche tempo fa Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta, mi spedì un articolo scritto su suo marito dallo studioso – italo-francese e vicentino d’adozione –  François Bruzzo, che uscì il 2 luglio 1993 su “Il Gazzettino”. Lo ripropongo, per affetto verso tutti i protagonisti della vicenda e perché è un bell’articolo, ricco di informazioni rare e preziose.

 

 

Antonio Porta, la voce forse più significativa della poesia italiana dell'ultimo trentennio, presente nelle più varie antologie della poesia italiana del Novecento; deceduto il 12 aprile del 1989. a Roma mentre si preparava ad intervenire al Maurizio Costanzo Show, era nato a Vicenza il 9 novembre 1935, e non a Milano, come riportano le più varie fonti biografiche, dalle antologie anche più serie sino alle enciclopedie, dizionari e storie della letteratura italiana.


Così, Porta che viene facilmente indicato come figura ideale del poeta milanese (erede delle istanze poetiche della "Linea 1ombarda" definita da Luciano Anceschi nel '52 come "poetica degli oggetti"), il cui esponente più prestigioso era Vittorio Sereni; Porta il cui nome è legato alle scosse più avvincenti e salutari che la sua generazione abbia regalato alla poesia italiana e che pertanto si fondeva alla perfezione con l'immagine di una cultura che a Milano era maggiormente aggiornata sulle idee che provenivano dal resto dell'Europa e soprattutto d'oltralpe; Porta il più affermato dei novissimi, sperimentali, del Gruppo 63, della neoavanguardia, è nato e ha soggiornato con il vero nome di Leo Paolazzi sui pendii che portano a Monte Berico. Cancellare Vicenza dalla sua vicenda anagrafica corroborò l'intento della scelta di uno pseudonimo.


Se a Milano, figura della metropoli europea, va la parte dichiarativa e manifesta della sua poesia, in qualche modo la sua urbanità che ne legittima l'accettazione moderna e avanguardistica; al passo con le esperienze europee, a Vicenza tocca qualcosa come 1a parte di Dio, per riprendere un' espressione di Gide, cioè, la parte della testura più che della struttura: in altre parole, Vicenza ricopre la funzione di un interdetto che assume anche il ruolo di una regola, regola che preme nella scrittura di Porta come un non detto dall'enorme forza di gravità comparabile all'efficacia della sua segretezza. L'aura di impronunziabilità con la quale Porta ha sigillato per un'intera vita le "sillabe che nominano la sua famiglia a Milano nel dicembre del 1936. A Vicenza dei Paolazzi rimarrà Bonfiglio, nonno di Leo, che è all'origine della presenza della famiglia Paolazzi in quella città in quanto vi risiede dal novembre del 1922 in strada delle Scalette di Monte Berico 2, fino al 1949 per poi trasferirsi a via Dante 15, presso una sua figlia. A Trento Bonfiglio Paolazzi aveva svolto un'intensa attività politica al parlamento di Vienna come deputato clericale eletto nelle file del Partito popolare trentino nel 1911 cede il posto ad Alcide De Gasperi. Il suo arrivo a Vicenza è probabilmente dovuto alla presa in mano della questione trentina da parte dei rappresentanti fascisti che avevano già manifestato a Trento la violenza della loro politica nazionalistica prima ancora della marcia su Roma.


Dopo la morte della moglie, Bonfiglio si fa prete all'età di 74 anni e dice, a quanto pare, la sua prima messa nel Duomo di Vicenza il 24 maggio 1954. La forte educazione cattolica impartita dalla personalità di Bonfiglio ai suoi discendenti giunge fino a nipoti come si può vedere dalla presenza a Monte Berico di padre Rigobello che è primo cugino di Leo alias Antonio Porta.


Da questa educazione non doveva certo essere esente lo stesso Leo che nel 1960 si Laurea in Lettere moderne all'Università Cattolica di Milano. D'Altronde, benché abitasse a Milano dal 1936, vale a dire dall'età di un anno, il futuro Antonio Porta soggiornava spesso a Vicenza: lo ricorda la signora Rina Bedin, vicentina che dal 1936 al 1939 seguì a Milano i Paolazzi come baby-sitter di Leo e del fratello minore Mario e che da allora si è sempre mantenuta in contatto con l'intera famiglia. Ed è proprio nella casa del nonno delle Scalette di Monte Berico da dove poteva vedere la città raccolta attorno alle sue cupole che il giovane Leo passava i giorni delle sue ricorrenti presenze a Vicenza.


Ora non c'è dubbio che vi sia stato da parte di Antonio Porta un attento occultamento delle coordinate anagrafiche e biografiche di Leo Paolazzi che quic'interessano, e l'uso dello pseudonimo sembra ripercorrere qui la sua funzione forse più comune e ovvia di negazione del nome del padre e di tutto ciò che esso comporta di lascito paterno e patrilineare.


Se proviamo a interpretare l'autofinzione che sorregge il personaggio di Antonio Porta milanese, la Vicenza di Leo Paolazzi che viene inabissata nei recessi segreti della memoria, sembra albergare il nodo certamente problematico del farsi di una personalità in quell'insieme di vissuto e di immaginario dei rapporti in seno alla famiglia che Freud chiamava "romanzo famigliare". Inoltre la Vicenza segreta di Porta sembra celare il problematico radicamento della sua scrittura poetica. Leo Paolazzi si rivela allora compagno necessario dalla cui negazione e probabilmente tormentato rifiuto e rigetto doveva nascere il poeta Antonio Porta milanese. La vicenda di Porta sta a dimostrare - come ce ne fosse ancora bisogno - che la scrittura e l'invenzione poetica e artistica moderna sorgono da uno sconforto, da uno stare male nella propria pelle che per un poeta è la propria lingua, il proprio nome, e che scrivere come l'ha detto in modo folgorante Rimbaud vuole dire tentare d'inventare una nuova lingua, salpare verso un nuovo mondo con un nuovo nome e una nuova genealogia che mira a fare dello scrittore un soggetto generato dalla propria opera.


Le informazioni biografiche sono abbastanza incomplete per dar luogo ad un'interpretazione solida, esse sono limitate a note biobibliografiche più o meno lunghe ma aggiunte al passato vicentino qui appena abbozzato, offrono abbastanza materiale per elaborare alcune ipotesi sulla manovra sotterranea delle origini di Porta nella sua opera.


Innanzitutto voler essere milanese piuttosto che vicentino ha una ovvia ragione quando si è poeta d'avanguardia all'inizio degli anni Sessanta: una città di provincia fra le più conservatrici e cattoliche, rannicchiata all'ombra del suo santuario come un Belacqua dantesco, è luogo certo ideale per Bonfiglio Paolazzi ma costituisce l'opposto più sistematico dell'apertura intellettuale sull'Europa e della circolazione delle idee che la città lombarda poteva offrire. Ma non c'è una successione fra il mondo di Paolazzi e quello di Antonio Porta milanese.


Paolazzi rimane in qualche modo ossequioso nelle file di Bonfiglio mentre Porta si ribella contro i linguaggi della tradizione inseguendo la traccia notturna e ctonia della parola poetica, viaggio nel cuore delle tenebre di risonanza orfica e dantesca allo stesso tempo. Ora si può percepire nel disegno dello pseudonimo scelto da Leo Paolazzi l'unico modo per essere sincero di fronte a sé stesso, una possibilità di aprirsi a un «se stesso» che così si muove nella distanza in cui si muove un personaggio di finizione.


Se lo pseudonimo si rivela un buon strumento per penetrare nel labirinto della propria soggettività come in quella di un personaggio, la finzione anagrafica dell'origine milanese può offrire la via la più corta e la più sicura per aprire silenziosamente, senza essere visto, la casa della memoria vicentina. È probabilmente troppo presto per ricostruire il giusto peso del nucleo affettivo che in qualche modo arroventa la vicenda vicentina di Porta, qualcosa che comunque per il poeta, l'artista della parola, passa per il linguaggio, ovvero si cristallizza in nomi e parole altamente significanti, talmente significanti che il migliore modo per venirne a capo, intenderli, interpretarli, leggerli è di evitare di pronunciarli nella loro greve evidenza per invece aggirarli in modo che il loro contenuto si riveli.


Nella raccolta «Passi passaggi» che Porta dà alle stampe nel 1980 (Mondadori) c'è un testo intitolato «Il segreto» datato nel 1979 e che fa parte di una sezione intitolata «Sulla nascita», appunto. Questo testo offre argomenti strategici sulla questione della nascita vicentina di Porta. Inizia cosi: Amico, voglio confidarti un segreto, / da moltotempo provo questo desiderio / di avvicinarmi al tuo orecchio peloso di lupo / sillabare tutte quelle parole che dicano / quello che non riesco a sapere. Questo segreto é «l'ombra», dice il testo, in me sta la voglia di provare «che in qualche luogo ci sono», che in qualche luogo sta la mia nascita, il nodo della mia soggettività, in aperta campagna, forse, di fronte / alla città sepolta dai veleni. Questi ultimi versi contengono due importanti componenti della poesia di Porta: da una parte la campagna i suoi oggetti, i suoi paesaggi, la sua vita e suoi usi che hanno una presenza forte per un poeta metropolitano (quale lo suggerisce la volontà di nascere milanese), dall'altra una città delimitata (di "fronte" dice il testo), spesse volte descritta dall'alto, come lo è spesso la città di provincia in letteratura, la stessa Vicenza.


La metropoli invece viene vista dalla sua illimitatezza, dal suo effetto mare e spesso chi la guarda vi è immerso. Ora la città di Porta tende a raccogliersi, come d'altronde il piccolo Leo l'aveva spesso vista dalla casa delle Scalette di Monte Berico... In quanto ai "veleni" potrebbero significare la problematicità del nodo affettivo che Vicenza poteva evocare nell'immaginario portiano. Nel medesimo testo, in un verso strategico che precede quelli appena commentati, si può leggere nel segreto delle parole, in anagramma, il nome della città natale, diventata parola sotto le parole, fantasma che abita il discorso poetico: Amico, avvicina la tua bocca languida e ferina / che voglio soffiarci dentro le parole / travasarci la diffusa essenza dell'ombra.

 


François Bruzzo: acquisito il baccalauréat philosophie (in Francia, con menzione ottimo), frequenta per 3 anni (1971-1974) i corsi di arte drammatica di Jean Meyer  al Teatro dei Célestins di Lione, Laurea dell’École des Beaux-Arts di Besançon (Francia, menzione  ottimo), Laurea in Lingua e letteratura francese all’Università di Padova (con una tesi sul linguaggio poetico dell’avanguardia francese degli anni  settanta che ottiene massimo dei voti con invito alla pubblicazione), Docteur dell’Écoles des Hautes Études en Sciences Sociales (con una tesi diretta da Louis Marin sulla relazione fra letteratura e arte nell’invenzione letteraria dell’ottocento francese, menzione très honorable, massima distinzione con pubblicazione).

Presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociale è stato allievo di Algirdas-Julien Greimas, Gérard Genette, Jacques Derrida, Louis Marin. Lettore di lingua francese all’Università di Padova dal 1980 al 1986 diventa ricercatore di letteratura francese alla IULM nel 1986 dove da allora insegna.

Ivi ha insegnato anche Storia del Teatro e dello Spettacolo  per quattro anni consecutivi dal 2000 al 2004 e Storia della Lingua francese. Ha fondato un centro universitario teatrale nel 1999 specializzato nel  recitare in varie lingue europee (tournée in Italia e all’estero. È autore di numerosi testi teatrali  regista, scenografo e attore con  collaborazioni e partecipazioni nel campo del cinema.


 

Due impegni locali

Chi è il poeta più bravo del reame?

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Dai, giochiamo un poco, se possibile, con la poesia, e soprattutto con i poeti, giochiamo a dire chi è il più bravo del reame, ma seriamente, proviamo a dire dei nomi, vivi, ovvio, e italiani, perché dei morti non è difficile sospettare che Montale e Ungaretti, che Luzi e altri due o tre, che fatico a immaginare, un segno stabile l'abbiano lasciato nel secolo scorso, ma in questo? Ma adesso? Nomi con due parole di sostegno, due stampelle persino, qualcosa insomma che giustifichi la scelta. Condizione del gioco è la pacatezza e ogni altra virtù che lasci il tifo fuoricasa: si parla di poveri poeti, perdio, non di generali o di milionari in mutande!

Ranieri Teti

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Ranieri Teti, in questi inediti usciti nel n.89 di “Anterem” (dicembre 2014), punta sulla forza estrema della parola, sul peso che ogni parola può avere quando la si organizzi in una sintassi essenziale, al fine di delineare l’impalpabile, che qui ha la forma del soffio sotteso al dire, del senso tra il grafema e il seme, della “luce terminale”, del margine.

Fuori dalla piazza che sbraita o che si contende il primato sull’impegno, lontano dal culto del quotidiano, scevro da tentazioni neoromantiche, questo poeta riservato (per quanto sia promotore dell’importante premio letterario “Lorenzo Montano”) prosegue una ricerca che coniuga l’irrinunciabile dialogo con il silenzio – irrinunciabile da quando Mallarmè e Ungaretti lo hanno semantizzato, rivelandone la carica metafisicamente espressiva – con un materialismo teso a tenere i segni nello spazio terrestre della creatività umana, dell’artigiano che, pur organizzando la sua struttura con sapiente consequenzialità degli elementi, dialoga e lotta con l’imprendibile silenzioso di ogni progetto, con lo scarto che ogni fare ha rispetto al pretesto e al contesto che lo ha generato. In questo modo, il misticismo implicito in ogni operazione simbolista si attenua, per lasciare alla scrittura, concepita nella sua natura di artificio, ma anche di struttura non arbitraria, un non-detto che pare nascere dal corpo dello scrittore, dall’esperienza diventata sua materia biologica, prima ancora che dalla sua scienza. Tale profondità viene a galla tramite la memoria che, per frammenti semantici e ritmici, per agglutinazioni di senso e di suono, ci racconta un presente che avrebbe bisogno di un’attenzione sottilissima verso i dettagli laterali, verso quei luoghi fondanti eppure poco illuminati dal sistema della comunicazione, pena l’angoscia che un tempo gramo come il nostro trasmette. siamo in presenza di una poesia che disturba, dunque, nella misura in cui ci invita a un viaggio senza paesaggio e privo di cornice, a una navigazione a vista. Una poesia che ci chiama “dall’oscuro senza custodia” per riflettere sulle lacune alle quali ogni a-capo rinvia, per toglierci dall’inganno che l’esperienza davvero universale sia quella comunicabile. È invece nella riserva di senso, nell’esser-possibile del non-ancora (stilisticamente reso qui nell’a-capo) che l’umanità riconosce il proprio legame con l’assoluto, che non è pienezza, bensì interrogazione continua alla quale ciascuno, dalla propria dislocazione, è chiamato a rispondere. In questo senso la bellezza non è data dalla forma stabile, dall’equilibrio atemporale del vero, bensì è la risultante mai risolta di interrogazione e determinazione, di desiderio e limite, di arte del fabbro e natura  indomabile. Lo si capisce anche dal lessico, che deve molto al romanticismo europeo, non ultimo Baudelaire. E ciò non perché sia inattuale la scelta poetica di Teti, bensì, al contrario, perché l’oggi ci trasmette sussulti simili a quell’età di passaggio: quando Schelling, nel necrologio a Kant (1804), parla del proprio tempo come di “un’epoca spiritualmente e moralmente decomposta e liquefatta”, possiamo non sentirci solidali con lui?



Doxa


*
dove si incide
il soffio riproducibile         
nel rivelarsi della voce
 
dal costato alla gola
l’ingranaggio del respiro         
il prensile dell’aria

dove erano suoni
a sillabate distanze        
possono essere cenni

frammenti dispersi
numerosa presenza
nello stesso nome                


*
tra materia e verbo
insonne l’inchiostro          
la china contraria

come si inietta
il dire l’infettarsi
                
tutto quello che trema
nella veglia della frase


*
non ogni bagliore                           
è analogo giorno
la terra interiore
di ossa indifese              
                                               
ogni presa di fiato
è placenta che assorbe
la notte dalle rive       
la luce terminale


*
dista nella parte
esposta alle piene
la cerchia dei gorghi           

la muta dei relitti      
tra onde straniere
e prove di abbandono

in continuità di fuga
l’acqua tornata vena
vigilia dopo vigilia


*
dove sta per cadere                                   
arreso al moto il fiume           
proseguire è solo
cosa si diventa

nello sguardo prolungato        
da un silenzio corrente    

la parte più profonda             
origina affioramenti
introduce in disparte                   
il dire nei capoversi              


*
restituite alla trama
decimate alla meta
le ore che portano
rifugi dove ognuno
è lontano sul limite
di bosfori e colonne
che in un varo di foci 
nel finimondo legano
la lingua al taciuto
di orfane cose erme
spogliate in tenebre


*
dall’oscuro senza custodia
l’azione dell’alba destina
una congiura di margini

l’argomento trapassante    
un altro a capo della vita




Ranieri Tetiè nato a Merano nel 1958.
Ha pubblicato: La dimensione del freddo, prefazione di Alberto Cappi, Verona 1987; Figurazione d'erranza, prefazione di Ida Travi, Verona 1993; Il senso scritto, prefazione di Tiziano Salari, Verona 2001; Controcanto (dalla città infondata), immagini di Pino Pinelli, nel volume collettivo Pura eco di niente, prefazione di Massimo Donà, Morterone 2008; Entrata nel nero, prefazione di Chiara De Luca, Bologna 2011.
È presente nelle antologie: Istmi. Tracce di vita letteraria, a cura di Eugenio De Signoribus, Urbania, Biblioteca Comunale di Urbania, 1996; Ante Rem. Scritture di fine novecento, a cura di Flavio Ermini, con premessa di Maria Corti, Verona 1998; Akusma. Forme della poesia contemporanea, a cura di Giuliano Mesa, Fossombrone 2000; Verso l'inizio. Percorsi della ricerca poetica oltre il novecento, a cura di Andrea Cortellessa, Flavio Ermini, Gio Ferri, con premessa di Edoardo Sanguineti, Verona 2000.
Fa parte, dal 1985, della redazione della rivista “Anterem”.
Collabora a riviste, cartacee e on-line, italiane e straniere.
Per conto delle Edizioni Anterem cura la collana "La ricerca letteraria".
Fondatore e responsabile del Premio Lorenzo Montano, ne cura il periodico on-line “Carte nel Vento”, presente nel sito  www.anteremedizioni.it 
Vive a Verona.


Spot: OSSI DI SEPPIA

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Ossi di seppia di Eugenio Montale non solo soltanto il libro che apre alla poesia del Novecento italiano ma anche un occasione di coniugare poesia e pensiero come non si era fatto dal tempo di Leopardi. Leggere questo libro significa cimentarsi con una visione nichilista dell’Essere, che tuttavia non rinuncia alla speranza di “un varco” che renda possibile la speranza, l’altrove salvifico.  In un percorso dove paesaggio scarno e parola asciutta concorrono a delineare la condizione di inettitudine dell’uomo novecentesco, Montale inventa un’idea nuova di bellezza, dove paesaggio e figura s'incorniciano nell'emblema della terra desolata, in linea con la migliore poesia europea, e dalla quale nessun poeta contemporaneo può prescindere.


Arsenio

I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.

E' il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...

Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso

Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, -
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene -
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.

Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.

Luisa Pianzola, Inediti

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In questiinediti di Luisa Pianzola sento l'abbraccio alla calda vita, per quanto lacerata dai bloody Sundays, e una scrittura che cerca la comunicazione sciolta dagli intoppi retorici, ma non troppo: l’enjambement tra secondo e terzo verso della prima poesia, “gaia / fratellanza”, ci riporta subito negli snodi cari al montale degli Ossi e aa molti altri poeti del secondo Novecento, che disarticolano i sintagma nome-aggettivo per meglio essere fedeli ai rumori e alle crepe di fondo del secolo.
La tradizione come fratellanza, forse, la relazione con il tempo della parola già data quale imprescindibile pane su cui fondare la possibilità di una lingua piena d’umori terrestri. Una lingua capace di trattenere fra le sue maglie anche il “nulla / che si protende poco oltre la spiaggia”, consapevole che altro non c’è, se non il “chiarore infinito” e irraggiungibile, la suggestione vaga e indeterminata del non-ancora, ma priva dell’assoluto leopardiano e di certo compiacimento sentimentale. Certo l’ingenuità non pertiene a questo canto, il quale semmai, con vigor rude, si muove tra saggezza e amara constatazione che tutto è consegnato alla morte. Verità che si sopporta recuperando un fanciullino vagamente pascoliano, una leggerezza che sa di memoria e orco e benedizione. Versi maturi, dunque, questi di Luisa Pianzola, lavorati a lungo, prima dalla vita e poi dal mestiere, che non prende mai la mano, bensì retrocede un attimo prima di diventare artificio, fa un passo indietro affinché ci sia spazio anche per noi, che siano nella stessa zattera, tra luce e tenebre, e senza patria. La chiave di lettura è perciò esistenziale, piccolo testamento di “quella che non crolla” e che riparte dopo una manutenzione ordinariadel sistema, probabilmente lunga e dolorosa.



Manutenzione ordinaria (Inediti 2015)



*

Bella vita che passi
dal mormorio infantile alla gaia
fratellanza agli scontri quasi adulti
bella vita di pane
e menta, di suoni e significati chiari
bella domenica
pure la bloody sunday che spaccava
e il sudore e l’energia buona
delle gare campestri

ti ho ritrovata, cara vita
e non ti cerco, ma ti somiglio.




*

Il tempo è un servo silenzioso
che consegna la comanda con lentezza
ma al punto di arrivare svolta all’improvviso
e tu non sai più di che ti piaceva saziarti
allora rifai l’ordinazione, ma il sapore è cieco
il ricordo non soddisfa
pronunci scandendo a chi non sente
con leggerezza arrivi a sperare che l’ora del pasto
passi in fretta.




*

Venite giù con me
alleniamoci insieme a questo nulla
che si protende poco oltre la spiaggia,
se vogliamo trovargli un luogo
oppure nell’androne di casa mia,
il tuo ritiro amichevole.
È tutto ciò che abbiamo nell’età piccina
delle risorse serali, dei fantasmi
di piccolo cabotaggio.
Da qui ci assale un chiarore infinito.




*

Perdere il contatto a poco a poco
simulare un dolore ma nell’ombra
chiedersi allora perché
e se c’è da scrivere anche poco
anche dopo letture immani, saperla intatta
la parola, la panacea diurna.

Registro questa fine e ciò che va detto
qualcosa di anodino e informe
una lecita preghiera al contrario
onda ancora senza nome che rischia il crollo
a magnitudine zero.




*

Resto quella che non crolla
ma nemmeno sale passo passo
resta un nome non mio
da urlare a mezza altezza, a medio termine
l’unica è attenersi alla regola
del bar sotto casa la cui magìa consiste
nel liberarti invisibile dalle scarpe di cemento
che prontamente indossi ogni mattina.




*

Sapremo accogliere nella morte
anche Raffaella, che se n’è andata
con le sue sciocchezze
la accoglieremo nel tribunale dei piccoli
e dei graziosi, dopo una lieve istruttoria
la terremo ancora un po’ con noi
a non capire, a scaldarsi al fuoco
a non tremare per un nonnulla.




*

Il racconto si espande oltre i confini
del monitor e un paesaggio rupestre,
un’istantanea marina, un sogno offuscato
di prime albe ti sfiorano ti svegliano
e riaddormentano, srotolando
un bandolo di esordi sconosciuti.

Terreno viaggio mio, eccoti all’erta
affamato di partenze anche false.




*
Certe sere sento la libertà molto forte
si capisce dal suono quasi nullo
degli orologi e del traffico in sottofondo
che si azzera.
Le braccia temono una sparizione
ma in quel momento di libertà assoluta
credo cieca la traiettoria del proiettile
che pure qualcuno ha in serbo per me
e le cedo volentieri il passo.




Luisa Pianzola (Tortona 1960) è poeta e giornalista, laureata in storia dell’arte contemporanea. Libri di poesia: Una specie di abisso portatile (in uscita per La Vita Felice), Il ragazzo donna, La Vita Felice 2012, nella classifica di qualità di Pordenonelegge 2012; Salva la notte, La Vita Felice 2010, selezionato da Dedalus-Pordenonelegge tra i libri di poesia italiani 2001-2011; La scena era questa, LietoColle 2006; Corpo di G., LietoColle 2003; Sul Caramba, Sapiens 1992. Plaquettes: In un paese straniero a volte ospitale, Fiori di Torchio 2013; Miniserie, Da>verso_coincidenze, 2013. Cocuratrice de Il Segreto delle Fragole 2006, LietoColle, suoi testi sono usciti su riviste, siti online e in varie antologie. Alcune sezioni di Salva la notte sono state tradotte in inglese da Anthony Robbins per “Conversation Poetry Quarterly”, 2012, e in francese da Angèle Paoli. Ha collaborato con la rivista letteraria “La Mosca di Milano” e cura per LietoColle la collana Serre di Poesia. Sito internet www.luisapianzola.it.


Mario Benedetti, "Tersa morte"

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Mario Benedetti, con Tersa morte (Mondadori 2013), mette in crisi l’implicito di ogni buon libro di poesia: quello sfondo che un corpo si porta dentro, nella forma della memoria luttuosa e della malattia, e che infetta la parola, ma non la annienta, anzi la fa splendere nell’ombra del lettore, rinvigorendone la promessa. Così era stato, in lui, sino a Umana gloria. Questo libro – radicalmente impoetico sotto questo profilo –sprofonda invece completamente nel nero, nella malattia e nel lutto, ma senza mai risalire, o raramente, spegnendo quella luce, che fa dire per esempio a Mario Luzi, rivolgendosi alla poesia: “Tu dammi il tralcio dei ritmi / il festone frondoso delle cadenze”. Dammi almeno il sorriso di Dioniso, se il senso ultimo delle cose è perduto.
A parlare, in Tersa morte, è invece una voce senza sostanza, “una voce qualunque” ridotta a nome, la quale ci ricorda, sottotono, che “non importa quello che si vede, non importa / quello che si dice o quello che si scrive”, perché nulla resta, nulla dura, se non la morte, che fa piazza pulita di ogni scoria. E tutto è scoria: case, città, epoche, ricordi, tranne gli affetti, ma che ora sono perduti, sprofondati nel nulla, inavvicinabili se non da un “sosia” che è memoria incarnata e inappartenente, “tempo portato addosso”, ugualmente infelice. 

Niente sorride in questo libro, niente si salva, abbiamo detto; non tuttavia per mimetismo metodologico, secondo il quale se l’oggi è un tempo morto, se l’essenza dell’apertura storica, di cui siamo parola e gesto, è sprofondata nel nulla, se s’intomba nel più scuro non-senso, la poesia dovrebbe, per imitazione, smettere di cantare, essendo appunto il presente già estinto e vuoto. Se fosse questo il presupposto (lo fu nella Neoavanguardia) sarebbe l’esaurimento storico a chiedere l’esaurimento del discorso poetico, la sua afasia radicale. Un esaurimento del senso, dunque, ma non del soggetto che lo pronuncia, se non altro nella posizione di sopravvissuto, di colui che racconta la maceria, che la mette in atto da una posizione fondata, per quanto precaria. Con Tersa morte il presupposto cambia. Se in Umana gloria questo annientamento dello spazio-tempo terrestre era in parte tenuto lontano dalla pietà creaturale, adesso il risucchio annichilente messo in opera dalla morte è tale da ricondurre ogni essere, dentro e fuori dal libro, a ente inanimato o muto. Anche il lettore scompare, almeno nella sua funzione di soggetto interpretante. Ad  esso spetta al più il compito di certificare l’avvenuto trapasso di ogni vivente dall’organico all’inorganico, “dal sangue, al sasso” direbbe Caproni, ma non ha appigli per rivendicare il diritto al disappunto, tanto è travolto dall’aurea mortifera che pervade ciascuna poesia. Il poeta stesso scompare, consapevolmente: “Sono questo, questa mortalità / che mi assedia, che si concentra / negli occhi, nelle mani. Intorno / sono mute le cose, le facce / che si muovono senza motivo, / e sento dissolvermi tra questo”.

La parola, dal canto suo, si arrende spesso all’indifferenziato, anche stilisticamente, attraverso una paratassi piana, che non è più solamente la cifra stilistica del poeta, come nei libri precedenti, ma inerzia di una voce che tenta di resistere all’annientamento. E questo capita perché l’unico soggetto, l’auctor fondante, qui, è la morte, tersa da ogni scoria; la morte e la sua solitudine infinita, la morte che parla a se stessa, in una circolarità desolata. Il suo essere soggetto ha infatti il modo dell’assoluto, del nient’altro-al-di-fuori-di-me. Il soggetto umano, invece, in quanto finito, si dà nel suo essere-relazione, nell’essere chiamato nell’aperto da un tu, che gli chiede ragione della sua opacità. Per questo motivo, la parola dei buoni libri di poesia cura i mortali dalla malattia dell’assoluto, aprendo al possibile, al non-ancora, all’imprendibilità del tutto terso o del tutto opaco. La morte a cui invece presta la voce Benedetti è, come appena rilevato, omnipervasiva e non ha parole da condividere con nessuno. Nemmeno con il poeta, assediato e convinto, dalla morte stessa, non solamente della propria inutilità, bensì della stessa possibilità autoriale, consegnandoci un libro che paradossalmente nessuno ha scritto: “Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia / […] / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta”. Scompare la poesia, l’autore, il lettore. Rimane la morte, padrona del camposanto, al quale essa stessa ci ha invitati, ma per imbavagliarci. Bravo Benedetti quando riesce a prendere come un tempo la parola, a resistere alla tirannia della morte, rigenerando così lo spazio dei viventi, ripopolandolo: succede quando nomina le cose, le persone, i luoghi, colti in piccoli gesti quotidiani, in spazi ordinari, dove la natura e la civiltà, seppur martoriate, alzano ancora la testa e dialogano con noi, con i nostri lutti e le nostre memorie infrante. In queste occasioni, la radice friulana del poeta si sente e va benedetta.



Da Tersa morte (Mondadori 2013)



maggio 2010


Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero
prendermi i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo
portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi.
Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco.
Adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi.
Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto.
Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’inscurisce nella forma
di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola.
Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello
o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive.



*

Vado nell’aprile del duemila e dieci
quando la casa era nostra, e l’asfalto,
i fili della luce, le montagne, il sole.
Nessuno ci vedeva e noi vedevamo tutto.
Era il segreto di ognuno per vivere.
Cade quella primavera sulle suole di neve
con il peso di tutti i miei anni:
un bianco pestato in un amaro sale grigio
la sola immagine, il mio corpo di adesso.



*

Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque.



*

3 ottobre 2011


Le parole non sono per chi non c’è più.
Si commuovono e possono dire il viso morto.
Gli occhi erano quelli che mostrava,
il vestito sepolto quello visto altre volte.
Vedere che non ci sei più, non dire niente.



*

Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
E’ avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
E’ una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.



*

Il tram a Milano in viale Monte Nero,
eri seduta a guardarlo come guardavi i treni.
Con la bicicletta senza i freni,
dopo il passo di Monte Croce
per andare a Attimis, a Forame,
è stata una fortuna non cadere, sfracellarsi.
Sapevo che c’eri, che eri vicino a guardare
mentre io pensavo, e ti trattenevo.
Come una foglia tra le foglie
eri sulla panchina. C’erano alberi e alberi,
e il tuo viso, il vestito del solito blu.
Madre, persona morta
in viale Monte Nero, sulla strada per Attimis,
per Forame dove sei nata.


Mario Benedetti è nato a Udine nel 1955 e vive a Milano.
Ha pubblicato le raccolte I secoli della Primavera (1992), Una terra che non sembra vera (1997), Il parco del Triglav (1999),Borgo con locanda (2000), Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (2008), Materiali di un'identità (2010). Ha tradotto l'antologia poetica di Michel Deguy, Arresti frequenti (2007).



Alessandro Fo

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Gli ingredienti della poetica di Alessandro Fo ce li indica molto bene Cortellessa ne La parola plurale; in sintesi (e svirgolettato per agilità blogghiana): un crepuscolarismo intenerito che si combina con un virtuosismo spesso inesibito, un’attenzione alle cose minime, carezzate secondo l’insegnamento di quell’Angelo Maria Ripellino del quale Fo è stato curatore per l’Einaudi. Una poetica enunciata, come ci ricorda ancora il critico romano, in Argini all’entropia, una delle prime sue poesie edite (1988), dove si dice che al poeta compete di ricondurre “a unità lineare” la realtà “scomposta e piegata”, ma non per finzione o esercizio consolatorio, bensì per amore, per quello spirito compassionevole verso il destino caduco degli esseri, che impone la scelta del salvare nella pagina ciò che il tempo sta macinando. All’etica civile, pubblica, al dissenso schierato ideologicamente, Fo preferisce dunque il sussurro esistenziale, che non prende di petto l’ingiustizia o il malaffare perché, in una prospettiva più radicale, non ci sono responsabili assoluti al corso naturale di ogni cosa, leopardianamente consegnata al proprio finire, all’estinzione. Più che una scelta alessandrina, di manierata fuga nel bello per consapevole decadenza epocale (Cortellessa: “L’ultimo discendente di una schiatta letteraria illustre quanto minoritaria: quella degli alessandrini moderni”), a me pare che Fo, appunto, dialoghi con l’impermanenza intrinseca al divenire, con quei gorghi commisti di pieni e di vuoti, di sentire e svanire che è vita dei mortali, così come si dà nel tempo storico sin dal principio. E se età dell’oro è rintracciabile, questa vive nell’attimo fuggente, se sappiamo coglierne la tenerezza o, come direbbe Montale, l’occasione che salva.

Mancanze(Einaudi, premio Viareggio 2014) è un catalogo di presenze semitrasparenti eppure umanissime, colte nel loro passare e salvate con la parola poetica, ma anche con la creazione di un cielo non inquisitorio, per quanto imperscrutabile, vicino ai terrestri. È un cristianesimo francescano che suggerisce il dettato a queste liriche, il pane da condividere con gli angeli, in una comunione sospesa, come le viandanze di Chopin, che in questo libro diventa maestro di stile, per tocco leggero ed estrema dolcezza, per la capacità di dare sostanza all’impercettibile e all’impalpabile. Quest’ultimo assunto piega anche l’intenzione originaria di arginare l’entropia con strutture sintattiche quadre, per darle scacco, invece, in un dettato franto, mimetico all’aleatorio vorticare del senso, che forse, pare suggerirci il Fo più maturo, non si consegna al caos entropico, ma piuttosto verticalizza in un mulinello arioso e centripeto, che, plotinianamente, dal cuore sale a Dio, dalla pietra all’Uno. In questa prospettiva, compito della poesia non può essere dar conto dell’indicibile, ma far parola dell’esperienza finita quando questa tende all’indicibile, quando lo presuppone per riconoscersi sensata. E ogni esperienza può essere fondamentale se chi la compie ne coglie la tensione tra finito e infinito. Eppure non può esserci perfetta linearità continua in questo; ne consegue che ogni vivente sperimenta su di sé le lacune, la corruzione, le “reliquia desiderantur”, le mancanze, appunto,  con cui il tempo storico inevitabilmente impasta la realtà, tenendoci così in bilico tra fallimento e speranza di ricomposizione.


La ricerca del senso ha tuttavia un’altra dimensione, l’orizzontale, che si traduce in Fo nel costruire una rete di citazioni, di legami partigiani fra uomini magni ed esistenze minute, accomunate dall’essere state attraversate dal sentimento di quel bilico, figure di un eroismo della consapevolezza e spesso conosciute dal poeta attraverso i libri, come ci spiega l’appunto che chiude Mancanze(tali sono per esempio i canti dedicati a Chopin, nati dall’amore per le sue sonate, ma anche dalle suggestioni di Andrè Gide sul compositore polacco e dalla biografia sul medesimo di Jaroslaw Iwasztkiewicz). I riferimenti colti, se letti in questo modo, non disturbano in quanto sono connaturati alla poetica della relazione, del dialogo fra i vivi e i morti, al sentirsi parte della comunità degli affetti, il cui lascito ereditario, nel profondo di Mancanze, consiste nel tramandare la lingua e i suoi tremori, l’esperienza e la sua inenarrabile contiguità con il silenzio.

Marta Fabiani (un omaggio)

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Questo articolo nasce dalla lettura di un post di Mariapia Quintavalla pubblicato sulla sua pagina facebook. Eccolo:


“Questa sera una notizia scioccante ha fermato la mia vita e dio non la sapevo: è morta MARTA FABIANI, una grandissima, coetanea poeta, del secondo novecento. E'avvenuto questa estate, nessuno me ne ha parlato. Sento quasi ogni giorno poeti o sedicenti, e nessuno, ripeto, ne ha dato notizia, Segno che i desaparasidos devono essere zitti. Ora, Marta pur avendo avuto una certa fortuna di pubblicazione e lettura, e riconosciuta da Raboni, Porta ad es. negli anni settanta, all'improvviso, col girare del vento degli anni ottanta, solidificate confraternite, scompare!!! Va a vivere in Francia, le tolgono le figlie, (figlia di una famosa critica d'arte). Ora quello che mi sconvolge è che cosa io debba fare: di fronte a queste, troppe ormai, sorelle di cui la chiave si è persa nel castello (anche interiore ) di Barbablù. Omertà e silenzi, cupole e indifferenza le hanno tacitate. Sono ancora viventi o sono morte, sono però inoffensive: le pagine della critica e del canone hanno saltato a piedi pari di integrarle, ritenerle, come si doveva, innovatrici formidabili, come i loro coetanei! Vorrei qui ripetere che Fabiani e è una grandissima . Ed io avevo deciso che la mia vita svoltasse verso auto realizzazioni e amore di sé pacificati, oltre all'impegno etico dei sempre, io, ora, sono impietrita. Come ignorarlo al convegno su Nadia Campana, come non essere scossa, dalla loro vita marginale ed eroica e distruttiva, sacrificale di sé? Non lo so. Quando vedo ogni giorno la cancellazione progressiva di memoria di uno, di due, di tre decenni addietro, mi prende la voglia di cancellare tutto, allora. E sarebbe partita vinta, ma giovani o meno, svegliatevi è l'ora: di riaprire tutte le carte rimescolare tutti i giochi, chiusi –”

***

È il “Correre della sera”, il primo luglio 2014, a dare la notizia della morte di Marta Fabiani a livello nazionale. Se ne incarica Franco Manzoni, che con un breve ma sincero coccodrillo, la definisce “Poliedrica, sensibile, geniale, una donna forte e fragile,” ricordando che fu tra “le prime in Italia ad eseguire performance utilizzando voce, corpo, movimento per rappresentare il malessere femminile nel quotidiano.” Manzoni ricorda che la Fabiani aveva pronta una nuova raccolta, L’arte del sognare, che si augura di poter vedere edita presto. Sarebbe doveroso, a questo punto, che tutta l’opera della poetessa vedesse la luce.


***


Un’interessante lettura della sua poetica la diede Luigi Cannillo, inserendola in uno studio intitolatoLa Resa dei corpi. La ferita della materia nella poesia di Giorgio Luzzi, Marta Fabiani, Patrizia Valduga, Michelangelo Coviello, Dario Bellezza (in Sotto la superficie-Letture di poeti italiani contemporanei, Bocca Editori, Milano, 2004):

 […]

Negli ultimi decenni è sembrato emergere ed affermarsi piuttosto un distacco problematico/critico rispetto alla rilevanza delle dimensione sociale e alla capacità affermativa o seduttiva del corpo. […] Quello che ci perviene, in autori/autrici e raccolte significative, è la rappresentazione di una condizione del corpo non solo di rivendicazione, ma anche di separazione e rinuncia, come di distacco dalla propria vicenda materica contingente. Si tratta di un arresto, se non di una resa provvisoria,  di fronte alla complessità di fenomeni politici collettivi o, anche, di una presa di coscienza del proprio stesso deperire. Lontano e separato dai suoi presunti fasti, il corpo resta testimone insostituibile, naufrago, scarnificato nella sua funzione, reso itinerante alla e dalla poesia come prototipo, simulacro, bambola.
Allo stesso tempo sono proprio i nodi problematici che attraversano il corpo a innalzarlo a figura emblematica del distacco e della ferita all'interno della natura, della materia e della nostra società.

[…]

In Marta Fabiani la funzione della scrittura poetica accentua ancora maggiormente la forza del vissuto, non tanto su un piano collettivo o metafisico. Qui il corpo più che pensante è corpo percettivo e percepito nella propria storia personale. Le esperienze esistenziali sono strettamente legate al femminile, a una linea a un quadro familiare definito. Sia che ci troviamo in un ambiente domestico borghese che in una dimensione onirica l'autrice trasmette il tragico e ineluttabile nell'eseguire il proprio vissuto, sia nel rapporto con l'uomo, suggestivo ma deludente, che nella propria identità familiare di donna, sulla quale pesano pregiudizi precedenti o aspettative che il Soggetto non riconosce: un insieme di vanità e tragico che indignano, portano alla denuncia oppure sfociano in fantasie di morte.
Nelle raccolte poetiche di Marta Fabiani è assolutamente centrale la componente autobiografica, posta in gioco direttamente, messa alla prova ed evocata da e con personaggi talvolta circoscritti, ricorrenti e riconoscibili, altre volte da figure fantastiche, angelico-diaboliche. I testi vivono la pressione della centralità assoluta dell'Io rispetto agli avvenimenti e della loro restituzione attraverso  una sincerità spudorata o rifermenti simbolici: «Qui è il gennaio perenne, in una stanza/ vuota spazzata sempre sporca e sempre/ rutilante. Tentenno sulla soglia, criminale,/ truffatrice, profferta, che al risveglio/ si pettina e si trova sempre uguale./ E tu non sai perché si aggroppano i capelli/ perché vengono i brufoli, e ti attacchi/ circospetta alle bambole, perché devi/ infinite volte/ toccar con la sinistra quel ch'è stato/ con la destra. Stretta da confini/ che incalzano, dai dirupi degli sguardi/ come verghe su pecore smarrite.»
Lo spazio vuoto e la soglia, evocati in questa poesia da Le nanerane (Ed. Il gatto dell'ulivo, Balerna,  1988), evocano una storia di donna, per raccontare la quale Fabiani vive e supera orrore e vertigine. Nei cicli del corpo, come nei cerchi nel legno di un albero, è inscritta la propria vita, e ognuno di quei cerchi porta con sé personaggi, microstorie.
La forma lirica, incline sempre più verso la narrazione, ha assunto poi la forma della ballata, utilizzata in senso moderno come ampia e duttile struttura narrativa. Così in particolare la raccolta Ballate dell'odio e del disonore (Manni, Lecce, 2002) ha consentito all'autrice una libertà espressiva assoluta nel sottolineare slanci e ripiegamenti, ed  è pare integrante della necessità di raccontare l'estremo e la complessità dell'esistere. La materia del vissuto così stratificata si presenta in questi grandi affreschi con i riferimenti simbolici e la carica visionaria tipica della Fabiani. Specificamente femminile, spia per esempio le funzioni corporali più intime e la materia emblematica delle fasi della vita di una donna e del rapporto tra i sessi: il sangue mestruale: «Ricusata/ con l'acqua sporca buttano la bambina,/ la donna che affluisce nel suo sangue/ e vi affoga, adieu, adieu./ Dissero che era il suo: dei suoi peccati/ mensuali, calcolati secondo un calendario/ sfasato gregoriano. Ora/ l'alta marea le copre le ginocchia/ come una gonna rovesciata, rossa/ di venature marmoree di candoglia./ Il sangue che segnala la presenza/ di una vita cosciente è la sua assenza/ la caduta del vessillo dell'ape-navicella/ che si gonfia e si affloscia a un ritmo personale,/ estenuante, purgandosi ogni volta del suo sangue./ La coppa e l'interezza, ecco ciò/ che non riusciva a reggere: ogni cosa/ si falla e defluisce, la pietà, la casa, l'amor filiale./ Il marito, un Davide colossale che gettò il sasso,/ e fece sgorgare quello zampillo rosso notte e giorno/ perché non fosse più soggetto alla strenua legge/ naturale, ma getto continuo, verticale, eretto/ come un esempio, un monito illustrato per aver/ navigato l'intero fiume della legge del menarca/ fino alla fonte, e avervi trovato/ l'Arconte, il padre morto e smemorato/ il padre del suo fiammante libro rosso.
Il vissuto sembra quindi assumere una forma circolare, di ritrovamento, dove ogni punto di arrivo può coincidere con un punto di partenza. “Senza passato/ non si costruisce passato”, scrive esplicitamente Fabiani. Le sue poesie sono stazioni di perdita e ricerca del Sé, descrizioni di personaggi, identità che diventano maschere, in un apparente disordine di allegorie e divagazioni descrittive. Dignità e rivendicazione sono i fili a cui annodare i diversi testi e che fanno esplodere la necessità di osare dire l'indicibile, ciò che di più intimo e riposto esiste sotto le apparenze delle convenzioni sociali. Fino a ricercare quella interezza ferita che l'autrice non riesce a ricomporre. Tra la donna-bambina, figura ricorrente nei versi, e il compimento della cosiddetta maturità esiste una serie di passaggi, le stazioni del dolore, dove l'unità si frantuma, la vecchia identità/età è in pericolo, messa alla prova, e la nuova non si realizza ancora, non si riconosce né nel proprio passato né in prospettive future.
A prescindere da ogni retorica rivendicativa, sono le convenzioni borghesi, le costrizioni familiari, fatte proprie e tramandate da una linea familiare femminile, a essere carnefici della libera esistenza. Si tratta però di un processo portato successivamente a compimento dall'Uomo. Nel rapporto tra i corpi si misura la distanza e la separazione, e nel corpo la scissione dell'identità. La salvezza è per Fabiani, più che nel non subire nuove stagioni esistenziali, la sopravvivenza delle diverse parti di sé,  e il riconoscimento di queste non può prescindere dalla spietata analisi e dal dire contro e oltre le convenzioni: «Con l'Uomo consumavo il mio calvario,/ il fornicante, maleodorante gnere infisse/ chiodi su chiodi nei miei polsi bianchi/ e bravamente, credendolo oltraggiare, tenendo testa,/ lo spingevo avanti. Quel delirio corrivo reiterato/ lasciò un pesante strascico nuziale/ carico d'api, lungo come un convoglio/ di deportati che non giungono al campo./ E nella luce/ devastante del giorno sul telone/ vedono visi aztechi, il male/ venuto fin qui a propagandare/ le sue fiale ormonali 'ingoia e taci'./ E la vita che avanza di spalle al finestrino,/ quella prima del male, scansata, piccina,/ ancora tuta da coltivare/ per poterla finalmente adottare/ un giorno, come orfana.»

[…]


***


Le naneraneavevano la prefazione di Mario Lunetta (la riporta “Le Edizioni ulivo”):
[…] Adesso, in questa nuova raccolta Le nanerane, l’inclinazione meno rassicurante della torva vocalità della Fabiani pare riprendere nettamente quota, e sistemarsi perigliosamente all’interno di un canto soffocato, di una sliricata smemoratezza di sé. Le “nanerane”, sono definite dall’autrice “raccapriccianti revenants” e comunque insopprimibili “muse ispiratrici e inquietanti”, e hanno ambigua funzione di spiritelli o di angeli.
[…] Il tutto, dentro un delirio accentuato di perdizione e di instabilità, di disordine e di buio, regolato con estrema sicurezza da una griglia metrica in cui l’endecasillabo lavora da pivot insostituibile, e al tempo stesso si pone come diagramma regolatore di un magma interno che fa crudeltà a se stesso fingendosi acquietamenti e pause che all’antica virulenta vitalità sostituiscono puri movimenti di teatro, fantasticherie sceniche; insomma – ancora una volta – simulacri e nulla di più.


***


Le Ballate dell'odio e del disonore contenevano una nota introduttiva di Giancarlo Majorino. Questa: 
“ Slanci... Slanci sorretti da un pensiero crudo e chiaro, ansioso di poter “chiamare” disonore, odio, ciò che amaramente respiriamo. Ballate e non forme più concentrate, senza tutavia che concentrazione e bellezza manchino. E' il neolibro di Marta Fabiani, una grande prova che mina, non rinunciandovi però, le costruzioni e le distruzioni del passato, ora divenuto giustamente presente e magari futuro, qui nella poesia dove i tre tempi canonici ballano, e severamente e scherzosamente.
Un indice di memorabili versi o salienti si può certamente stendere ma scalfirebbe l'inquietudine maggiore del libro, quella che intende disporsi per lasse, strappando al narrare certe prerogative: meglio fuoriescano da sé, nel sillabare o udire cavo del lettore, brillanti come un gesto amoroso o voci attese. E' che dettagli e sostanza di un vissuto composto di più vissuti s'arroventano a contatto e contagio di un'immaginazione radicalmente violenta, impaurita mai.
Altra filiera di acquisizioni scende da un'irrinunciabile libertà ben contemporanea perché incorporata senza riserve, che può di volta in volta agglomerare nidi di senso e suono, timbri trasformati del dovuto, coercizioni disossate e vagabondanti in una sarabanda tagliata per “noncuranti sprazzi e microstorie intensificate: il tesoro, insomma, del romanzo, del racconto issati nel verso.
E, ultima approssimazione, un linguaggio ansiosamente sostenuto da passioni, vergogne, moti condivisibili che puramente un sotterraneo desiderio di comunicazione malgrado tutto sorregge.”


 [Ringrazio Luigi Cannillo per il materiale che mi ha fornito e con il quale ho in gran parte organizzato questo post. Di Marta Fabiani avevo già scritto qui]


***

da Maratona, 1977


Poesia n. 19



Ci sono voluti
uno svenimento
un fidanzamento
un'aggressione notturna
un po' di sadismo
una protesi mammaria
una rovina finanziaria
la mia poesia (se non è poco)
per far pronunziare a tua moglie
la parola: fica.
Ma adesso lei la pronunzia
in un modo eccezionale
benché un po' tremulo, a volte
per paura di versarla
nella pappa dei bambini
e allora sarebbe tutto guasto di nuovo
sarebbe figa come magagna
o ferrovecchio, l'ennesimo dispetto.
Ha riempito di frutta le tue coppe
ma, che disdetta,  ancora non ci vede la metafora.
Anzi, vuole succhiarti
senza grazia i tuoi ricordi osceni
e imbandirli ai tuoi ospiti, mentre solleva
occhiate maliziose dalla minestra e dice
«a noi ragazze non c'insegnavano» e riscuote
benevoli consensi agli anni persi.
Tu li hai persi, eh sì, ma in altro modo.
Giravi a vuoto con il tuo tesoro, e ora
lei ti sbatte sul tavolo la spesa
cazzi di plastica, carote, preservativi
pergamenati, i più cari, e poi a quattro zampe
s'industria, assieme a trote e maialini
col tovagliolo, sembra proprio
che a dire «mangiami» le venga l'acquolina.
Guarda come impallidiscono
le robuste emicranie del passato:
sdraiata accanto a te lo fa ingollare
il frutto prelibato, tutto quanto
chicco per chicco, finché
non ti ritorna l'uovo marcio al fiato.




Poesia n. 22


Eh sì, eh sì
miei signori anfitrioni
quando ero un po' linfatica
e appena mestruata, e impallidivo
di fronte alle prodezze
delle dame secolari, e mi scoprivo
le cosce, che erano sublimi, ma, ahimé, ancora
così poco espressive,
al bar, al ristorante, c'eravate
grossi tonanti burberi, pronti a dire
tra una birra e un tramezzino
«roba da marchette» oppure
«tuo fratello marchettaro».
Adesso mi tocca ascoltare le vostre battute
dolorante di spalle, sotto il peso
di un'influenza cronica, ancora
incespicante per via di una moda
di riflesso condizionato malappreso
e rimpinzarvi
di allusive occhiate disilluse, e accarezzare
i vostri cani chow-chow, le penne stilografiche
perché una bocca spalancata di stupore
se le accaparri, a una voglia
subito gratificata in cambio di una barzelletta
comari, uccelli con le ali, vulve birichine
niente è cambiato, niente, tranne questo tic
invisibile naturalmente, riportatemi
alla parola caduta in disgrazia
all'insolenza desueta, più sicura
più sicura della vostra
camerata.





Da Le Nanerane, 1988



Mostri monotoni
non avete letto
il libro dei mutamenti?
Non è più il mio letto
il vostro campo di battaglia
né io la viola passa
tra le lenzuola dell'immondo libro.
Altre vite sfogliate, altre alleanze.
Aria, aria, via. Altre stanze.





da Ballate dell'odio e del disonore, 2002



Certe nicchie
profumano di pace, t'invitano
a non guardare in tralice la scure
che trancerà il passato, e fuori campo
la tua vira con esso.
Stanno appostate agi angoli umettati
della visione quando a briglia sciolta
torna alla stalla nel girabondare
rapito tra le tempie.
L'ombra sinuosa, palpabile di quei ricordi
protunde e si slancia come un girfalco
da un Duomo che t'inchioda il volto in alto.
Vi è via d'uscita? Sì, passando per essi.
Ma ti toccherebbero le spalle, con dita così fini
come il poeta le ha descritte. E andresti
al sacrificio turbato da quei guanti.
Dov'è quindi quella profondità di campo
che sognavi? Quello
stacco errato che ti avrebbe permesso
di ascendere a pensose solitudini?
Uno, uno solo è morto
così completamene solo. Le vesti delle statue
piangono petali di rose.




**


Se devi gridare al lupo fallo presto,
a guancia tenera, quando l'occhio
è umettato di acquetta cilestrina
tra due tende di salici del pianto.
Può darsi che ascolti.
Può darsi che gli strappi una promessa
di arrivare, non sai, ma solo quando
avrai alzato le tue torri in alto,
fin dove l'occhio arriva,da uno spalto.
Ti stupirà con il suo passo
moderato con brio, con il fracasso
tremendo dello spirito di uguaglianza
con cui la spunterete su ogni chiave,
tu il tuo passe-partout per ogni stanza.
Vedrai sovrani in bagno accoccolati,
tu stessa in ritirata, un elmo in testa
di forcute forcine, le stesse
con cui volevi infilzarti gli occhi
chiamando il putiferio: questi
e altri prodigi in una notte.
Lui si sciacquerà la bocca
a compito finito, e riprenderà il suo andare
dinoccolato, senza tema che lo sorpassi.
Tu lentamente guarderai all'indietro
dall'altra parte del castello, dove si apre
tutto il mondo: e vedrai l'infuriata
muta dei cani superare il fosso.




**



Allora, da bambina, non sapevo
spiegarmi il mio sguardo triste e attonito,
pensieroso e incantato. Era la vita
che portavo in braccio, un pacco
la ragione di quel peso.
Ora se ritorno a quello sguardo
passando per i neri salici, le pietre
incatramate trasudanti estate
da estate, per le rotaie
annodate in un mucchio,
lo sguardo si riempie del mare del passato
che non riesce a colmarlo, quanto
quello che allora aveva avanti a sé la Morte
senza che mancasse un granello, un solo granello
di pianto, un sorso d'acqua strappato alla bottiglia
posta ora come lente
tra le cose viste, sfumate
e l'incolmabile distanza
da quelle che mai potrò vedere.



Marta Fabiani (1953-2014) ha pubblicato, tra l'altro, le raccolte Maratona (Cooperativa Scrittori, 1977), Le Nanerane (Ed. Il gatto dell'Ulivo, Balerna, 1988) e Ballate dell'odio e del disonore, /Manni, Lecce, 2002). Ha curato e tradotto l'epistolario di Sylvia Plath e liriche scelte di Christina Rossetti. È stata  autrice di numerose commedie radiofoniche per la Radio della Svizzera Italiana. Ha studiato danza e recitazione con grandi maestri con Herbert Berghof e ha portato le sue poesie in teatro.




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