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Mariasole Ariot

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Dentro uno spazio labirintico escheriano, tra il bordello e il manicomio, dove dentro e fuori sono altrove inabitabili eppure inevitabili, Simmetrie degli spazi vuoti(Arcipelago, 2012) opera prima di Mariasole Ariot, ci racconta la vita allo stato larvale, il corpo-frammento che striscia nella sua tana, le sue relazioni animali, le sue reazioni all’erba, all’alcol, al “polline maschio”, al rumore della testa, al suo “delirio secco”, la sensazione d’essere morti eppure ugualmente in pericolo.

Diviso in quattro capitoli, questa plaquette – sostenuta da Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano – apre la piaga e la mostra dentro la carneficina del giorno, agìta dalla parola-deriva e dalla consapevolezza dell’umano come di “mosche incollate alle citazioni precarie”. Nessuno si salva, in questo libro, e nessuno è condannato: lo stesso cognome Ariot, può essere letto, coniugando l’a privativa greca con il sostantivo inglese, come  a-riot ossia assenza di lotta, rassegnazione. Nello specifico delle Simmetrie, l’io narrante, che si fascia “per nascondere la putrefazione”, accetta l’inferno di uno spazio in cui i silenzi “sporgono come fossero oggetti” e si mescola ad altri derelitti, “piccole edere che invadono le stanze senza linfa”. Non c’è resistenza all’annullamento, bensì un affidarsi alla parola come a una zattera senza destinazione. Suggestivo allora tentare un altro equilibrismo, accostando riot a griot, gli aedi della tradizione africana, con la differenza che questi ultimi si fanno portavoce della cultura di un popolo, mentre la poetessa vicentina, della cultura, racconta la fine, la maceria. Nondimeno, appunto, la parola mantiene una valenza fondativa e al tempo stesso scandalosa, di pietra d’inciampo (skàndalon, in greco). Invoca infatti un recentissimo inedito, in un sincopato (qui e altrove) che ricorda quello di Massimo Sannelli: “Fa’ della bocca un grembo, / fa’ che sia / grembo, come il rito sonoro è ora / vuoto, ora, fa’ che sia: pietra”. E proprio gli inediti ci confermano la forza di questo suo viaggio nel regno dei non-vivi, un naufragio lucidissimo nell’eterno nulla, nel quale “animali molli / diventano pioggia” e gli esseri più teneri si battono per non sparire, in delicato martirio.



Da Simmetrie degli spazi vuoti


G. mi chiama: mi hanno preso, saranno dieci saune e il nero scivolerà
dal corpo. Vitamine, vapore, scollamento. I settari mi
prendono sotto braccio.

Non farlo, ti prego.
G. risponde: il mio collo è già proteso.

Ritorno sulle cose, il mio corpo rigonfia in verticale e non c’è
tensione.
Scambio, amori liquidi, scelte interstiziali, questa casa è la mia
testa: cosa attendo, cosa sono, cosa voglio. E aspetto la sera per
dimenticarla, mi siedo fetale sulla soglia, ascolto viscerale con
l’occhio collassato nella gola. Chiedo spiegazioni, ricevo carità.

I padri
dall’alto
cadono come meteore.

Poi arrivano i richiami che scartavo: i ragazzi leccano le tavole a
perdizione, hanno labbra rosse e gambe veloci. Dall’alto
infilano sotto la porta piccoli biglietti di umore, li sento strusciare
alle pareti, ripetono un nome, il nome, il mio nome.
Piccole animelle che sapete già il mondo, salvate la mia notte
da una notte, mi sollevate piano, lanciate fili fino a raggiungere
la costola maggiore, e poi tirate piano. Io apro la porta per
vedervi scomparire, tappo le orecchie con due cuscini, avvolta
in un falso sonno fingo di non sentire ma vi sento.

Dal fondo delle scale dite: non ce ne andremo.

E così vi seguo, ci attacchiamo alla bottiglia come a una mammella,
è una risata a margine del mondo. Le giovani apparizioni
mi abbracciano la testa. Poi, come mantidi, ci divoriamo.

Questi noi che siamo voi, incontri come scintille e pullulare, inclinano
in caduta di animale. L’alba arriva sul monumento, il chiarore
delle colonne illumina i nostri volti bianchi, lei si appoggia
al vetro, stende i suoi rami, parla con voce bianca. Lui scrolla la
testa, troppo ubriaco per sentire, per gli occhi rossi trova un
rimedio: brucia e non c’è verso di arrestarlo. Il battito è nel
fondo delle dita, il suo volto non ha bordi.

Sulle scale un tuono passa, ci addormentiamo fino a perderci
nel tempo. E arriva il sogno.

Il cielo si separa: al lato sinistro una partitura notturna, il lato
destro un blocco di cemento, cappa estiva della terra.
C’incamminiamo verso riva, poggiamo le sacche per riposare,
prepariamo i letti come fossero cause – e ci attendiamo.

Nelle scatole che portiamo al collo conteniamo le giunture, uno
ad uno ci guardiamo, e il campo è pieno: uomini e donne come
fiumi
si preparano all’arrivo di una crepa, noi ci separiamo.

Poi dall’alto arriva, il lampo rosso acceca, precipita come una
scusa accelerata e scava solchi nel terreno, apre spaccature e
genera alture come volti.

Lavico
è il mio mondo.

Il cielo destro, prima d’un chiarore stanco e ossessivo, si apre ora
al blu cobalto, come un mare aggrappato al piano più alto le
nubi si diradano, il rosso apre fenditure accanto ai piedi, sfiora le
teste, i piccoli corrono al riparo. Con i due giovani, noi restiamo
immobili.

Ciò che ci sfiora rigenera gli sguardi, specchio dentro specchio
la terra si dilata. Non una guerra batteriologica, ma stravolgimento
primordiale, i miei interni confondono gli esterni, senza
confini possiamo ritrarci.

Padre, tra le gambe non c’erano porte.


Inediti


Tra gli edifici popolano eccezioni
muovono come riflessi sulla fronte
del tempo - e i sassi origliano
                                                         i segreti dei monti.

Per una sola immagine esiste
il lampo - e la collina e la rosa
che apre il terreno : compi il primo passo,
                                                           annuncia il raccolto.

Ma di quanto corpo
ci siamo creduti indegni :  l'indelicato fissa
la corda degli inattesi. Dice  "agli onnivori l'albero
                                                             ai cuccioli il grano"

Poi il canoro cielo scuce
dal becco i vermicelli nelle bocche : cedi
il pasto al sonno, gli animali molli
                                                            diventano pioggia.



**

Appese alla città
le bestioline perdono in tramonto,
fanno trama con i versi e tu mi versi,
                                  elimini la Storia.

[La voce dice: portala nella stanza, apri la carcassa, sfila l'insetto]

Mi appendo allora ai ganci della sera,
a questa terra di innesti e di sementi
che mastico e sputo, e mastico
                                   e ancòra sputo.

[La voce dice: sfila l'insetto, apri due bocche, fa sparire i resti]

Ma la città che mi abita dentro
torna a farmi visita ogni notte
mostra i canini superiori che ha perduto
e io mi perdo, si staccano i bordi delle cose.

[La voce dice: vesti l'abito rosso a lutto, metti una cornice al collo,
chiudi la stanza]


**

Noi parliamo: le bocche
dei morti sono aperte
gli animali fermi, i lacerati.

Noi 
grondiamo imitando le voci dei notturni
torniamo nel grido che ci ha nati.

Noi parliamo
col muso di animali piegati 
alle ginocchia per congedo - noi,
quando non siamo

Sappiamo 
la lingua sconosciuta dei fratelli : 
una bestiolina è un pianto
che ci siamo dati per parlare.


Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) vive e studia Sociologia a Trento. Ha pubblicato Simmetrie degli spazi vuoti (Milano, Arcipelago 2013), La Bella e la Bestia in AAVV, Di là dal bosco (Milano, Le voci della luna 2012). Sue poesie e prose sono apparse su Nazione Indiana, Il Primo Amore, Poetarum Silva, Gammm e Metromorfosi Infocritica. Ha composto musica e testo del brano “Inversione” per il disco A rotta libera del gruppo Forasteri e collabora alla rivista scientifica lo Squaderno - Explorations in space and society. Suona il pianoforte e dipinge.




Simone Maculan: Il paesaggio nella poesia veneta del ventennio 1945-1965

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                                                  a forza di guardare e di non vivere
                                                 cos’è mai divenuta la poesia?
                                                                              Fernando Bandini[1]




   Il paesaggio gode di rilievo in tutta la letteratura veneta moderna. In particolare appare degna di nota la sua rappresentazione nella lirica in lingua alla metà del secolo scorso: il disinteresse per altre questioni, ad esempio politiche o teoretiche, fa in modo che i poeti propendano per un tema “di ripiego” come quello del confronto con la natura. Il soggetto proietta nel contesto ambientale la sua condizione di isolamento, chiusura, estraneità alla storia. Si possono considerare esemplari in tal senso i testi di Diego Valeri. Nessuno degli oggetti da lui rappresentati può collocarsi in una determinata epoca: città (Padova, Venezia) e campagna rimangono dall’inizio alla fine identiche a se stesse o mutano solo in rapporto alla percezione soggettiva. Alludendo da un lato alle pratiche simboliste, dall’altro ai tradizionali topoi sulla natura, Valeri tende a fissare i singoli elementi nel loro valore emblematico: in certi casi le presenze ambientali si riducono a un pretesto per riflettere sull’esistenza.

Occhi, prendete! I meli tutti fiori
                                                           e foglie, i pioppi vestiti d’un velo
                                                           d’acqua tremula, e questo acceso cielo
                                                           dietro la tenda opaca dei vapori,
                                                                                                      
                                                           sono la grazia di un’ora che fugge
                                                           come fuggono i venti dell’aprile;
                                                           sono una essenza fragile e gentile
                                                           che ride e splende, e subito si strugge. [2]

   In perfetta linea con Valeri si colloca Antonio Chiarelotto, originario di Montebelluna. La sua scrittura gioca su due piani che, nell’entrare in contatto, danno origine a intense suggestioni figurative: da un lato si opta per una resa realistica degli ambienti, con grande ricchezza di dettagli; dall’altro gli oggetti vengono allontanati in una prospettiva fantastica o memoriale.

La domenica bianca, delle Palme,
                                                           tutta corse e sorprese
                                                           sulla strada degli echi,
                                                           coi rossi lumi delle case sperse
                                                           tralucenti da siepi
                                                           sul sonno velato dei campi,
                                                           e io stringevo fra le dita rosse
                                                           gemme di spino e fuscelli
                                                           con campanule di brina.
                                              
Io mi guardavo, fatto d’aria:
                                                           il berretto marino sui ricci biondi,
                                                           lo schiocco delle gonne
                                                           e di scarpette nuove,
                                                           tutto era volo. [3]

   Se quello di Chiarelotto è un paesaggio suscettibile di ampi slittamenti sul piano crono-spaziale, Bino Rebellato ci riporta, volta per volta, alla dimensione del presente: le mirifiche parvenze dell’alta padovana vengono colte nell’attimo in cui lo sguardo le genera, e solo in quello hanno senso d’essere. Le limpide acque del Tèrgola o le rosse mura di Cittadella s’imprimono appena sulla pellicola, dando origine a un fotogramma, statico e sbiadito, che è il singolo testo come noi lo leggiamo.

                                               Quando l’aria pulisce gli orizzonti
                                                           scendiamo ad uno ad uno al nostro fiume
                                                           fra i banchi della ghiaia
                                                           a specchiare la fronte;

                                                           contadini coi cappelli di paglia,
                                                           raccogliamo cannucce sulle sponde
                                                           a intessere pensieri intorno agli orti
                                                           fra macchie d’ombra. […] [4]

   Nella poesia del padovano Giulio Alessi, invece, la tendenza a rifugiarsi in atmosfere sublimate viene respinta quasi subito, nel momento in cui si accoglie sulla pagina il mondo così com’è, senza bisogno di offuscamenti o nobilitazioni. Un paesaggio veritiero, che si anima grazie ai personaggi che lo popolano; vengono rappresentati, da una parte, le condizioni miserabili dei sobborghi; dall’altra, gli elementi che segnano la modernizzazione del territorio. Uno sguardo coraggioso, si può dire. Ciononostante manca un tono di denuncia sociale o ecologista; il valore che ispira l’apertura verso l’altro è piuttosto la carità cristiana.

Chiare al sole, con l’erba sui tetti,
                                                           case vacillanti
                                                           che hanno sofferto le buie querele del tempo
                                                           ed ogni donna alla finestra
                                                           ha un povero amore
                                                           che va mendico.
                                                           Ma la festosa rondine improvvisa
                                                           stride allo svolto
                                                           a chi si domanda
                                                           sul ponte
                                                           coi gomiti appoggiati al parapetto
                                                           rosa dal sole del mattino. […] [5]

   Ma viene l’ora in cui le trasformazioni si fanno violente anche nella provincia veneta. Riguardo alla poesia, si segnala la “fine della complicità con la natura, su cui si proiettava l’io lirico” [6], con conseguente “espulsione del soggetto psichico ad opera degli elementi naturali” [7]. I paraventi non tengono: la tela del paesaggio si strappa, sotto l’impeto del cambiamento, o addirittura viene staccata dalla cornice. Leggendo le poesie del maranese Bortolo Pento è possibile individuare alcune crepe che minano la fictio. Dapprima, nel sospeso contesto agreste si intrufolano elementi che esulano dal classico alfabeto figurativo (i “camion” dei soldati, un “romapadova”, “il nero / di una deserta ciminiera” che sciupa la “gentilezza rosea / dell’alte nuvolette”); poi gli stravolgimenti si fanno tanti e tali da rendere vana qualsiasi fuga tra le colline.

                                               Le gigantesche torri cittadine,
                                                           il ciclopico rullo dei cantieri
                                                           ascolti come il canto dei tuoi giorni.
                                                           Il mostruoso fiore dell’uranio
                                                           e la leggiadra orbita degli sputnik
                                                           già vedi balenare sugli schermi. […]
                                                           Indicibili talpe abbacinate,
                                                           levigati metrò e locomotive
                                                           intersecano il polso della terra. […]
                                                           E risplende dall’artica banchisa,
                                                           estremo segno, l’ultima baleniera. [8]

   Una via diversa per sopravvivere al transito da un tempo simbolicamente ricco a uno di totale spogliazione è quella delineata da Gino Nogara. Il suo paesaggio contempla – con riferimento alla geomorfologia del vicentino – un susseguirsi di prati e campi di mais “fino all’estremo segno / delle pianure e là alle valli, al margine / degli altipiani”. E’ un habitat intimamente connesso alla civiltà contadina, che va ormai smarrendosi. Tuttavia, nel momento in cui il presente svela il suo volto inautentico, non basta la memoria a riscattare il vuoto. La soluzione più ovvia perciò è uscire dal paesaggio[9] per dedicarsi alla meditazione astratta: in questo verso procede il poeta, consapevole che la bellezza naturale non costituisce ormai un valido caposaldo orientativo.

Al limite del gioco
                                                           negli occhi il duro lume che ci spoglia. […]
                                                          
                                                           A smascherare sino in fondo questa
                                                           vile coscienza, fuori dal paesaggio
                                                           un grido porteremo, mai più il canto. [10]

   La ricerca sperimentale di Cesare Ruffato e Andrea Zanzotto muove invece dall’interno della logosfera: il paesaggio stesso, più che di riferimenti esterni, vive come infiorescenza verbale. Se analoga in Ruffato e Zanzotto è la vocazione allo sperimentalismo, nel primo mai si perde la tangibilità corporea del referente. Ecco un ritratto della sua Padova.

Mascheroni, semafori, portici
                                                           camini, sinusoidi
                                                           omnia tristia,
                                                           la città erpica gli argini
                                                           della luna. Lampeggia il Salone
                                                           di barite, l’occhio ciclopico
                                                           del Prato e gli anni d’Antenore
                                                           nelle vie tra i rifiuti. L’affanno
                                                           l’ozio, i convegni, ogni tessuto
                                                           del giorno ora si tende, minima
                                                           scoria.
                                                           Alla sete della terra, alla fatica
                                                           i colli curvati
                                                           àncorano lumi alla pianura. [11]

Nel solighese forzatura dei legami significato-significante è invece praticata su larga scala: linguaggio e paesaggio non hanno più un senso univoco, ma si disperdono in costellazioni tra le quali l’io, a sua volta disintegrato, si barcamena.

                                                Da questa artificiosa terra-carne
                                                           esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
                                                           – soli che urtarono file di ciglia
                                                           ariste appena sfrangiate pei colli –
                                                           da questo lungo attimo
                                                           inghiottito di nevi, inghiottito dal vento
                                                           da tutto questo che non fu
                                                           primavera non luglio non autunno
                                                           ma solo egro spiraglio
                                                           ma solo psiche
                                                           da tutto questo che non è nulla
                                                           ed è tutto ciò ch’io sono:
                                                           tale la verità geme a se stessa,
                                                           si vuole pomo che gonfia e infradicia. […] [12]

   A differenza di tutti gli altri, il veneziano Carlo Della Corte e il vicentino Fernando Bandini, più giovani, non vivono il processo che porta alla dissoluzione delle arcadie. La loro avventura appartiene ad un nuovo capitolo della storia letteraria, di certo consequenziale al precedente, ma nel contempo autonomo. L’idillio non esiste più: è passato il tempo dei purismi e la realtà avvampa sotto l’esile corteccia della scrittura.

                                                Lungo il limpido margine
                                                            su cui moriva il lampo della rondine
                                                            il tempo ha seminato l’ombra e il sale.
                                                            Il poeta si scusa del suo male.
                                                            Molesto il pensiero l’assale
                                                            d’un’altra età dove il grano era biondo
                                                            e resina era il mondo
                                                            stillante dalla scorza delle pagine. [13]

La poesia, definendosi luogo della crisi, permette a chi scrive e a chi legge di tenere aperti gli occhi sul mondo; si presenta come termometro socio-politico, oltre che esistenziale; si interroga sul ruolo della lingua e sul suo possibile futuro. Il paesaggio è dunque pronto ad accogliere la storia: il flusso dell’attualità erompe tra le pagine, portando con sé una visione articolata della società.

Il corallo del cielo, i gridi appena
                                                           desti di spalatori che si chiamano
                                                           da un ponte all’altro…
                                                                                                              L’alba a salutarti
                                                           non fatica. Nell’algido acquitrino
                                                           della laguna non c’è gozzo o barca
                                                           che viva, solo il legno del lattaio
                                                           pulsa timidamente di un motore
                                                           dentro il vitreo malanno: mille bocce
                                                           sono esplose in silenzio, il fondobarca
                                                           è sommerso da un latte malinconico,
                                                           niveo flutto, a deludere chi ha fame. [14]

Quella membrana che prima sigillava il soggetto nel breve giro delle sue emozioni, ora si espande e ammette per osmosi altre presenze che si muovono, amano e soffrono. In altre parole, si fa incubatrice di un nuovo umanesimo.


Simone Maculanè nato a Malo (Vicenza) nel 1980. Si è laureato in lettere con una tesi sul paesaggio nella lirica veneta del novecento. Oltre a insegnare, è attivo come volontario nel carcere di Vicenza e si occupa di cultura ed educazione presso il Centro di Documentazione Paulo Freire di Padova e presso l’associazione ipiccolimaestri di Malo.  Sono stati pubblicati due suoi interventi, il primo nel 2006 sulla materia della tesi e il secondo nel 2007 dedicato all’intellettuale e poeta maranese Bortolo Pento. Più di recente ha curato l’antologia di un altro poeta locale, Walter Giuliano Fabris, di cui è prossima la pubblicazione.  

                                                                                                      



[1] F. Bandini, Sermone, nella raccolta In modo lampante,Venezia, Neri Pozza, 1962.
[2] D. Valeri, Occhi, prendete in Poesie scelte, a cura di C. Dalla Corte, Milano, Mondadori, 1976.
[3] A. Chiarelotto, A mattutino,tratto da Poesie 1937-1985, Scheiwiller 1986.
[4] B. Rebellato, in Viandanti in cerca di una spiga, ne Il tempo finito, Padova, Rebellato, 1959.
[5] G. Alessi, Cara città (1956), ne Le poesie, a cura di I. De Luca e V. Zaccaria, Milano, Mursia, 1986.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] B. Pento, Apocalisse in bianco e nero, in Un giudizio della vita, Padova, Rebellato, 1965.
[9]Fuori del paesaggioè il titolo di una sezione della raccolta Detto con ironia, Venezia, 1966.
[10] G. Nogara, Al limite del gioco, in Detto con ironia, Venezia, 1966.
[11] C. Ruffato, Mascheroni, semafori, portici da Il vanitoso pianeta, Caltanisetta, Sciascia, 1965.
[12] A. Zanzotto, Esistere psichicamente, in Vocativo, Milano, Mondadori, 1957.
[13] F. Bandini, Sermone, nella raccolta In modo lampante,Venezia, Neri Pozza, 1962.
[14] C. Della Corte, Cronache del gelo, Milano, Schwarz, 1956.

Marco Bellini

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Vincitore dell’European poetry Tournament 2013, Marco Bellini è un poeta lombardo che cerca una parola nitida, un verso che, nominando il visibile, intessa i fili segreti, i non detti, e quel tempo reticolare che ci tiene in piedi, a consistere in quanto “corpo e gesti sopra le suole”, senza pretese, se non quella di mantenere dignità e passione verso la natura e gli esseri viventi. Sotto l’ultima pietra (La Vita Felice, 2013) esprime questa poetica, raccontando un viaggio lungo l’Adda, dalla sorgente predatrice (nasce infatti “dalla morte dei ghiacci”) a quando il fiume confluisce nel Po. Un viaggio, questo del libro, anche temporale, un lambire memoria e lutto, innocenza e superstizione, toccando toponimi raffigurati in una cartina liminare, a garantire concretezza allo spazio, verità dei luoghi, per quanto, nel profondo, tutto sia bagnato dalla precarietà della morte: dal ponte dei suicidi (il San Michele) al cadavere del lago, dal gioco infantile del calcio all’ombra di via Cesare Battisti, alla casa operaia di Crespi D’Adda, un tempo parte di un quartiere simbolo dell’industrializzazione e ora vuota, per la dipartita di un uomo senza nome, naufrago della storia.

Tutto il libro, invero, è un lungo peregrinare ai margini della modernità, nella fatica della navigazione a vista, laddove manca certezza lavorativa o futuro comunitario. La seconda sezione in particolare, “Sotto l’ultima pietra”, può essere letta come una serie di canti dell’estinzione, della sopravvivenza residuale: c’è un campo profughi, ci sono le “rose” di Sarajevo, che “hanno il colore di un’emorragia” perché tracce ineluttabili dei bombardamenti, e ci sono le ombre dei morti, come la macchia d’uomo a Hiroshima e la gattara, straniera tra gli umani e madre dolcissima delle creature selvatiche. Le due sezioni sono complementari, a raccontarci un presente in perdita, inautentico, da cui fuggire, per quanto possibile, tornando alla natura. Ecco allora che “il sentiero di montagna sembra il rimedio”, un’oasi temporanea, così come osservare la gente vivere, coglierne i dettagli come un entomologo pietoso, che sa leggere le vibrazioni più intime nei gesti quotidiani e ce le restituisce asciutte, nella loro rarefatta imprendibilità: “Il bambino sul cavallo a ogni giro / saluta l’incontro con i genitori / che a ogni giro rispondono, sorpresi: / conferma dello stesso poco, / di un’appartenenza […]”.

La terza sezione, “DNA”, allarga il tema ad altre figure umili (il muratore, il fruttivendolo) e a figure parentali, nelle quali l’io lirico si specchia: “A me – scrive in chiusa a una poesia sull’orto del padre – manca solo la cicatrice che lui portava”. E, a proposito del figlio “che sta ancora dentro l’imbrago”, osservandone “le scarpe da jogging sul balcone”, vede se stesso adolescente, la stessa grinta e forse gli stessi sogni.

La quarta sezione, “Geometrie liquide”, rimette al centro sia la natura (con la sua memoria conservativa, anziché distruttrice come capita nell’età della civilizzazione), e sia l’abitare intaccato dal tempo dell’abbandono: le case “di un giallo malato” sono ora prede di insetti e piante, che si riprendono lo spazio antropico. E un tremore caro a Leopardi, per come nulla resti, passa improvviso, “un fiato scuro / che non penseresti mai sul tuo davanzale”, un tremore che aleggia in molte pagine, con un pessimismo che si dava più attenuato in Attraverso la tela (La Vita Felice, 2010) dove non mancano “un portico acceso di pannocchie”, una polenta e un “contadino che legge le piume / del tordo, segno buono per attaccare l’aratro / e ricominciare il vapore”, per quanto sia già chiaro al poeta che noi comunque sfioriamo entro una cornice gelida e minacciosa, un misto di destino labirintico e civilizzazione disumana. Alla quale contrapporre relazioni umane cercate nella loro forza creaturale, in sintonia con la “calda vita” di sabiana memoria, e parole nate dall’esperienza ordinaria e rimesse in ordine con la poesia, per districarsi un poco dal rumore della chiacchiera e dal caos che la vita è per natura.


                Sezione: Seguendo l’acqua
                       (L’Adda)


Le nuove abitudini

Essere una moglie per trent’anni
era stata una buona scuola: aspettarlo sempre.
Le mattine che si aprivano sulle domeniche, portavano
il suo ritorno con il bosco sotto i piedi;
allora toccava a lei, i funghi da seccare o le castagne da incidere.

Ricordava esattamente dove si trovava
quando aveva ricevuto le telefonate; la prima,
il chiasso dell’incrocio, un piede rimasto giù dal marciapiede:
non era tornato al punto concordato. L’altra
al supermercato, la musica diffusa nelle corsie:
piegato, stava tra i cespugli, fermato
nei suoi boschi; così il ritrovamento.

I pochi giorni in cui
si era definita la situazione, come un cardine,
sarebbero stati un appoggio
per il tempo messo dopo, senza più pensare
ai cespugli, quel sentiero pericoloso, lui piegato, lui
che non la faceva più aspettare.
Gettare via i vestiti usati, il bastone curvo
(ci spostava le foglie), la rabbia
come un odore pesante nella casa,
i disguidi accettati come normalità.

Le nuove abitudini premute sopra.



Scomposto il braccio

Il lago portò un corpo, una restituzione
incerta, una confessione tra le barche
a riposo. Scomposto, il braccio piegato
a indicare le case di Pescarenico, il lavatoio
le mani di donne chinate e il sapone
a levare i sogni, le bottiglie d’acqua
appena discoste dalle porte, così
per la distanza dei gatti. La somma del tempo
in quella carne faceva ventidue anni
il nome non si leggeva.

Domani ne avrebbero parlato
se non c’era altro.

                Nota:
Pescarenico è un piccolo borgo, affacciato sul fiume vicino a Lecco, che  conserva le atmosfere e i  profili di un tempo lontano.


“Arimo”
                                               a Vittorio


“Arimo”: quando l’infanzia viene a trovarti,
dentro una parola rimasta senza voce.
E la riconosci, ti apre, torna feconda.
“Arimo”: era per tirare il fiato
mettere una pausa nella corsa dei giochi.
Davanti a questa parola anche le lucciole
posavano la lanterna. Poi si ricominciava.

E penso a Vittorio, a quando il fianco
di un prato ci nascondeva
e “arimo” era una possibilità di festa
e morirai una parola nella sua tasca.
Lui che da grande, finiti troppo presto
gli amori, alla vita disse “arimo” e alla tasca
l’ascolto. L’ultimo gioco fu in un bosco
a tagliare legna e il suo futuro.
E adesso come una figurina
si stacca dalla memoria, da quel bosco
battuto da un vento arido, adesso
che a dire “arimo” ci siamo noi.

                 Nota:
espressione convenzionalmente in uso tra i bambini durante i loro giochi; l’intento è quello di richiedere una pausa. La versione estesa è “arimortis”.


Sezione:Sotto l’ultima pietra

Le dita sulla rete
(Un campo profughi nel terzo millennio)

Alle spalle, fermate con i sassi lungo linee regolari, le tende;
sotto: la terra sbagliata, quella che nessuno chiama casa.
Stanno in piedi, lo sporco dietro le orecchie, le mosche
sulle pieghe sudate; tengono le dita sulla rete, guardano
lo spazio, una linea diversa che sia una proposta.

Chissà se provano a fare il conto: la distanza dalle colline
che ogni notte si spengono e mettono a letto le cose, una sedia,
una coperta piegata di fretta. Oggetti lasciati nell’urgenza del distacco,
o forse per appartenere ancora. Là tra i ciuffi e le rocce, si tiene
la possibilità di tutte le direzioni, un’altra luce, un ritorno.
Lo sanno, domani niente sarà più vicino e la coperta ancora perduta.

A qualcuno toccherà fermare lo sguardo, tenerlo sopra,
 misurare il perimetro, la rete che tiene fuori la paura
e dentro li fa stranieri. Si dovrà mettere qualcosa al servizio:
un passo, o l’avanzo sporcato del tempo gettato. Lo sappiamo,
qualcuno dovrà guardare sotto l’ultima pietra.




Dietro la fisarmonica

Tutti abbiamo un urlo pronto in tasca
tra le monetine rimaste di un caffè
e un biglietto con un numero:
“chiamami” disse al bar.
Dietro la barba, all’angolo tra le due strade
 parlarono delle urla che sostano
che ti prendono alle spalle.
Disse che le conosceva, lui aveva
l’Albania che non gli taceva dentro,
disse che raccontavano la fine delle cose
e che per fare bene il loro mestiere
chiedevano silenzio e le pance aperte.

Lui afferrava una fisarmonica.



                Sezione: DNA

*


Non basta accettarli all’offerta un po’ esitante
devo chiederli più spesso i pomodori
che combatti alla terra e prepari
sulla notizia del giorno incartati appena vedi
l’auto al cancello e arrivi che quasi disturbi
e dovrei dirtelo che non è vero. L’orto
come uno specchio dove ti confermi
è il tuo dire che ci sei che la pensione
e quella mattina reumatica
tutta un problema dentro il nome
non l’hanno vinta e tuo figlio grande
deve chiederli più spesso i cetrioli
che stasera alla sua tavola
crescerà ancora un dito.  




*

La pianta grassa alta ventidue centimetri
un paio di volte l’anno spingeva fuori
di mezzo le spine, un fiore viola. Nella venatura:
la linea del costato, il filo delle vertebre.
Sotto la ghiaia a sassi bianchi, il morto
un paio di volte l’anno, si specchiava.


       
*


Quell’appartenenza sospesa
tra l’uomo che mi ha dato
e lui che si è preso
ancora dentro le mie mani, ad incarnarsi
un pezzo alla volta, una spina dorsale
che si fa. Non posso fingere
il riflesso che sono stato
e tu cominci ora
anche se non riconosci
quel tuo sistemare l’orologio
quello stare sospeso sui talloni che è mio
cominci e ritorni
una luce che è già stata.


Marco Bellini risiede in Brianza dove nasce nel 1964. Oltre alla lirica “Le parole” (Edizioni Pulcinoelefante 2008), sue raccolte di poesia edite sono: “Semi di terra” (LietoColle 2007), la plaquette “E in mezzo un buio veloce” (Edizioni Seregn de la memoria 2010), “Attraverso la tela” (La vita felice 2010) e “Sotto l’ultima pietra” (la vita felice 2013). Ha ottenuto riconoscimenti  in numerosi concorsi. Sue poesie sono state inserite in diverse antologie, sono apparse sui blog “La poesia e lo spirito”, “Blanc de ta nuque”, “La presenza di Èrato” e sulle riviste “Ali”, “Le voci della luna”,  “La mosca di Milano”e“Incroci”. E’ risultato vincitore della selezione nazionale “European Poetry Tournament” 2013.


Libri di Versi 6, con il nome dei poeti che leggeranno

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Venerdì 18 luglio
ore 18.30
Portogruaro
Museo Nazionale Concordiese

Inaugurazione mostra Libri di versi 6
A cura di 
Silvia Lepore e Sandro Pellarin
Libri di versi è un’esposizione di libri oggetto, o libri d’artista, nati ciascuno dalla collaborazione di più di 40 tra artisti visivi e poeti.
Presentazione di Katia Toso. La mostra rimarrà aperta dal 18 luglio al 31 agosto, tutti i giorni dalle 9.00 alle 19.00. Per concordare le visite guidate all’esposizione telefonare ai numeri 340 6144702–349 3808384.

Venerdì 18 luglio
ore 21.00

Reading sull’acqua
con i poeti di Libri di versi 6
Suggestivo reading sulle acque del Lemene, che coinvolgerà i poeti che con i loro versi hanno ispirato le opere esposte in Libri di versi 6.
Paesaggio sonoro a cura di Paolo Pascolo.
I poeti:

Maurizio Benedetti
Roberto Ferrari
Guido Cupani
Piero Simon Ostan
Luigina Lorenzini
Marina Giovannelli
Dome Bulfaro
Ivan Crico
Luisa Gastaldo
Fabio Franzin
Michele Obit
Daniele Maraviglia
Francesco Targhetta
Francesco Tomada
Stefano Guglielmin
Donato di Poce
Marko Kravos
Andrea Zuccolo

Buone ferie con sassolino

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Anche quest’anno Blanc de ta nuque va in vacanza. Riprenderà a fine agosto continuando a recensire fino a esaurimento scorte. Decine di libri interessanti aspettano, tanto che arriveremo al nono compleanno (maggio 2015) con una certa facilità. 

Dopo sarebbe il caso che mi fermassi, soprattutto perché mi sembra che la funzione divulgativa dei lit-blog possa procedere anche senza Blanc. Semmai ci fosse ancora bisogno di divulgare, di mappare (a questo potrebbero pensarci gli editori, come già stanno facendo – mi riferisco, per esempio, a Poesia in Piemonte e in Valle D’Aosta, puntoacapo editore), di far conoscere libri che, detto tra noi, talvolta sono carini, ma non abbastanza per giustificare 6 – 7 ore di lavoro per un’adeguata lettura e recensione.

Direi che nove anni di vetrina siano abbastanza, per me e per i poeti che ho ospitato. Circa 250 e non tutti caratterialmente facili: chi ha ringraziato e chi no, chi si è illuminato e chi si è offeso pensando che una recensione dovesse per forza diventare un panegirico. È stato bello, però le rinunce a scrivere d’altro, a leggere altro, pesano.

Sisifogugl si ritirerà in modo asintotico, non si preoccupi chi già sente la lacrimuccia sulla soglia dell’occhio. Che poi in rete si piange per ogni cosa, nei primi cinque minuti, almeno; poi ci si consola con cento altre cosette intelligenti che la ingolfano.

A quelli che hanno ignorato volutamente Blanc non dico nulla perché tanto continueranno a sostenere che la critica letteraria è morta o a mandarmi gli inviti a partecipare ai loro convegni, ad ascoltare le loro interviste, a comprare i loro libri, a difendere il loro clan, sempre evitando accuratamente di nominare questo sito, non addomesticabile e soprattutto inadeguato a promuoverli negli ambienti giusti (editori che contano, baroni universitari, premi).

Ai poeti che intendono mandarmi il loro libro per una recensione dico: non prima di maggio 2015, e pochi, per cortesia, che fuori di qui ci sono tanti altri bravi lettori, che non vedono l’ora di poterlo dimostrare.

Buone ferie a tutti!

Simone Camilli, "About Gaza"

Paolo Pistoletti

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Legni(Ladolfi Editore, 2014) è opera prima di Paolo Pistoletti, cinquantenne umbro, maturo in fatto di buone letture e consapevolezza di sé. Il libro presenta un’approfondita nota critica di Marco Beck, tesa a dimostrare la sua pregnanza religiosa, disseminato com’è di “segnali discreti, più o meno allusivi a un atteggiamento di fede”. Verità sacrosanta, ma alla quale può essere accostato, senza incoerenza, un’immersione nel finito, tesa a interrogarne il senso, che sembra sempre sul punto di svanire, se non fosse per i legami parentali, che lo stesso Beck mette in luce. “Stiamo per affacciarci a volte / ma qualcosa di noi si perde a terra” recita il secondo verso della poesia incipitaria, a segnare un movimento verso l’esterno (natura, cultura, Dio) che non può compiersi pienamente. Il corpo è ingombrante infatti, la materia tutta – di cui il legno (che misteriosamente “si muove / senza vera vita”) è l’emblema – diventa casa, spazio non ineludibile, che ci tiene ancorati in un orizzonte che vorremmo decodificare, una foresta di simboli che Pistoletti non si accontenta baudelairianamente di attraversare, ma di cui vorrebbe cogliere la radice trascendente, tra un cigolio di una porta e una speranza, nata “appena sopra il lampadario”. Vorrebbe farlo non da solo, ma con quel nucleo etico, kierkegaardiano, che è la famiglia, vissuta all’insegna della scelta e della responsabilità. E tuttavia le crepe sono in agguato, soprattutto nel racconto coniugale (Viaggio di nozze: “Allora adesso ti posso lasciare / indietro a setacciare il ventre della baia / fino a quella luce capovolta / sotto la barca / dove oramai già tu sembri scomparsa”; “perché il buio avanza” recita Acqua, “e la legna che siamo si è spenta”, chiosa Foto in bianco e nero II). Crepe che trovano parziale rimedio nelle figure della figlia, della madre e del padre, soprattutto di quest’ultimo, nel quale l’io lirico si riconosce, sino a immedesimarsi nel medesimo destino (Bosco), e verso il quale ha una riconoscenza infinita per averlo coccolato e trattato come un principe (Vecchio); crepe che tuttavia non aprono alla deriva, ma diventano chiodi da comprendere nella loro necessità esistenziale perché in terra si cade, si saltella, al massimo, ma non si vola. E anche quando si agisce, sembra sempre, a ben vedere, un fare e un dire “di paglia”, per quanto in cuor suo Pistoletti sia convinto che ci sia una ragione più alta per la quale noi esistiamo. E qui ha ragione Beck a ricondurre questa poesia nell’ambito cristiano. Di un cristianesimo alla Pomilio, come il prefatore ci ricorda, laddove in Scritti cristiani lo scrittore abruzzese ci parla di religiosità “che si esplica non nei proclami, ma nella giustezza delle opere, non nel parlare in nome di Dio, ma nel fare quanto si fa come se si fosse al cospetto di Dio”.



Imbronciata


Dal parcheggio alla casa dei nonni
saranno duecento passi. Mi tieni
imbronciata la mano. Sento                    
che all’abbraccio del sangue sfugge
la luce quando non è nei tuoi occhi.
Lo so che resti accesa
dietro quello sguardo da lupo
e là mi conduci ancora.                                                                   
Dicono che la retina fissi così per sempre
quelli che arrivano da scie invisibili.
Padre e figlia
                      insieme
dovrebbero gridare
strappare a quattro mani le bambole
quando le cose vanno via
non avere pace
non dare senso troppo in fretta
al vuoto perché noi                                    
si sta qui
come chi vede la brace nell’aria.
                                                  



Legno di casa


Conoscere il legno di casa
gli spacchi le età i cerchi
la traccia della resina.
Chiedersi come mai si muove
senza avere vita,
se la linfa veramente manca
dentro tutta questa povertà
che ti guarda
che ti fa ombra
quando il fuoco avvampa
sulle mura o sul tetto
al fumo della cappa
alla fuliggine delle stelle.




Bosco


Come un bosco è cresciuto mio padre
giorno dopo giorno.
Le radici ora circolano
dove non sono mai stato
nella bocca nera della terra.
Il cuore del legno viene da lontano:
lui qui c’è arrivato prima della guerra.
Ma poi gli anni dai cerchi
dai rami sono passati tutti
per la linea delle mani                                            
e foglia dopo foglia                                                       
la linfa nelle vene
ha ripreso la via
della luce che non si vede.                                                          
La sera del derby di Milano
un’onda accesa da dentro
l’ha portato via dalla poltrona
come un fiume contromano.
Solo dopo il medico ci ha detto
che c’era nato                                            
con quella voragine nel petto:
e da allora qui intorno
aspetto sempre di sentire il tonfo
la fine di questa fame senza fondo.




Legni                                                                    

                                                
Non mi ricordo più quante volte si muore,
quante stagioni di legni
ci pesano sulle mani
prima di rovesciarci il cuore.                                   
All’ospedale di Careggi c’è il bianco                                 
delle mura che in mezzo ci passa
chi non ce la fa più a stare qua.
Quelli che invece tornano
nelle vene hanno sentito
tutto il risucchio che viene dagli aghi
dal tubo della flebo
fino alla luce del neon
dove a un certo punto
uno non è più niente
tutto lì nel mentre,
tanto che a sorpresa
non avendo più materia
si smette di tremare
senza cassa senza risonanza               
la mancanza ricompone tutto
porta a zero la distanza.

Da bambini si arriva ogni volta
al momento giusto
come una bolla al centro del lago,
la memoria poi torna dopo                                
quando un giorno d’estate
il sole spacca le pietre     
e allora si esce.
In corsia si dice che un giro                 
moltiplicato per sempre sia l’eternità. 


Firenze, ospedale di Careggi, reparto di rianimazione, aprile 2001.




Pensare


Alla fine quando sono qui rivedo
la giornata trascorsa
le persone le sedie gli alberi.
Ecco è tutto qui il mio pensare,
come in auto quando dallo specchietto
alle spalle vedi che passa dietro
la strada, e allora lo senti
che a reggerti sulla schiena
è tutto quello scorrere
quel grande fiume di asfalto
e mondo che ti porta
dritto a casa
fin dentro al garage.
Lì dove c’è sempre
una serratura da girare
lì dove in punta di piedi
sottili si passa per quell’unico
punto che conta.
                  



Amico


Caro amico mio quando uno come te
si ammala in giorni come questi
di una tacca tutto si abbassa
pure i nostri corpi. E solo adesso                                             
vedo tutto il bianco della mia barba
l’alba che mi cresce fitta pallida sulla faccia.
E allora rimane poco qui quasi niente
del respiro che va sotto va più giù,
mentre fuori si riaprono nicchie lucernari
si riapre la stanza che ora riconsegna reperti
ripone unghie nei cassetti
lettere e capelli nelle scatole
come pelle lasciata indietro nei giorni i guanti spaiati.
E le stagioni tra le persiane passano
tornano ai loro maglioni alle loro scarpe
e nella foto appesa al muro poi
tutto quel ricomporsi di cose.




Bentornata


Come un fiume mia madre scorre piano
una dopo l’altra le foto sopra al tavolo
risale i ricordi fino al fondo dell’argilla.
E sembra più bella adesso che la guardo
un’impronta sulla sedia che non sa niente,
poi la voce che si incrina con tutti quei nomi
come acque che si rompono dopo il bene.
Che a dire il vero si sperava che dopo il flash
cascasse il velo dal letto di magra
che in un lampo fosse nudo il dolore.
Invece non si vede uno scatto che possa                                  
fissare qui il lenzuolo di chi ci lascia
solo sulla carta che vedessi mamma           
quello che succede mentre parli. Che guardalo laggiù 
il vecchio lido dove una volta dice che si ballava
con tutti quanti quelli che va a sapere
adesso quale buon vento se li porta.
E poi noi che chissà come faremo
che non bastano più gli argini a tenerci qua
l’erba che sale dalle sponde
per i crinali fino al monte
dove il babbo ruzzolava come un matto
a rompere i pantaloni a chilometri
e poi una valanga di risate da crepare la pelle
ci faceva uscire fuori per sempre
bentornati a noi. E bentornata pure a te.




Dentro


Sembrava tutto a posto, poi quello che ci teneva qua
s’è rotto come un coccio. La terra s’è mescolata con la terra.
Capita che si cresca nell’impasto più sottile del dolore.
In un campo non lontano da qui i rom hanno perduto
la loro battaglia accerchiati dal fuoco
un rogo di fiori in mezzo alla notte.
Tanto che alla fine sarebbe stato tutto
tiepido di cenere. Ma si dice che c’è
buio e buio e c’è il fosco più nascosto.
Eppure fino a un certo punto era stato tutto così chiaro
il freddo e il gelo che la sera s’era fatta piccola
nel carro come un fagotto. Che solo dopo
tanta tosse il fumo aveva coperto la paura
la culla di un bambino ladro dentro
una fiamma che ruba. E su tutto puzzo
da scansare oltre l’ombelico come uno zingaro
infilato in un vicolo, colpa come roba normale
un cartoccio di giornale una pagina con un pezzo
sul guadagno del male fatto così bene                                           
con una foto dei fratelli di Abele.                                                  
Mentre dopo l’ultima colonna a destra
intanto uno scafo portava un carico
con le spalle girate la sorte verso il futuro.




Paolo Pistoletti è nato nel 1964 a Città di Castello e vive e lavora ad Umbertide in provincia di Perugia. Dopo gli studi in giurisprudenza e in teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali. Dal 2010 cura e conduce un programma di letture e poesia a RadioRCC, proponendo anche testi propri. 

Enzo Lavagnini: biografia e fortuna critica di Eros Alesi

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pagina di diario di Eros Alesi
per gentile concessione di Remo Marcone



La fortuna critica di Eros Alesi(1951-1971) è come diradata nel tempo; o forse piuttosto solo ancora tutta da scrivere. Ve ne sono state, è vero, sporadiche avvisaglie, che è utile tenere a mente, parte per così dire della storia, ma crediamo sia davvero facile presagire che si tratti di ben poca cosa rispetto all'attenzione all'opera del giovane poeta romano stroncato dalla droga a nemmeno venti anni che supponiamo si avrà negli anni a venire.
La meravigliata “scoperta di un poeta” dovrà per certo, nel corso del tempo, cedere il passo all'“analisi del poeta”. Del valore dell'opera.
Con uno sguardo storico, vediamo allora le rade tappe di questa attenzione critica all'“incanto” - in senso letterale – di Eros Alesi, per come si sono manifestate sinora.
Si deve però cominciarne il breve racconto almeno da un luogo, piuttosto che da una recensione.
Partiamo così dalla celebre “Comune di piazza Bologna” di Roma, diretta dallo psichiatra Luigi Cancrini che è il luogo chiave del destino umano e poetico di Eros Alesi. Si tratta di una comunità “sperimentale”, dove i ragazzi tossicomani - in numero sempre crescente in quegli anni - vengono ascoltati e non soltanto catalogati, come fanno invece le istituzioni repressive, il manicomio e le altre.
Qui, nella Comune, Eros Alesi incontra Remo Marcone, un ragazzo poco più grande di lui. A lui si sente poi di affidare i suoi scritti; lo fa un mese prima di morire. Non che Eros ne interpreti, o ne supponga, il valore, ma il senso esclusivo di una vita narrata in diretta quella sì - la sua vita - e, nei suoi giorni errabondi e pieni di sorprese, non vuole correre il rischio di perderli quei ricordi in forma di poesia. Meglio farli custodire a qualcuno di cui ci si può fidare.
Qualche tempo dopo la tragica morte di Eros Alesi (si schiantò sull'asfalto cadendo dall'alto del Muro Torto, a Roma), Elvira Guida, psicologa, moglie di Luigi Cancrini, fornisce informazioni sulla vita del ragazzo al critico Giuseppe Pontiggia, il quale si appresta a pubblicare per la prima volta le poesie di Eros Alesi nell'“Almanacco dello Specchio”, quelle ritenute particolarmente significative.
Dell'esistenza dei testi di Eros, Remo Marcone ha messo al corrente già da tempo Elvira Guida e gli altri della Comune. Come sappiamo, Marcone li ha avuti da Eros e li ha conservati. Evidentemente Elvira Guida ne ha intuito il valore letterario e ha fatto seguire loro la strada che li porterà alla pubblicazione.
Grazie a Remo Marcone, ho potuto vedere le pagine vergate dalla mano del giovane Eros, con una penna biro.
Si tratta dei quaderni affidati a Remo Marcone e da questi custoditi: quaderni che fanno intuire  - nonostante la copertina rigida - di aver viaggiato a lungo con Eros e di aver passato quasi integralmente le sue stesse avventure. Tali e tanti sono i segni che portano su pagine e sul cartone rigido.
Quello che un poco stupisce è di trovarsi di fronte a diverse stesure delle stesse poesie, quando invece viene da pensare, leggendole di primo acchito, che si tratti di un flusso d'emozioni immediatamente fissato sulla pagina. Forse in effetti così è anche stato, poi le poesie sono state copiate e ricopiate, perdendo forse delle parti ed acquistando, di stesura in stesura, la forma attuale che riconosciamo; una forma originale e, appunto, “quasi” frutto di una scrittura diretta, in modo istantaneo.
Probabilmente la prima scrittura è avvenuta su fogli staccati, sparsi, fogli d'occasione; come quelli che sono quelli ritrovati nel borsino che Eros teneva con sé al momento della morte. Impromptus.
E' spesso presente nei testi definitivi di Alesi una grafia a “stampatello” che rende la scrittura uniforme a quella di tanti coetanei, la tipica scrittura da “diari” scolastici; altre volte si tratta invece di un corsivo: una grafia elementare, non bella, ma chiara, infine funzionale.
Le poesie di Eros raccontano per filo e per segno la sua vita.
In questo senso sono una sorta di diario che insegue però una doppia narrazione, quella della sua vita evidente e quella delle sue sensazioni procurate con l'uso delle sostanze. Un doppio binario che trova un unico tragitto. Proprio come per la vita stessa di Eros nella quale, leggendo le poesie, si comprende bene come la droga sia finita col divenire, al termine della sua esistenza, l'unica esperienza reale.
Quando Eros comincia a scrivere poesie?
Tutto lascia pensare che accada nel periodo del suo ritorno a Roma (scappò di casa, diretto a Milano, a 16 anni). Quindi nel 1967. Forse addirittura più in là, nel 1968.
Per certo a Milano Eros Alesi non scriveva poesie; Melchiorre Gerbino, leader di “Mondo Beat”, infatti non ne ha memoria.
Però è proprio nella Cava milanese di “Mondo Beat” (la sede del gruppo, nonché redazione della rivista) che l'autodidatta Eros ha conosciuto un ambiente culturalmente attivo, con precisi riferimenti letterari (anzitutto gli autori della beat generation), oltre che con una netta impostazione politica: “Parliamoci chiaro una volta per sempre: se si vuole avere una letteratura viva, bisogna far parlare i vivi” si legge nel “numero unico” di Mondo Beat del novembre 1966; e sui successivi numeri si possono trovare approfondimenti sul buddismo, sull'antimilitarismo, sul Vietnam, sulle lotte di Berkeley e poi ancora le tante poesie di redattori o di collaboratori. Redattori e collaboratori che Eros conoscerà direttamente: sono ragazzi come lui, appena qualche anno in più.
È questo l'ambiente adatto per un ragazzo con la voglia tipica dell'età di conoscere e con le sue peculiari curiosità. L'ambiente che sembra poi finire col fare da sfondo per i suoi componimenti futuri, e che egli unirà alle successive suggestioni tratte da Ginsberg e da Dostojevskij.
Stare insieme, suonare la chitarra, vedere mostre e quadri, cantare, vivere: è così che si forma il giovane scappato di casa Eros Alesi, uno dei tanti di una generazione in cerca di se stessa.
“È la pioggia che va” brano dei Rokes che, come ci ricorda ancora Melchiorre Gerbino, era la canzone più diffusa tra i ragazzi della “Cava”, sembra raccontare proprio le speranze di questa generazione:

 

E' la pioggia che va - The Rokes

Lind - Mogol
(1966)
Sotto una montagna di paure e di ambizioni
c'è nascosto qualche cosa che non muore
Se cercate in ogni sguardo, dietro un muro di cartone
troverete tanta luce e tanto amore
Il mondo ormai sta cambiando
e cambierà di più.
Ma non vedete nel cielo
quelle macchie di azzurro e di blu.
È la pioggia che va, e ritorna il sereno.
È la pioggia che va, e ritorna il sereno.
Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente
le speranze dei ragazzi sono fumo.
Sono stanchi di lottare e non credono più a niente
proprio adesso che la meta è qui vicina.
Ma noi che stiamo correndo
avanzeremo di più.
Ma non vedete che il cielo
ogni giorno diventa più blu.
È la pioggia che va, e ritorna il sereno.
È la pioggia che va, e ritorna il sereno.
Non importa se qualcuno sul cammino della vita
sarà preda dei fantasmi del passato.
Il denaro ed il potere sono trappole mortali
che per tanto e tanto tempo han funzionato.
Noi non vogliamo cadere
non possiamo cadere più giù.
Ma non vedete nel cielo
quelle macchie di azzurro e di blu.
È la pioggia che va, e ritorna il sereno.
È la pioggia che va, e ritorna il sereno.

Come si diceva, la storia letteraria pubblica del poeta Eros Alesi comincia con l'“Almanacco dello Specchio”, nel 1973, due anni dopo la morte.
Giuseppe Pontiggia (“Almanacco dello Specchio”, n.2, 1973) così giustifica e commenta l'inserimento dei testi di Alesi nella raccolta : “Eros Alesi è morto tragicamente a vent'anni: il resto non è silenzio, ma una voce che cerca di riprendere con la vita un rapporto che pareva perduto, e con gli uomini un contatto che si fondi sulla verità spesso atroce delle distanze piuttosto che su false speranze di identità. La ‘Lettera al padre’ ne è una disperata celebrazione, con i suoi che ripetuti i quali, nella loro mancata epicità, rimandano all'insofferenza per un ambiente umano che gli risultava ossessivamente angusto e che gli soffocò, tranne che sulla pagina, le potenzialità affettive. Perciò la parola riacquista quella forza violenta e percussiva che sempre si manifesta allorché la poesia tende a convertirsi in energia di esistere, e l'esistere viene pagato di persona da chi ne scrive (un poeta come Campana, in Italia, ne è stato l'esempio più grande). Non mancano, in questi testi, cadute e dispersioni, dovute anche alla stesura occasionale e frammentaria; così come si evidenziano legami vissuti in modo diretto e autobiografico, con quella poesia americana di protesta (e con Ginsberg in particolare) la cui vitalità sopravvive alla moda che ha contribuito a divulgarla. L'autenticità dell'esperienza e l'intensità dell'accento personale bastano però ad Alesi per riscoprire ancora una volta la parola come punto di intersezione e di comunicazione tra l'io e gli altri”.

Come forse è accaduto anche a molti altri, ho scoperto Eros Alesi in una celebre antologia: “Poesia degli Anni Settanta”, 1979, a cura di Antonio Porta, che ebbe a suo tempo una larga diffusione.
Lo stesso Antonio Porta, poeta e critico, così introduce e descrive il lavoro di Alesi: “Sembra un espediente retorico dire che c'è uno scarso margine per un commento iniziale, ma è vero. La tematica, sofferta interamente dal corpo dello scrittore, è così offerta e bruciante che rende subito muti. Si trattiene il fiato e si smette di pensare. L'invocazione alla morte è una invocazione alla gioia. Allora si ricomincia subito a pensare e ci si chiede a quale logica altra ci si trovi di fronte. ‘Morire ci piace / lasciateci bucare in pace’ ha scritto l'anno scorso un ragazzo su un muro (che è morto a 21 anni per una overdose). Non ci trovo nulla di patetico. È una sorte di alternativa radicale alla vita: la morte non è più la morte che conosciamo ma non sappiamo ancora che cosa sia di diverso. Si rischia di tuffarsi in una mistica kitsch. Desidero solo osservare che nel caso di Alesi, come in molti altri, la poesia ha interagito con la nostra storia, senza diaframmi. Va detto che un tributo necessario al fare poesia lo paga sempre anche il corpo di chi scrive”.
Le collaborazioni di Pier Paolo Pasolini al settimanale "Tempo" sono raccolte ora in “Descrizioni di descrizioni”.
In una di queste collaborazioni Pasolini commenta in questo modo l'apparizione delle poesie di Eros Alesi sull'Almanacco dello Specchio: ”… gli altri sono tutti senza rilievo, anche quell'Eros Alesi di cui si presenta un puro e semplice documento di vita (è morto in manicomio a vent'anni, dopo un viaggio in India, drogato con una trista compagnia di Piazza Bologna. Era di Ciampino. Suo padre era fantino e si ubriacava maltrattando la madre. Di qui la solita tragedia che più o meno abbiamo vissuto tutti. Solo che in questi anni la moda ha voluto che questa tragedia fosse intollerabile ed enfatica, e ha preteso soluzioni estreme. Non ho nessuna particolare pietà per questo disgraziato ragazzo, debole e ignorante, che è morto per la stessa ragione per cui si fanno crescere i capelli. Meno diritti si hanno e più grande è la libertà. La vera schiavitù dei negri d'America è cominciata il giorno in cui sono stati concessi loro i Diritti Civili. La tolleranza è la peggiore delle repressioni. E' essa che ha deciso la moda della droga, della morte e della rivolta estremistica. I più deboli ci sono cascati, con l'aria di essere dei campioni. In realtà sono stati campioni del più spietato conformismo)”.
La stroncatura di Pasolini attiene a giudizi che includono la dialettica tra tradizione ed anticonformismo. Severo, come sempre, il poeta friulano con chi si esprime, a sua misura, con una lingua non propria. Agitato solo da pulsioni “di massa” e, in qualche maniera, alla “moda”.
Più solidale e attento, comunque meno austero e fraterno, appare Franco Cordelli (in Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli, “Il pubblico della poesia, trent'anni dopo”) che così esamina gli scritti di Eros Alesi, non mitigando la vicinanza: “La sua lunga Lettera al padre (“Caro papà”) è un testo-limite e insieme un testo essenziale. Si potrebbe dire che a partire da queste cose (come da certi documenti politici espressi dall'interno di pratiche nuove) si misura tutto il resto (come quando si ha la precisa nozione che una lettera di un compagno omosessuale al Manifestoabbia più forza, contenuto e verità politica di decine di cronache di lotte operaie o articoli di “sintesi” politica complessiva). È un linguaggio che parla a noi da un oltre. Ma da un oltre che è qui, non è altrove. Ha come una vibrazione fosforica, shocking. Come l'apparizione di un fantasma. È una voce, nello stesso tempo, presente e postuma. Postuma fin da subito. Il Cheiniziale di ogni frase non ha solo un valore percussivo (come nella musica orientale): è l'elemento minuscolo e decisivo che mette tutto il discorso “a rovescio”. Cioè lo colloca tutto intero fuori contesto. A testa in giù”.
Giorgio Manacorda (ne “La poesia italiana oggi”) così motiva l'inserimento di Alesi nella sua antologia: “Non ho voluto dimenticare il caso estremo di Eros Alesi, morto drogato giovanissimo, un vero talento, poteva diventare il poeta americano del Novecento italiano”.
E ancora: “Lo sprezzo della forma della poesia, qui non è un vezzo letterario o intellettualistico, ma una pura e semplice necessità espressiva, non una scelta stilistica, ma una coazione allo stile. Le sue poesie sono preghiere. Forse le uniche preghiere laiche della letteratura italiana degli ultimi decenni. La religiosità che pervade questi testi e dà loro forma (il verso inedito, mai visto, generato dal chepercussivo di cui parla Cordelli) è qualcosa di molto fondamentale, assolutamente originario. Alesi, che non sa nulla, se non la propria disperazione, riparte dai rapporti primari che hanno generato il sentimento religioso: il suo non è altro che il bisogno di amare il padre e la madre, e di esserne riamato. Se questo non avviene -e per lui non è avvenuto- nasce la religiosità: si adora chi non ci ama e, anzi, è terribile con noi. La sua bellissima poesia al padre non è altro che un “padre nostro che sei nei cieli” e la poesia alla morfina non è altro che una poesia alla madre, che aiuta, consola, lenisce – e strangola. L'amore materno è venefico almeno quanto la violenza del padre è distruttiva. Se le cose stanno così non resta che pregare le due divinità, la fonte di ogni possibile benessere e di ogni legge. Si tratta di preghiere che nascono da una solitudine totale, ma, direi, fondante. Alesi parte da questa ferita immedicabile e deve esprimere, per sopravvivere, il proprio amore senza oggetto, la propria ‘inesistenza’, quindi, ma non può rinunciare ad “esserci”. La preghiera, un modo di comunicare con le divinità assenti, non basta, non può bastare: da qualche parte e in qualche modo Alesi deve trovare la sensazione di non essere assolutamente e irrimediabilmente solo, e in effetti i suoi testi ci comunicano una dimensione corale. Leggendoli sentiamo che non parla solo per sé e non parla solo alle sue cattive divinità. Alesi è il frammento di un mondo che parla tramite lui, e non sono i giovani della sua epoca (non è una dimensione sociologica), è la giovinezza, è la gioventù come tale. Alesi ci sta dicendo che lui è bello dentro, ci sta dicendo che non è ancora morto, ci sta dicendo che ha un mondo dentro di sé. È questa l'apertura, la coralità che passa nei suoi testi”.
Il racconto di Eros, giovane uomo e poeta, termina, per il momento con l'importante lavoro di Remo Marcone, pubblicato in “Poesia 2009 – Quattordicesimo annuario” a cura di Paolo Febbraro e Giorgio Manacorda. Editore Alberto Gaffi in Roma. Un lavoro letterario profondo, frutto di amicizia e condivisione, che traccia soprattutto un preciso indirizzo per chi voglia proseguire lo studio, fatto di conoscenza della biografia e dell'opera.
Così commenta Remo Marcone la vita di Eros Alesi e i giudizi degli organi di stampa nella sua breve introduzione: “Ma resta l’amarezza per le parole scritte su alcuni giornali della capitale a poche ore dalla sua morte: parole prive di pietà e di rispetto verso un ragazzo di strada buono e pieno di umanità, ma diverso, che non sopportava questa societàingiusta (testimonianza della madre). Queste le parole della Carta Stampata: Il capellone ventenne che ieri sera ha concluso la sua carriera di drogato… c’è tutto in un piccolo borsino di cuoio afghano che gli hanno trovato addosso…. Le bande di capelloni, di giramondo, di asociali che s’incontrano a piazza di Spagna…. Aveva diciannove anni, un soffio di vita denso e doloroso, quel ragazzo di strada, artiere ippico, capellone, drogato, viaggiatore, poliglotta, sognatore, ribelle, poeta”.

Enzo Lavagnini, autore, esperto di cinema, ha diretto “Un uomo fioriva” (1994), dedicato al periodo romano di Pier Paolo Pasolini, premiato al Festival di Salerno, presentato in Europa, Nord e Sud America, in onda su Rai Storia, ed altri documentari sulla cultura italiana nel mondo per la Rai . Ha scritto i volumi: “Rapporto confidenziale: Luigi Di Gianni, cinema e vita”, “Il giovane Fellini nello splendente fulgore della vita”, “La prima Roma di Pier Paolo Pasolini”, “Cinema e Ambiente”. Suoi contributi sono apparsi sulle riviste “Duel”, “Lo straniero”. Direttore artistico del “Flower Film Festival” di Castellazzara, del “Think Forward Film Festival” di Venezia -entrambi su tematiche ambientali-, membro del Comitato scientifico del Festival del documentario “Libero Bizzarri” di San Benedetto del Tronto, collaboratore del “Festival Derechos Humanos in America Latina y Caribe”, di Buenos Aires.



ZENIT progetto POESIA < 40

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Da oltre vent’anni la casa editrice La Vita Felice dedica una particolare attenzione alla poesia, proponendo ai lettori libri di qualità, grazie a scelte editoriali soggette a un’attenta valutazione e alla cura editoriale posta nella scelta delle carte e dei caratteri per consegnare preziosità racchiuse in adeguato contenitore.
In numerose occasioni, inoltre, si è proposta come operatore culturale in poesia programmando incontri a tema sviluppati da chi abitualmente frequenta la poesia – critici, poeti affermati ed emergenti – dedicati a tutti coloro che amano il genere e desiderano confrontarsi interagendo.

Per proseguire questo suo impegno, La Vita Felice promuove l’iniziativa ZENIT POESIA - Progetto 4x10 < 40, lungo un percorso temporale di 4 anni che porterà l’attenzione complessivamente su 40 voci poetiche di età inferiore a 40 anni, distribuite in 4 antologie annuali che presenteranno 10 autori selezionati, aventi ciascuna due curatori diversi.
A differenza di altri progetti analoghi, agli autori viene richiesto l’invio di 8 testi (o di un poemetto di 6000 caratteri): una proposta articolata che consentirà ai curatori una migliore comprensione delle singole caratteristiche di scrittura e al lettore, nel caso di pubblicazione nell’antologia per avvenuta selezione, la possibilità di attraversamento di ampi spazi poetici.

I curatori opereranno in completa autonomia ricevendo il materiale in forma anonima e la previsione di coppie diverse per ognuna delle edizioni è un’opportunità in più per i partecipanti di avvalersi di sguardi, competenze e gusti distinti.
Nello scenario della poesia contemporanea, in cui si parla molto in generale evitando le prese di posizione, il progetto rappresenta un’assunzione di responsabilità con la volontà di mettere a disposizione del lettore poesia originale e di qualità di autori che la casa editrice desidera affiancare nel loro percorso poetico, al fine di consolidare le loro potenzialità mediante una capillare diffusione e visibilità.

REGOLAMENTO della prima edizione
ZENIT POESIA - Progetto 4x10 < 40 
a cura di Stefano Guglielmin e Maurizio Mattiuzza


Possono partecipare gli autori che alla data del 15.2.2015 non abbiano ancora compiuto 40 anni.

Sezione unica: inediti poesia (intesi per tali testi che non siano mai stati pubblicati su cartaceo provvisto di codice ISBN).

Ogni concorrente deve presentare:

- Se testi poetici singoli: 8 testi, ognuno dei quali non deve superare le 30 righe comprese spaziature/interlinee interne.
- Se Poemetto: 5000  caratteri; 6000 caratteri con spazi.

- termine ultimo per l’invio: 15 febbraio 2015.

- invio dei testi, in un unico documento formato Word, unicamente via mail a inediti@lavitafelice.it

- provvedere all’acquisto di due volumi di poesia dal catalogo La Vita Felice, a propria scelta, nelle seguenti collane:




- nella mail di accompagnamento – con oggetto “ZENIT POESIA” – indicare:
a)    i dati personali: data di nascita, indirizzo, breve notizia biografica;
b)    la seguente dichiarazione:
 «Dichiaro che le opere da me presentate a ZENIT POESIA sono opere di mia creazione personale, inedite. Sono consapevole che false attestazioni configurano un illecito perseguibile a norma di legge. Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (L. n. 675/1996; D. Lgs. n. 196/2003) e la pubblicazione, con cessione gratuita degli diritti d’autore, dei testi eventualmente selezionati nell’antologia edita dalla casa editrice “La Vita Felice"»;
c)    Il numero d’ordine relativo all’acquisto dei due volumi LVF.

Il mancato rispetto delle norme regolamentari comporterà l’esclusione dalla selezione.
N.B. Qualora i curatori, fra le proposte pervenute in adesione all’iniziativa, non dovessero ritenere di evidenziare opere di livello adeguato, il numero degli autori antologizzati potrà risultare inferiore a 10.

I risultati delle selezioni saranno comunicati direttamente agli interessati entro il 1 maggio 2015; saranno pubblicate sul sito poesia.lavitafelice.it e debito comunicato sarà diffuso nell’ambito del Salone Internazionale del Libro di Torino 2015.
L’antologia edita da La Vita Felice - distribuita attraverso i consueti canali della casa (Messaggerie Libri, librerie online, sito della casa) conterrà i testi degli autori selezionati, una breve biografia e una nota dei curatori con specifico riferimento alla scrittura del singolo autore; sarà disponibile entro il 30/9/2015 e verrà presentata ufficialmente a Roma a inizio dicembre 2015 nell’ambito della Fiera dell’editoria PiùLibriPiùLiberi.



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Notizie biografiche dei Curatori della 1^ edizione


Stefano Guglielminè nato nel 1961 a Schio (VI). Laureato in filosofia, insegna lettere presso il locale liceo artistico. Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del gruppo "Fara", 1985), Logoshima (Firenze Libri, 1988), come a beato confine (Book editore, 2003), La distanza immedicata / the immedicate rift (Le Voci della Luna, 2006), C'è bufera dentro la madre (L'arcolaio, 2010), Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni, 2013); di prossima uscita Maybe it’s raining. Poems 1985-2014(Chelsea Editions), e i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (Le Voci della Luna, 2011) e Le vie del ritorno. Letteratura, pensiero, caducità (Moretti&Vitali, 2014). È presente in alcune antologie, fra le quali Il presente della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi (LietoColle, 2006), Dall'Adige all'Isonzo.Poeti a Nord-Est (Fara, 2008), e Caminos del agua. Antologia de poetas italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato (Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web. Ha pubblicato anche racconti; l’ultimo in L. Liberale (a cura di), Père-Lachiase. Racconti dalle tombe di Parigi, Ratio et Rivelatio, Oradea (Romania), 2014. Dirige le collane di poesia "Laboratorio" per le edizioni "L'Arcolaio", "Segni" per conto de "Le Voci della Luna" e, assieme a M. Ferrari e M. Morasso, "Format" della "Puntoacapo Editrice". Gestisce il Blog Blanc de ta nuque.


Maurizio Mattiuzza. Recente vincitore del premio nazionale di poesia Inedito Colline di Torino. Ha pubblicato le raccolte di poesia La cjase su l’ôr (1997) e L’inutile necessitâ(t) (Kappa Vu, UD 2004), con note critiche di Luciano Morandini e Claudio Lolli nonchè la silloge Gli alberi di argan (La Vita Felice Milano 2011) con prefazione di Gabriela Fantato.  E' il vincitore del Premio nazionale Laurentum 2009 per poesia inedita in lingua italiana. Nel 2010, con postafzione di Bruno Pizzul, ha inoltre pubblicato la raccolta di racconti il derby della luna, tre storie di calciatori dalla vita sempre in bilico tra estro e poesia.  Lavora da anni come paroliere e spoken poet accanto al cantautore Lino Straulino con cui ha firmato l’album Tiene nere e diverse altre canzoni pubblicate su disco. Assieme al cantautore Renzo Stefanutti ha inoltre firmato uno dei pezzi finalisti della sezione musica d'autore del festival internazionale di poesia di Genova 2010. Scrive in lingua italiana, friulana e nel dialetto della bassa Valsugana. E' uno degli autori selezionati al premio internazionale di poesia Alda Merini 2013. Ospite di diversi festival internazionali di poesia il suo lavoro conta traduzioni in sloveno, inglese e altre lingue europee.


Annamaria Ferramosca: Ciclica

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Di che cosa tratti Ciclica(La Vita Felice, 2014), l’ultimo libro di Annamaria Ferramosca, me l’ha scritto direttamente lei in una mail: “il tema si identifica con la nostra richiesta di senso lungo ogni fase della vita e occasione del quotidiano, insomma come una continua vigilanza che acuisce il dolore di fronte al degrado globale, dell’umanità e della natura.”. Due sono quindi i temi entro cui si muove quest’opera: l’inevitabile “urto” del mondo sugli esseri, che è incontro / scontro, modo in cui si sta nell’aperto dell’esistenza, sempre segnato dal contatto; l’autodistruzione della civiltà o perlomeno il suo progressivo imbarbarimento, “gli infiniti modi [che essa ha] di sprofondare”.

Il libro si apre con la necessità di scegliere dentro la confusione di facebook, entro un mondo ipertecnologico che sfalsa le relazioni. Il contatto diventa così contagio malefico; l’occidente tutto, invero, contamina il mondo con il suo tramontare “senza ritorno di alba”, lo travolge. “L’insulto alla terra” è costante e, proprio per questo, noi dobbiamo ripensare il paradigma dello sviluppo, l’irrazionale equivalenza tra benessere e felicità. Dovremmo imparare dagli alberi, ci dice la Ferramosca, “mappe di salvezza / dispiegate nei rami”, testimoni di pienezza che ci invitano a curare frutto e radice e a tramandare il messaggio: “sii migliore del tuo tempo”. Perché ciascuno di noi è appunto relazione, per quanto assediata dal buio: “Il toccarci denso abbiamo / il vederci   il pensare   il nudo fare”. Ecco che l’urto può essere gentile, come recita la terza sezione del libro; “il tocco-random di una mano / che plasma e scompiglia” aveva scritto in Fioriture, quasi in principio di Ciclica, così che il contagio non infetta, ma salva, se risultato dell’incontro tra parola e cosa: “Con la lingua vorrei solo esultare / […]  sulle cose far luce / anche feroce […] / o velarle le cose   di compassione / coprirle scoprirle interrogarle / romperle corromperle / ammalarle infettandomi   guarire”. Lei, biologa, sa quel che dice, conosce la natura uniforme della materia, l’esser fatti della medesima sostanza, in quel centinaio di elementi chimici organizzati nella tavola periodica.

L’altro collante è la memoria, l’infanzia che la memoria recupera anche attraverso la scrittura e qui messa in gioco soprattutto nella sezione “Urti gentili” dove la terra natale, il Salento, traspare con tutta la sua carica di nostalgia.

Coerentemente con i suoi libri precedenti (in particolare Curve di livello e Other Signs, Other Circles), la Ferramosca contrappone la linearità del pensiero platonico-cristiano alla circolarità della natura: Ciclica, come lei stessa mi scrive, “nel nome evocail destino cosmico che tutto accomuna”. Destino che tuttavia, pur non togliendo la paura della morte, la fa rientrare in un ordine superiore, “un oltre riconoscibile   gentile / terra calda dai suoni attutiti”: un aldilà più pagano che cristiano, un “paradossale calmissimo caos”; un passare da uno stato all’altro dell’essere, come direbbe Severino.



Dalla sezione Techne


scelgo  mi piace  condivido
soltanto se
la posa non è teatrale    se intravedo
il capo rasato sotto la pioggia
la stanza fiammeggiare
allontanarsi il punto cieco

l’urto mi chiedi l’urto ma
sei virtuale    un’ipotesi una
finestra sul vuoto    poi non so
quanto davvero vuoi
 farti plurale
dimmi se chiami per conoscermi o solo
per riconoscerti 
chiami chiami dai tetti
da eccentriche lune chiami da
nuvole    pure dal basso chiami  
voce di fango che mi macchia il petto
segna la fronte    pure
si fa lacrima    cristallo che
taglia il respiro    

stiamo come in un rogo a far segni attraverso le fiamme
malferme sagome stordite da mille nomi  
la lingua disartícola e l’audio
sarebbe comprensibile soltanto se
intorno il rumore attutisse
se fossimo
puro pensiero    silenziopietra
statue serene dal sorriso arcaico
ai piedi un cartiglio e 
                                      lampi negli occhi




trasporto in files                 

tutte quelle diapositive ormai pelle da macero
impallidite    in pile
forme disperse disperate da deportare
in fili d’aria   files

un laser ti trafigge  inesorabile
ti copia-incolla   eri
così smagrito    avevi
occhi di pianto e sorridevi
 la postura inchiodata dal clic   non sapevi
di accecarmi 
il  tuo respiro per anni conservato
in raccoglitori di plastica    
concluso
                
per quali occhi salvato il tuo calco?
per quale tempo del riepilogo? del senso?
chi svelerà il mistero di un sorriso etrusco? 
 tutto quel sole sulla pelle   
e il cuore in ombra

per chi ancora resistere    durare ancora
di dura fine 
                     fine hard   disk


dalla sezione    Angelezze

alberi

non sappiamo di avere accanto mappe di salvezza
dispiegate nei rami
gli alberi sono bestie mitiche
invase dall’istinto    fieri suggerimenti
restare accanto
non per generosità ma per pienezza
-- intorno l’aria splende in rito di purità --
la terra tenere salda
perché sia quiete ai vivi

gli alberi hanno strani sistemi di inscenare la vita
prima di descrivere la morte
s’innalzano 
con quei loro nomi di messaggeri
le vie tracciate sulle nervature
lo sgolare dei frutti
sii migliore del tuo tempo  dicono

devo
far correre quest’idea sulla tua fronte
devo    
e tu su altra fronte ancora
e ancora   prima
                           che precipiti il sole



remi per itaca                                                          
                                             
                                     E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
                                     Sei diventato così aperto e saggio,
                                     che avrai capito cosa vuol dire Itaca.

                                         K. Kavafis         


sarmenti dalle viti
in duello con l’aria                             
uno strappo deciso li stacca  -- dente bambino --
deve ac-cadere prima che il legno s’addensi
e animelle sulle biforcazioni  
deboli getti anch’essi da allontanare 
 animule respinte
con rabbia lanciano la loro delusione in terra
strato dopo strato   fino alla vigna-nadir
(all’altro orecchio del mondo
                              tutto sarà compreso)

in questo braccio di appiantica un laerte
versa linfa nei rami   si avverte
lo scroscio sottile    lontani i remi di ulisse
l’angoscia   l’esilio (qui la tortora  ancora
 sul nido a ripetere)

la casa è vicina alla cava di selce
perché sia graffito sul muro
il presagio  vignarinascita  
e sia compreso il tempo
compresi anche noi con il nostro
tozzo di paneolio e il bicchiere d’ebbrezza

la vita così simile a questa
nebbia etilica chiara di voci
il cielo rossoacceso
e in petto un’onda larga

così trascurabile
il prezzo della pace


dalla sezione  Urti gentili

sotto la nuova luna

è già notte artica sotto la nuova luna
luna che bruca    interroga
quali parole restano per quale
sovrappiù di voce?

inflessibile lampada scandaglia
il fondo della retina   nella rete s’impiglia
eco indistinta che martella voci
quale verginità di suono a spaccare il fondale?

sulla banchisa alla deriva l’orso
dondola il capo con moto autistico
nell’impaziente attesa della fine
nessuno accorre
al gridoghiaccio indurito in gola
all’ultima domanda   nessuno
dalle città febbrili dai multipiani ciechi
dagli abitacoli che schizzano sulle autostrade

solo fruscii lontani oltre le dune
dall’erba rada e bassa
lenta nel crescere per ostinatezza del resistere
mentre lupi si azzannano
che più non riconoscono la stessa specie  
nel bosco che sussulta
ingoia stelle come rimorsi
               
 al largo  
monta un fragore mediterraneo    cupo
come di gorgo
si annega ancora sotto la nuova luna
in quel mare-di-mezzo che mediava 
un tempo tra buio e luce




urti gentili

mi  manca la lingua   mi manca
quella timidezza di vocali aperte
di  zeta dolce nel grazie
un incurvarsi della voce in gola
come a piegarla fossero le pietre
salentine del ricordo o forse
una malinconia residua della nascita
ingorgo che resiste
allo sperpero del vivere

furore dei cieli di una volta
grida bianche dei dolmen che insistono
nel vedere il mattino sorgere
sulle rovine   ogni  volta
qualunque sia l’inclinazione della luce

mi manca  quella strana paura  
prima di ogni viaggio 
come un sottile rifiuto della distanza
come di albero che impone alle radici
 un limite all’espandersi e si concentra
sulla cura dei frutti      

pure amo
tutto questo calpestio di genti nella città
l’impasto lento di animelingue 
il rompersi dei meridiani   l’inarcarsi dei ponti per
            urti gentili 
questo annodarci annodando
i cesti della fiducia con antiche dita



dalla sezione   Ciclica

revisioni

errore: non essere rimasti accanto al fuoco di fila
con occhi di cane a implorare o -- muso in alto -- ad abbaiare 

urgenza del mutare
un grido-scheggia che trapassi la retina
apra varchi inattesi
un tempuscolo rovente che accenda
la permanenza stabile del coro
torre inattaccabile dove
le lingue si traducono solo sfiorandosi

così i fallimenti possono mutare
in categorie di seduzione
come la catena trasmessa dal seme al frutto
nonostante il  marciume   il trambusto dei rami


pagine ancora per voltare pagina

ancora
un sangue abbiamo  consapevole
di voler coagulare   come fosse troppo nobile
per  l’uscita selvaggia dalla vena
umori fertili abbiamo 
che premono sulla fioritura  
e profili aggraziati a chiamare
la tenerezza degli urti le gratitudini

abbiamo sulla fronte un rogo che fa paura 
ma nell’aggrottare appaiono    onde    
un oceano che trascina
il mio corrimano di legno    tentativi di ponti
capre e pastori erranti  (hanno il nostro profilo)
pani   tastiere   reti
incastrate tra rami di olivo e note di sassofono
e  -- a ondate --  pagine   
immarcescibili (la voce come di un’alba o di un vagito)
pagine ancora   
                         per voltare pagina



è l’ora

raccogli i miei lumi residui 
aprimi infine un po’del tuo segreto    non
troverai  fossette che ridono
solo indulgenza   tremore trattenuto    
inutile cercare la vertigine 
resto inchiodata a un cielo calmo
 da cui piovono miti anche feroci   
ad es-empio se oggi
la bambina
(colei che vola sui sentieri)
nella coda al supermercato si sporge
dal carrello verso di me squillando
 facciamo che io ero in macchina
 e guidavo e  volavo e tu dormivi
                       so
che sto andando verso la fine e lei 
mi stringe forte la mano mentre
a me già la stanza si oscura





Alessio Franzin intervista Vitaliano Trevisan

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Vitaliano Trevisan

Alessio Franzin, laureando con il prof. Emanuele Zinato, su "Spazio e paesaggio" nell'opera letteraria di Vitaliano Trevisan, ha effettuato una breve intervista allo scrittore vicentino su questi temi.
Blanc ringrazia Alessio per il dono.


UNA CONVERSAZIONE SUL PAESAGGIO CON VITALIANO TREVISAN

Padova, 26 agosto 2014, Teatro Verdi

Vitaliano Trevisan è puntuale, arriva alle 10 del mattino, come promesso. Chiede di bere un caffè prima di cominciare. Poi saliamo assieme all'ultimo piano del Teatro Verdi, mi fa strada verso l'ufficio del direttore del teatro. Ci accomodiamo e iniziamo una lunga chiacchierata sul paesaggio.

 ALESSIO: Ne “Il paesaggio – dalla percezione alla descrizione”, in un suo saggio Salomon Resnik dice: “Ogni percezione è allo stesso tempo una proiezione sulla cosa percepita. Ogni percezione è dunque intenzionale (Brentano). Percepire è così un modo di proiettarsi su una certa realtà, sintetizzarla e introiettarla e rappresentarla attraverso lo spazio e il tempo.” E poi ancora: Ogni percezione è un'interpretazione intenzionale della cosa.” Per quanto riguarda la percezione del paesaggio lei è d'accordo? Le nostre visioni e interpretazioni del paesaggio sono sempre determinate da un atti intenzionali, voluti?
 VITALIANO: No, non sono molto d'accordo, francamente. Quello che io cerco di fare è non pensare, specie quando cammino. Poi gli stimoli arrivano certo, e io cerco di interpretarli secondo una qualche griglia logica. Questo deriva probabilmente dai miei studi tecnici, mi sono diplomato come geometra. Poteva andare diversamente, avrei potuto diventare un geometra per professione, invece scrivo, è andata così. Oltre che sul paesaggio comunque leggo molto anche di architettura, anche questo forse è un retaggio dei miei studi tecnici. Quando leggo libri o saggi sul paesaggio spesso mi arrabbio, perché mi trovo in disaccordo con chi scrive, specialmente sul tema della percezione. Di questo ho anche discusso con Franco Zagari, un paesaggista molto famoso. A differenza sua io mi attengo al vocabolario: per me il paesaggio è ciò che appare simultaneamente alla vista. Per quanto poi riguarda la percezione, questo non è il mio campo, è più un argomento da affrontare a Scienze della Comunicazione.

 A: L'uomo è da sempre portato in maniera innata a confrontarsi con il paesaggio, a legarsi ad esso e a indagarne i significati. Secondo lei da cosa è determinato questo legame? Qual'è questa forza che ci lega al paesaggio naturale?
 V: Questa è una questione già più complessa. Ormai il paesaggio non è più una questione solo naturale, anche se così può sembrare, ma anche artificiale. E qui entra in gioco molto la cultura del luogo, o almeno credo. Guarda ad esempio le colline toscane o i colli veneti nelle zone del Prosecco. La cultura del prosecco, e la devastazione che provoca, è tutto tranne che naturale. Sì, di base c'è la coltivazione delle viti, ma poi ci sono elicotteri, pesticidi... Il problema è che per definire questioni importanti sul paesaggio, in Italia si saltano gli ultimi sessant'anni, di storia e di cultura. Anche solo per definire l'ideale di paesaggio veneto, si ritorna sempre a Zanzotto, saltando chi è venuto dopo, per quanto importante possa essere. E questa è una negazione della realtà. C'è un grosso sforzo per definire il paesaggio, ma è una sforzo destinato a rimanere vano finché non si smetterà di saltare a piè pari gli ultimi sessant'anni.
La domanda era sul legame con il paesaggio. Il fatto è che questo legame ora è molto legato anche all'immagine. Guarda ad esempio i video musicali di Zucchero o Vasco Rossi, girati in vecchi capannoni fatiscenti. Loro però si guardano bene dal vivere in posti come quelli, in quelle periferie abbandonate. Vivono in grandi ville, lontano da tutto e tutti. E, per uno come me, cresciuto in periferia, è un motivo di grande fastidio.

 A: Secondo lei la parola, quindi il linguaggio, è un buon metodo per raccontare il paesaggio? Ad esempio, secondo Pavese, era un metodo perdente, che finiva per evidenziare il limite umano e provocare una crisi allo scrittore.
 V: Ho avuto un sussulto alla parola “raccontare”. É un termine col quale ho un rapporto difficile ultimamente, perché è sempre più legato alla comunicazione, cioè alla pubblicità. Oggi si racconta un prodotto, un brand. Preferisco parole come descrivere o evocare. Ecco, evocare è forse il termine migliore per descrivere il mio mestiere. Evocare immagini dal nulla. Io voglio fare tutto tranne che comunicare quando scrivo. Ed è la stessa ragione per cui non leggo romanzi, perché ci sento dentro comunicazione e non scrittura. La scrittura però si può usare per realizzare un progetto, come ne IQuindicimila Passi: con la scrittura si può costruire, ad esempio una torre di vetro, in quel caso.

 A: Esiste secondo lei un modo per poter convivere pacificamente col proprio paesaggio? O si può essere in pace solo con un paesaggio che non ci appartiene, al quale siamo quindi meno legati?
 V: Questa è una bella domanda... Ad esempio, un buon metodo per convivere pacificamente con il proprio paesaggio è quello di non vederlo, ed è esattamente quello che fa la grande maggioranza delle persone. La gente non vede il paesaggio. Il modo migliore per vederlo è quello di camminare in mezzo ad esso, attraversando la periferia diffusa; ma nessuno o quasi cammina più, e i pochi che lo fanno sono costretti a seguire piste ciclabili o aree pedonali, quindi non vedono il paesaggio. Direi che la maggioranza della gente vive assolutamente in pace.

 A: Dalle sue pagine traspare un tangibile disagio per il disfacimento del paesaggio veneto. É un disagio che lei sente sulla sua pelle, o è un disagio che immagina comune e del quale si fa solo portavoce?
 V: Il disagio che descrivo è assolutamente personale. É il disagio che sento sulla mia pelle.

 A: É d'accordo che un rapporto maturo e sereno con il proprio paesaggio debba passare inevitabilmente per una fase di crisi? E che quindi una maturazione possa derivare solo dalla crisi, dal dolore?
 V: É una questione difficile... Io credo che fondamentalmente si debba accettare la realtà. E soprattutto non ancorarsi al passato, di cui i centri storici sono un triste esempio.

 A: Lei ha coniato un'espressione: “tristissimi giardini”. Potrebbe spiegare cosa intende con essa?
 V: Io parlo dei giardini del mio paese. L'espressione “tristissimi giardini” è stata usata inizialmente da una scrittrice che conoscevo, per descrivere dei giardini di una periferia che lei non conosceva pienamente. Io intendo dire che sono tristi i giardini standard di oggi, in cui si cerca il più possibile di eliminare la crescita spontanea delle piante. Si tende a creare un unico grande prato, possibilmente all'inglese. Al massimo c'è lo spazio per qualche ulivo secolare. Niente a che vedere con i bei giardini di una volta, che stanno scomparendo. Erano ricchi di alberi, di piante anche spontanee, erano personali, e soprattutto erano espressione di una cultura che si è persa.

 A: Lei vede qualche via d'uscita, qualche soluzione al progressivo disfacimento del paesaggio veneto?
 V: Credo che, come primo punto, si debba prendere coscienza della situazione reale in cui viviamo. Poi, si dovrebbero censire in qualche modo tutte le costruzioni di cui il territorio è costellato. Infine, conseguenza diretta dei primi due punti, si deve smettere di costruire. Abbiamo strutture in abbondanza, e alcune sono anche belle. Non c'è bisogno di aggiungere altro, semmai di togliere.

 A: Ha una parola di speranza o di conforto per chi, come lei, avverte il dolore per la distruzione del proprio paesaggio?
 V: Speranza, in generale, zero. Perché le politiche edilizie del nostro Paese sono totalmente sbilanciate e non sono all'altezza della situazione. Inoltre, c'è da aggiungere che, da Machiavelli in poi, la corruzione è una costante. A tutti i livelli, non solo ai vertici. E questo non mi consente alcuna speranza in un miglioramento.

 A: Le propongo, per chiudere, una specie di gioco: se lei dovesse salvare un solo elemento del paesaggio veneto dal disfacimento, dalla rovina, quale sceglierebbe? Può scegliere un luogo, un paese, un fiume, un albero, qualunque cosa faccia parte del paesaggio che lei conosce e ama.
 V: Salverei sicuramente la “Rocca Pisana” di Vincenzo Scamozzi, che si trova a Lonigo, in provincia di Vicenza. É la mia casa preferita in assoluto.

 Il nostro tempo è concluso. Ci salutiamo cordialmente con una stretta di mano.

"La corsa dei mantelli" di Milo De Angelis, dal libro al teatro

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La corsa dei mantelli di Milo De Angelis è una grande metafora della giovinezza che non vuole finire.

Luca e Daina, due adolescenti, si misurano con il sottile passaggio all' età adulta.
Sogni, visioni, incubi,ombre, contrapposti a una realtà fatta di giochi, sfide, pericoli, amori, sono incarnati nella figura misteriosa di Sonecka, personaggio proveniente da una terra lontana.

adattamento e regia
Sofia Pelczer
con Viviana Nicodemo, Valentina Mandruzzato, Daniele Pitari
scene Giulia Olivieri
costumi Valentina Bianchi
assistente alla regia Petra Deidda, Giulia Olivieri

dal 30 settembre al 12 ottobre al teatro Out Off 

via Mac Mahon 16 - Milano.

dal martedì al venerdì ore 20 e 45
sabato ore 19 e 30
domenica ore 16


prenotazioni 02 34532140


Scrive Sebastiano Aglieco a proposito del libro da cui è tratta la pièce teatrale:

“Si capisce la grande influenza, almeno riferibile ai tracciati di una poetica, che l’opera di un autore come Pavese abbia esercitato in De Angelis: assoluta negazione di qualsiasi forma di redenzione sociale –  o, quando questa si realizzi, incapace di agire propulsivamente sulla scrittura, su quella visione altra del mondo che la poesia attesta; racconto come favola, epos, in grado di procedere per scarti e grumi germinativi, piuttosto che per andamento diacronico. E, non per ultimo, tragicità declinata nella sua musa più prossima: la malinconia, e cioè quello stato dello sguardo assai vicino all’ignoranza di fronte all’ineluttabilità del precipitare, dell’accadere.

[…]
La ferocia rappresentata dai gesti inconsulti e sadici di Daina bambina e Daina adolescente contestataria, ha senso se si considerano gli ingranaggi di un racconto tutto interno che, svincolato dalla logica delle cause e degli effetti, è invece costruito su opposizioni e affiancamenti di piani narrativi minimi, sulla germinazione stravagante dei sogni –  piani temporali e geografie quasi mai coincidono – . Racconto sognato, forse, in cui è appunto il sogno a farsi tramite del contesto geografico ed esistenziale, liberato da ogni riferimento all’accadere per consequenzialità.”


Niccolò Furri

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Niccolò Furri, poeta totalmente inedito, ha nel cassetto Senza un buon prodotto o (colonnine infami),un’opera davvero interessante che, liberando la parola al suo destino provvisorio, ce la consegna infettata da alcuni dei presenti più sgradevoli (il sistema bancario predatore, fra gli altri), così che precarietà semantica e instabilità morale diventino tutt’uno. Il lavoro del poeta in questo inedito consiste nel costruire un collage ricavato da innumerevoli fonti (dai bugiardini medici a Rimbaud, dalle informazioni pubblicitarie a Foucault) mettendo in conflitto anziutto la struttura – organizzata verticalmente come uno scontrino o il cippo manzoniano – con il messaggio, per dare forma a un tessuto sconnesso, nevrotico, nato tuttavia, fra le altre, dalla comunicazione persuasiva e apparentemente senza crepe delle agenzie finanziarie. La composizione-scomposizione dei piani, in principio di natura economico-persuasiva, si complica con tasselli di guerriglia urbana e schegge semantiche care a Nanni Balestrini. Direi anzi che Furri è tra i migliori allievi del novissimo, presentando una poesia engagèe, dove la voce narrante schiva il facile ideologismo e rinuncia a farsi riflessione, preferendo montare il molteplice mass-mediale sporcato dalle lingue tecniche legate alla moneta e allo scambio: l’effetto è dirompente, nella misura in cui ci dà l’intreccio imprendibile della comunicazione del potere, con le sue sottigliezze retoriche e la sua violenza implicita. La pestifera colonna manzoniana diventa “colonnina”, ma testimonia ugualmente dell’infamia del grande capitale, che ci tiene alla gogna con il consumo forzoso e l’idea che il capitalismo sia un processo naturale, l’unico praticabile oggi. Furri non crede nemmeno alla possibilità di rivoltare il sistema, di cambiarlo in meglio. Come un personaggio beckettiano, lecca invece una strada disseminata di scorie, ne mostra gli effetti sulla propria lingua dopo il mancato tentativo di digerirle. Urge editore.


nella rete

e quindi sì sì se c'impi
ccassimo coi cuori ricol
mi di centri commerciali
consonante denaro e case
lla vocale ho un sonno u

n suono un cono con sono
quindi consumo i modi di
privatizzare gli utili s
aranno gli ultimi a soci
alizzare le perdite con

numerosi sistemi di vide
osorveglianza per garant
ire la crescita l'equità
e il consolidamento dell
a composizione delle imm

agini dei sistemi di cor
pi senza prezzo corpi sc
ontati corpi liquidati c
onsumati cottisi le pall
e coi cellulari caduti n

ella rete fotografate le
orecchie con lo smartpho
ne lavorare alla dis/int
egrazione del questa è l
a vita degli uomini qua


non crederete davvero di darcela a bere – part. 1 casa

che si realizza integral
mente nello stato in qua
nto siano nello stato lo
stato che vogliamo uno s
tato che torni nemico no

stro ogni concezione del
lo stato lo stato social
e contro il vampirismo d
egli stati membri tra gl
i stati membri su titoli

di stato lo stato italia
no deve farsi parte dell
o stato italiano da part
e dello stato dei princi
pali principi attivi a c

arico dello stato vedi l
a sottomissione nazional
e diretta da parte dello
stato deve spettare allo
stato ad opera dello sta

to di tutte le grandi op
ere da parte dello stato
particolarmente vergogno
sa dello stato nei 18 an
ni di età deve tornare a

d essere un organismo av
ente poteri forti di nat
ura ciò che induce allo
 sfiguramento il divieto
 di creare dal nulla per

uccidere i popoli salvo
 pochi organismi privati
che favoriscano un organ
ismo che controlli essa
deve diventare disgregat

rice della personalità
cannibalizzare anche i b
eni vitali il controllo
totale delle nostre stes
se funzioni vitali per i

mpedire le cause di mort
e per favorire le donne
che preferiscono restare
a casa la morte demograf
ica della salvaguardia d

ella madre che consenta
uno sviluppo organico de
lle ore di educazione fi
sica del 150% in una nat
uralissima palude stagna

nte di pelliccia natural
e è l'aroma contro le co
rruzioni è la base di og
ni organismo sano che pa
rtoriscono è quindi vita



fuffa lirica o sperimentale

in auge una discussione
vecchia il rapporto trav
agliato  dai chierici av
rai la tua sporadica a v
olte anche troppo bene e

il piatto sarà servito c
on tanto di una benché m
inima se tu lo facessi n
on saresti più perché qu
egli altri là scorrono f

iumi siano inconsistenti
siano percorsi già falli
ti sia peggiore o meno i
mportante o viceversa di
crescere e essere vendut

o nell'epoca dei prodott
i in termini di prodotto
senza un buon prodotto o
gni strategia mercatolog
ica ho fatto ho provato

un cartone sia un corpo
omogeneo di tanto in tan
to non dovrebbe essere i
nserita nelle catacombe
e ragionare anche in ter

mini di mercatologia dom
andarsi che cosa i custo
mers vogliano quantifica
re il potere in un proce
sso in termini di potenz

a perché il suo dominio
la regione dell'estasi p
sichica essere un enorme
compromesso le schiere d
i capannoni fatiscenti d

elle costellazioni che s
tanno sopra sulla base d
i meccanismi di caratter
e finanziario per tempi
di produzione a trovare

un'occupazione a involve
rsi a cadere nel silenzi
o in un altro punto di o
sservazione avere una di
chiarata conflittualità




ogni campagna elettorale è sparsa per terra

portami in negozio c'è u
n regalo che vive tra la
gente offre posti di lav
oro corsi di formazione
per pizzaioli per il nos

tro quartiere per quel c
ommercio che noi che sia
maschio per città per i
l nostro bene di dio can
didato che vive batte la

crisi impara e scrivi la
manna non rubare per amo
re meno televisione aper
ta offerta speciale sper
anze entusiasmo energia

il futuro è fatto di tan
ti doner kebab se oggi p
ossiamo cambiare si camb
ia chiama subito posti l
imitati insieme tu ed io

dobbiamo proseguire insi
eme in comune gioca con
moderazione fai vincere
solo per pochi giorni le
persone di tutti i fac s

imile trasparente e di q
ualità una professione c
he non conosce crisi pot
rai chiamarci ogni saba
to pomeriggio per segnal

arci i problemi una scel
ta libera la pizza più p
iù più noi ci saremo sem
pre attenzione parcheggi
o non custodito



Niccolò Furriè nato a Negrar (VR) il 02/02/1981. Precario, ha compiuto studi più o meno regolari tra Bologna e Verona. Una manciata di suoi testi sono apparsi, sotto mentite spoglie, sulla rivista “Argo” e sul foglio di scrittura “Pagina/13”. Selezionato per l'antologia “Registro di poesia #6” di prossima pubblicazione per le Edizioni d'if e segnalato alla XXVII edizione del Premio Montano, è autore del blog il mattatojo n°5 e ha curato, assieme a Le Nevralgie Costanti, la fanzine autoprodotta “Corpus emeticum”.



Agostino Contò: una poesia a Franco Beltrametti

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Agostino Contòè un mirabolante funambolo della parola e, al tempo stesso, un rigoroso archivista: poeta sonoro e visivo dagli anni Settanta, dirige, come si confà a uno che ama il libro sin dall’odore e dall’attrito della carta sulle dita, sia il “Centro studi internazionale Lionello fiumi”, archivio della letteratura italiana primonovecentesca, e sia i fondi antichi della Biblioteca civica, entrambi a Verona. Creatività e acribia filologica sono in dialogo sinergico nel testo che segue, nato da un incontro veneziano con Franco Beltrametti, maestro del provvisorio, della cui opera Antonio Porta, in Poesia degli anni Settanta (1979) ebbe a dire: «Ciò che rimane è il senso di una fuga senza fine dall'idea di una morte innaturale, quella fornitaci dalla nostra cultura. All'orizzonte, irraggiungibile, "il lampo verde dell'alba"». 
Si noti il gioco parentetico simile al gioco delle tre carte, dove il tesoro non è mai dove ce l’aspettiamo. Qui il tesoro è l’ammirazione per la figura fuggevole di Beltrametti, che entra ed esce dall’immagine, mossa per onda veneziana e per costituzione d’autore; anzi di entrambi gli autori, che qui stringono sotto il mantello pieno d’aria della medesima lingua viva, coraggiosissima in questi tempi di omologata medietà stilistica.



A Franco Beltrametti
scimmiottato
                                  (Magazzini del Sale, P77)


(e allora) (e allora) (e allora)
(e allora) (Franco) (e allora Franco)
(lesse) (e allora Franco lesse)
(la poesia)
(e allora) (e allora) (e allora)
(la poesia) (e allora la poesia)
(lesse) (Franco) (e allora)

(vestito di jeans: dondolandosi
sulle gambe) cioè visibilmente
incapace di star fermo (voglio
dire): leggendo le storie numero
uno due tre e cappuccetto rosso
(cappuccetto rosso) a vedere
(e cappuccetto rosso a vedere)
il lupo, una volta c'era
che beveva (Franco) acqua minerale
dalla bottiglia traduceva poesie
dall'inglese suonando lo scacciapensieri
che correva fuori (già si capisce
per pisciare) che ritornava dentro
dopo aver pisciato e spariva
di nuovo (incapace di starsene fermo)

e James composti tutti i poemi
di questo mondo permetteva
alla moglie di vendersi la macchina
da scrivere ed Harry con la barba
piena di vento col suo da-dah ra-ra
rain ram chi chi (o forse l'opposto:
insomma voglio dire tutti e tre vestiti
da poeti americani e tutti gli altri
perduti coi loro poemi per
le calli veneziane (e allora) (e allora)
(e allora) (e allora) (e allora)



Simone Maculan: Il paesaggio nella poesia veneta del ventennio 1945-1965

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                                                  a forza di guardare e di non vivere
                                                 cos’è mai divenuta la poesia?
                                                                              Fernando Bandini[1]




   Il paesaggio gode di rilievo in tutta la letteratura veneta moderna. In particolare appare degna di nota la sua rappresentazione nella lirica in lingua alla metà del secolo scorso: il disinteresse per altre questioni, ad esempio politiche o teoretiche, fa in modo che i poeti propendano per un tema “di ripiego” come quello del confronto con la natura. Il soggetto proietta nel contesto ambientale la sua condizione di isolamento, chiusura, estraneità alla storia. Si possono considerare esemplari in tal senso i testi di Diego Valeri. Nessuno degli oggetti da lui rappresentati può collocarsi in una determinata epoca: città (Padova, Venezia) e campagna rimangono dall’inizio alla fine identiche a se stesse o mutano solo in rapporto alla percezione soggettiva. Alludendo da un lato alle pratiche simboliste, dall’altro ai tradizionali topoi sulla natura, Valeri tende a fissare i singoli elementi nel loro valore emblematico: in certi casi le presenze ambientali si riducono a un pretesto per riflettere sull’esistenza.

Occhi, prendete! I meli tutti fiori
                                                           e foglie, i pioppi vestiti d’un velo
                                                           d’acqua tremula, e questo acceso cielo
                                                           dietro la tenda opaca dei vapori,
                                                                                                      
                                                           sono la grazia di un’ora che fugge
                                                           come fuggono i venti dell’aprile;
                                                           sono una essenza fragile e gentile
                                                           che ride e splende, e subito si strugge. [2]

   In perfetta linea con Valeri si colloca Antonio Chiarelotto, originario di Montebelluna. La sua scrittura gioca su due piani che, nell’entrare in contatto, danno origine a intense suggestioni figurative: da un lato si opta per una resa realistica degli ambienti, con grande ricchezza di dettagli; dall’altro gli oggetti vengono allontanati in una prospettiva fantastica o memoriale.

La domenica bianca, delle Palme,
                                                           tutta corse e sorprese
                                                           sulla strada degli echi,
                                                           coi rossi lumi delle case sperse
                                                           tralucenti da siepi
                                                           sul sonno velato dei campi,
                                                           e io stringevo fra le dita rosse
                                                           gemme di spino e fuscelli
                                                           con campanule di brina.
                                              
Io mi guardavo, fatto d’aria:
                                                           il berretto marino sui ricci biondi,
                                                           lo schiocco delle gonne
                                                           e di scarpette nuove,
                                                           tutto era volo. [3]

   Se quello di Chiarelotto è un paesaggio suscettibile di ampi slittamenti sul piano crono-spaziale, Bino Rebellato ci riporta, volta per volta, alla dimensione del presente: le mirifiche parvenze dell’alta padovana vengono colte nell’attimo in cui lo sguardo le genera, e solo in quello hanno senso d’essere. Le limpide acque del Tèrgola o le rosse mura di Cittadella s’imprimono appena sulla pellicola, dando origine a un fotogramma, statico e sbiadito, che è il singolo testo come noi lo leggiamo.

                                               Quando l’aria pulisce gli orizzonti
                                                           scendiamo ad uno ad uno al nostro fiume
                                                           fra i banchi della ghiaia
                                                           a specchiare la fronte;

                                                           contadini coi cappelli di paglia,
                                                           raccogliamo cannucce sulle sponde
                                                           a intessere pensieri intorno agli orti
                                                           fra macchie d’ombra. […] [4]

   Nella poesia del padovano Giulio Alessi, invece, la tendenza a rifugiarsi in atmosfere sublimate viene respinta quasi subito, nel momento in cui si accoglie sulla pagina il mondo così com’è, senza bisogno di offuscamenti o nobilitazioni. Un paesaggio veritiero, che si anima grazie ai personaggi che lo popolano; vengono rappresentati, da una parte, le condizioni miserabili dei sobborghi; dall’altra, gli elementi che segnano la modernizzazione del territorio. Uno sguardo coraggioso, si può dire. Ciononostante manca un tono di denuncia sociale o ecologista; il valore che ispira l’apertura verso l’altro è piuttosto la carità cristiana.

Chiare al sole, con l’erba sui tetti,
                                                           case vacillanti
                                                           che hanno sofferto le buie querele del tempo
                                                           ed ogni donna alla finestra
                                                           ha un povero amore
                                                           che va mendico.
                                                           Ma la festosa rondine improvvisa
                                                           stride allo svolto
                                                           a chi si domanda
                                                           sul ponte
                                                           coi gomiti appoggiati al parapetto
                                                           rosa dal sole del mattino. […] [5]

   Ma viene l’ora in cui le trasformazioni si fanno violente anche nella provincia veneta. Riguardo alla poesia, si segnala la “fine della complicità con la natura, su cui si proiettava l’io lirico” [6], con conseguente “espulsione del soggetto psichico ad opera degli elementi naturali” [7]. I paraventi non tengono: la tela del paesaggio si strappa, sotto l’impeto del cambiamento, o addirittura viene staccata dalla cornice. Leggendo le poesie del maranese Bortolo Pento è possibile individuare alcune crepe che minano la fictio. Dapprima, nel sospeso contesto agreste si intrufolano elementi che esulano dal classico alfabeto figurativo (i “camion” dei soldati, un “romapadova”, “il nero / di una deserta ciminiera” che sciupa la “gentilezza rosea / dell’alte nuvolette”); poi gli stravolgimenti si fanno tanti e tali da rendere vana qualsiasi fuga tra le colline.

                                               Le gigantesche torri cittadine,
                                                           il ciclopico rullo dei cantieri
                                                           ascolti come il canto dei tuoi giorni.
                                                           Il mostruoso fiore dell’uranio
                                                           e la leggiadra orbita degli sputnik
                                                           già vedi balenare sugli schermi. […]
                                                           Indicibili talpe abbacinate,
                                                           levigati metrò e locomotive
                                                           intersecano il polso della terra. […]
                                                           E risplende dall’artica banchisa,
                                                           estremo segno, l’ultima baleniera. [8]

   Una via diversa per sopravvivere al transito da un tempo simbolicamente ricco a uno di totale spogliazione è quella delineata da Gino Nogara. Il suo paesaggio contempla – con riferimento alla geomorfologia del vicentino – un susseguirsi di prati e campi di mais “fino all’estremo segno / delle pianure e là alle valli, al margine / degli altipiani”. E’ un habitat intimamente connesso alla civiltà contadina, che va ormai smarrendosi. Tuttavia, nel momento in cui il presente svela il suo volto inautentico, non basta la memoria a riscattare il vuoto. La soluzione più ovvia perciò è uscire dal paesaggio[9] per dedicarsi alla meditazione astratta: in questo verso procede il poeta, consapevole che la bellezza naturale non costituisce ormai un valido caposaldo orientativo.

Al limite del gioco
                                                           negli occhi il duro lume che ci spoglia. […]
                                                          
                                                           A smascherare sino in fondo questa
                                                           vile coscienza, fuori dal paesaggio
                                                           un grido porteremo, mai più il canto. [10]

   La ricerca sperimentale di Cesare Ruffato e Andrea Zanzotto muove invece dall’interno della logosfera: il paesaggio stesso, più che di riferimenti esterni, vive come infiorescenza verbale. Se analoga in Ruffato e Zanzotto è la vocazione allo sperimentalismo, nel primo mai si perde la tangibilità corporea del referente. Ecco un ritratto della sua Padova.

Mascheroni, semafori, portici
                                                           camini, sinusoidi
                                                           omnia tristia,
                                                           la città erpica gli argini
                                                           della luna. Lampeggia il Salone
                                                           di barite, l’occhio ciclopico
                                                           del Prato e gli anni d’Antenore
                                                           nelle vie tra i rifiuti. L’affanno
                                                           l’ozio, i convegni, ogni tessuto
                                                           del giorno ora si tende, minima
                                                           scoria.
                                                           Alla sete della terra, alla fatica
                                                           i colli curvati
                                                           àncorano lumi alla pianura. [11]

Nel solighese forzatura dei legami significato-significante è invece praticata su larga scala: linguaggio e paesaggio non hanno più un senso univoco, ma si disperdono in costellazioni tra le quali l’io, a sua volta disintegrato, si barcamena.

                                                Da questa artificiosa terra-carne
                                                           esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
                                                           – soli che urtarono file di ciglia
                                                           ariste appena sfrangiate pei colli –
                                                           da questo lungo attimo
                                                           inghiottito di nevi, inghiottito dal vento
                                                           da tutto questo che non fu
                                                           primavera non luglio non autunno
                                                           ma solo egro spiraglio
                                                           ma solo psiche
                                                           da tutto questo che non è nulla
                                                           ed è tutto ciò ch’io sono:
                                                           tale la verità geme a se stessa,
                                                           si vuole pomo che gonfia e infradicia. […] [12]

   A differenza di tutti gli altri, il veneziano Carlo Della Corte e il vicentino Fernando Bandini, più giovani, non vivono il processo che porta alla dissoluzione delle arcadie. La loro avventura appartiene ad un nuovo capitolo della storia letteraria, di certo consequenziale al precedente, ma nel contempo autonomo. L’idillio non esiste più: è passato il tempo dei purismi e la realtà avvampa sotto l’esile corteccia della scrittura.

                                                Lungo il limpido margine
                                                            su cui moriva il lampo della rondine
                                                            il tempo ha seminato l’ombra e il sale.
                                                            Il poeta si scusa del suo male.
                                                            Molesto il pensiero l’assale
                                                            d’un’altra età dove il grano era biondo
                                                            e resina era il mondo
                                                            stillante dalla scorza delle pagine. [13]

La poesia, definendosi luogo della crisi, permette a chi scrive e a chi legge di tenere aperti gli occhi sul mondo; si presenta come termometro socio-politico, oltre che esistenziale; si interroga sul ruolo della lingua e sul suo possibile futuro. Il paesaggio è dunque pronto ad accogliere la storia: il flusso dell’attualità erompe tra le pagine, portando con sé una visione articolata della società.

Il corallo del cielo, i gridi appena
                                                           desti di spalatori che si chiamano
                                                           da un ponte all’altro…
                                                                                                              L’alba a salutarti
                                                           non fatica. Nell’algido acquitrino
                                                           della laguna non c’è gozzo o barca
                                                           che viva, solo il legno del lattaio
                                                           pulsa timidamente di un motore
                                                           dentro il vitreo malanno: mille bocce
                                                           sono esplose in silenzio, il fondobarca
                                                           è sommerso da un latte malinconico,
                                                           niveo flutto, a deludere chi ha fame. [14]

Quella membrana che prima sigillava il soggetto nel breve giro delle sue emozioni, ora si espande e ammette per osmosi altre presenze che si muovono, amano e soffrono. In altre parole, si fa incubatrice di un nuovo umanesimo.


Simone Maculanè nato a Malo (Vicenza) nel 1980. Si è laureato in lettere con una tesi sul paesaggio nella lirica veneta del novecento. Oltre a insegnare, è attivo come volontario nel carcere di Vicenza e si occupa di cultura ed educazione presso il Centro di Documentazione Paulo Freire di Padova e presso l’associazione ipiccolimaestri di Malo.  Sono stati pubblicati due suoi interventi, il primo nel 2006 sulla materia della tesi e il secondo nel 2007 dedicato all’intellettuale e poeta maranese Bortolo Pento. Più di recente ha curato l’antologia di un altro poeta locale, Walter Giuliano Fabris, di cui è prossima la pubblicazione.  

                                                                                                      



[1] F. Bandini, Sermone, nella raccolta In modo lampante,Venezia, Neri Pozza, 1962.
[2] D. Valeri, Occhi, prendete in Poesie scelte, a cura di C. Dalla Corte, Milano, Mondadori, 1976.
[3] A. Chiarelotto, A mattutino,tratto da Poesie 1937-1985, Scheiwiller 1986.
[4] B. Rebellato, in Viandanti in cerca di una spiga, ne Il tempo finito, Padova, Rebellato, 1959.
[5] G. Alessi, Cara città (1956), ne Le poesie, a cura di I. De Luca e V. Zaccaria, Milano, Mursia, 1986.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] B. Pento, Apocalisse in bianco e nero, in Un giudizio della vita, Padova, Rebellato, 1965.
[9]Fuori del paesaggioè il titolo di una sezione della raccolta Detto con ironia, Venezia, 1966.
[10] G. Nogara, Al limite del gioco, in Detto con ironia, Venezia, 1966.
[11] C. Ruffato, Mascheroni, semafori, portici da Il vanitoso pianeta, Caltanisetta, Sciascia, 1965.
[12] A. Zanzotto, Esistere psichicamente, in Vocativo, Milano, Mondadori, 1957.
[13] F. Bandini, Sermone, nella raccolta In modo lampante,Venezia, Neri Pozza, 1962.
[14] C. Della Corte, Cronache del gelo, Milano, Schwarz, 1956.


"Sono ormai tante le antologie della nostra poesia"

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Nell’Antologia della poesia italiana, compilata da Ottaviano Targioni Tozzetti nel 1884 per le edizioni Giusti, lo studioso toscano inaugura la prefazione con una captatio benevolentiae frequentissima anche ai giorni nostri: “Sono ormai tante le antologie della nostra poesia, che a volerne aggiungere una nuova a quel numero pare proprio necessario che se ne chieda prima scusa alla gente.” Quest’approccio la dice lunga sul sommerso antologico presente nelle patrie lettere già a partire dall’unità d’Italia, sommerso che il T.T. definisce “moltiplicarsi di libri inutili in tanta penuria di libri buoni”. Altro ‘già sentito’ contemporaneo. Anzi, a scartabellare antologie e riviste del secolo XX, direi pure luogo comune costante di chi non vede perché non cerca o, peggio, di chi cerca la via vecchia perché non sa capire la nuova. Nuova che si apre a ventaglio, a radice contorta, a raggiera; nuova e perciò invisibile o, perlomeno, non immediatamente chiara nel suo essere pregna di presente e di futuro. E, sia ben chiaro, a questa miopia nessuno sfugge (vedi per esempio il fraintendimento totale di Pasolini verso la poesia di Eros Alesi, per altro lungimirante nel riconoscere i felici esordi della Rosselli e di Massimo Ferretti).

Un secondo aspetto di questa antologia che mi preme sottolineare è la scelta del canone, in chiara dipendenza dallo spirito del tempi, per quanto il Risorgimento sia finito da quasi tre lustri: per il Targioni Tozzetti i poeti del XIX secolo sono tutti portavoce di un entusiasmo politico-civile, per quanto poi sia impossibile, anche per lui, scartare capolavori oggi indiscussi. Rientra in questa prospettiva ideologica la scelta del frammento dei Paralipomeni della batracomiomachia, “Morte di Rubatocchi”, e l’esclusione de “L’infinito” e di “A Silvia”, i due idilli del recanatese oggi più conosciuti.
Altra osservazione: a chiudere la nona edizione del libro (1904) è Maria Aliuda Bonacci Brunamonti (1841 – 1903), della cui poesia Pino Fasano, nel Dizionario biografico degli italiani (1969) metteva in luce negativamente l'intonazione “etico-riflessiva irrimediabilmente provinciale” oltre che l’aspetto didascalico e religioso, evidentemente poco in sintonia con gli anni della contestazione giovanile globalizzata e laica in cui il Fasano, eccellente italianista, si trovò ad operare. Il Targioni Tozzetti aveva forse inserito altri suoi contemporanei (non ho per le mani la prima edizione dell’Antologia e le note del curatore della nona edizione, Francesco C. Pellegrini, sono insufficienti a capire chi è rimasto fuori); pare anzi che sia stato quest’ultimo a inserire la Bonacci Brunamonti, per salutare la recentissima morte della poetessa umbra, con buona pace del Targioni Tozzetti, morto pochi anni prima. Sta di fatto che fa impressione leggere le poesie degli autori tardo ottocenteschi (ad esclusione del Carducci, che fu maestro per tutti) e confrontarle con quelle degli Scapigliati, di Pascoli, di D’Annunzio, autori che scrivevano proprio durante (o quasi) la compilazione dell’Antologia. C’è un salto epocale sia sotto il profilo stilistico e sia degli ideali tra il Tommaseo, il Giusti, lo Zanella e la nuova schiera di poeti che chiuderà l’Ottocento, inaugurando il Novecento. Potremmo anzi dire che la poesia italiana moderna comincia dove finisce questa antologia, tutta pregna – inevitabilmente – di retorica risorgimentale mista a cattolicesimo civile: niente di male naturalmente, eppure lontanissimi entrambi da quella solitudine di massa, da quell’antisublime che saranno la cifra del XX secolo e forse anche del principio del XXI. Resta da capire, oggi, se siano giunte alla fine anche queste condizioni della modernità o, forse meglio, in che modi solitudine e antisublime si stiano coniugando nella poesia italiana contemporanea. Forse il lungo elenco dei poeti di Blanc qualche risposta la dà.



Valeria Rossella

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Arrivo un po’ in ritardo a recensire La città di Kitež (Aragno, 2012), il bel libro di Valeria Rossella, barocco nella complessa trama dei motivi e del sentire filosofico eppure intimo nel farsi racconto familiare, confessione per lampi crepuscolari, di quella luce tenue che anima gli affetti anziché l’intelletto. Le due anime convivono felicemente, pur con la prima dominante, come se cultura e stile, tradizione e presente chiedessero con maggior urgenza una parola pubblica, che invece la biografia tende a negare, per farsi sussurro agli amici, confidenza da tenere segreta.

La presenza della koiné barocca è chiara: la metafora mariniana dello specchio (e più avanti della polvere e della piuma, come sottolinea Giovanni Tesio nella “presentazione”), la percezione shakespeariana del famelico tempo che tutto divora, l’attenzione alla natura metamorfica degli enti, i preziosismi lessicali, il fondersi di realtà e finzione, l’idea che il mondo sia un teatro, la costante presenza della morte sono tutte forme che il barocco ci ha lasciato in eredità e che Rossella combina per esempio in “Kitež”, che appare “rovesciata in fondo al lago”, tutta luce tremula e riflessi, come nella fiaba russa chiarita in epigrafe. E in questa cornice mitologica, archetipica, lei ci colloca l’amore dei suoi avi, lui annegato prima dei trent’anni, lei fedele sino alla morte, avvenuta in tarda età, “tra i lampi azzurri delle ghiandaie” che inevitabilmente attraversano la carne delle giovani vite. E sta qui la forza di questa poesia: nell’incontro fra tensioni epocali, fra passioni e miserie di un occidente già tramontato (il poemetto “Roma – Vascello” ne è l’allegoria più disincantata) e, dall’altro lato, il tremori di una vita vissuta, dove l’amore “parla la lingua della rondine” e di altre cose leggere e vaganti, direbbe Saba. Un amore qui raccontato in due momenti dolorosamente esemplari: sulla soglia della fine per malattia del marito e in una memoria (recuperata anche attraverso la scelta del dialetto del caro estinto) che cerca un dialogo con lui, attraverso un luogo caro a entrambi.

Anche la musica del testo agisce sul doppio tasto: i ricami sopraffini e altisonanti dal vago sentore pascoliano (le “aguglie le telline”, “le stelle del Camelopardo e la Volpecula”, lo “sgonnare insonne di campanule”) stanno in bella mostra su una rete semantica zeppa di fruscii, brusii, vagiti “e altra materia germinale e germogliante” come sottolinea il curatore, a ulteriore testimonianza di un doppio registro, intellettivo e emotivo, che attraversa tutto il libro; così come doppio è il capitolo dedicato alla pittura, “Ut pictura poesis”, citazione oraziana che combina pittura e poesia in una somiglianza governata dal silenzio e dalla parola. La visione di Valeria Rossella, come negli altri capitoli, anche qui riconosce “lo sciupio di ciò che sta nel tempo”, ma non fugge terrorizzata né esorcizza questa consapevolezza con cattedrali imperiture; in lei la poesia non è per sempre, non consola l’anima; segue invece il corso rugoso degli eventi, accetta che il cosmo si espanda e si diradi all’infinito, il fatto che, come scrisse Van Gogh al fratello Teo, non siamo “che terriccio trasmutato”. Verità già presente in Petrarca quando parla di Laura come di “poca mortal terra caduca”, ma nella modernità resa radicale dalla morte di Dio, che nella poetessa torinese ha le sembianze delle cose che mutano, la lucentezza del sogno, l’esaltazione della promessa all’eternità dell’attimo e della memoria, di qualcosa insomma d’imprendibile, al quale stare in prossimità con la parola che aduna famiglia e paesaggio, bellezza e mito, salvandoci dall’oblio, che è “slavina” e “sepoltura” di ogni cosa.

 

 Kitež



La poesia si riferisce alla leggenda russa della città di Kitež, situata sulle rive del lago Svetlojar, che per sfuggire all'invasione dei Tartari si era resa invisibile, ed appariva solo in immagine, capovolta nell'acqua. Molti pellegrini partivano alla ricerca della città miracolosa, sperando di vedere il suo riflesso sul fondo del lago o di sentire il suono delle sue campane. Si diceva che taluni vi avessero soggiornato, che circolavano delle lettere, e che mettendosi in viaggio il pellegrino non avrebbe mai dovuto rivelare la sua meta. Nel testo compare lo zio Alfredo, un fratello della mia nonna paterna annegato nel lago di Garda all'età di ventinove anni, e la sua fidanzata Amalia che senza sposarsi invece visse sino a tarda età. Per questo motivo un verso dice "lui giovane come rimase, lei come lo fu".



Apriti, porta dell'insonnia. Città
che appari rovesciata in fondo al lago
non darmi pace nel tempo della veglia,
la tua luce latente mi sia guida.
Candele si accendono sui tigli
fra tetti e strade maculati. Vedo
aironi ed anatre svolare
da campanili e finestre, e mani frastagliate
offrire pasticcini su una tavola
stile Rinascimento. Dammi appuntamento
con le creature che guizzano
dentro il tuo specchio sfigurante.
Nella camicia inamidata
che dà loro una forma, Amalia e Alfredo
passeggiano furtivi lungo i viali
oscillanti in firmamenti di foglie,
lui giovane come rimase, lei come lo fu,
tra i lampi azzurri delle ghiandaie.
Alfredo tra i vivi non l'ho conosciuto,
ma lui sì, mi conosce. Ricevo le sue lettere.
"Molto ti abbiamo pensato. Tu ci pensi?"
Un placido volo di colombe si leva
nel mio occhio destro - in quello sinistro,
grembiulini bianchi: sui vecchi banchi
mangiati dai tarli, le bambine di Terza
sono ritornate. Frusciano penne e foglie.
Lingua che non conosco, fa' che io ti parli.



Abbecedario  2003



Mie figurine focomeliche, mostratevi. Ombrine
e ghiozzi nel gran mare dell'essere
non più declinato, risalite il flutto nella vostra
forma bidimensionale,
senza profondità, senza dolore. Ora
che i destini del mondo ci sovrastano
e parlano attraverso lunghe criniere.
Maestra Rina, non uscire
dalla fotografia della quinta D,
per venire qui dove si muore.
La maestra china
metà del suo volto sfrangiato sui miei compiti. Scrivi
c di castagna, g di ghianda, poi lascia
solo gli oggetti, senza chiamarli più.
La vita ha un suo segreto abbecedario.
A di abbandono o amore. F di fondamento o fine.
Faccine sconosciute della quinta D,
uno sgonnare insonne di campanule.
P di passero e pettirosso. Li voglio ritagliare
via da questo cielo, li voglio incollare
sul mio quaderno. Perché non possano
volare via per sempre, perché non possano
muoversi più.



Evaristo Baschenis


Lunghissime mani affilate si affacciano allo stipite
e suonano strumenti afoni.
Dallo spiraglio penetra un sudario
di luce porpora e avorio spento, membranosa.
Fra catafalchi rossi e tavoli da cucina,
possiamo origliare lo sciupìo di ciò che sta nel tempo.
Saturno alita gelido
su pollame e cipolle,
trote e lumache, musicisti e servi. In bilico sui piani
mele bacate e volumi con pidocchi dei libri
e pesciolini d'argento fra le pagine.
Unica traccia delle dita, le impronte sulla polvere
che copre i liuti e le mandole, gretole di una gabbia vuota
da cui volata via è la musica, a cinguettare
nel puntaspilli di velluto nero, con capocchie di luci
dai nomi arabi: Deneb, Aldebaran. Alphecca.



Campi di grano


Cipressi belli come un obelisco egizio
contro un cielo impetuoso che scrolla
processioni di stelle enormi

Cascine di Auvers e stradine fra oceani di grano
squassato, i campi di Arles ordinati dal règolo della luce
ad Auvers invalicabili nel volo ossuto dei corvi
                                                                                                           
nell’ultimo quadro ho dipinto rami fioriti
scrisse in una lettera al fratello
che all’orecchio sanguinante gli frusciarono
non sei che terriccio trasmutato



La stanza dell’artista


Solo nove colori per la finestra schiusa
i quadri storti, un tavolo, sul tavolo una brocca,
un catino e certo canfora nel cassetto,
due sedie vuote e un letto dove
non si può dormire ma morire sì.
Ah sì morire, per troppa pienezza
di tutti quei campi assolati, per la crudeltà
di quel giallo ancora caldo,
quando Vincent l’ha messo sulla tela.



Scendo nella reception in cerca di Mercurio



Ecco, ha iniziato la stagione della muta.
Era erba ed è fieno, era foglia ed è frutto,
era seme ed è polpa, era polpa ed è spoglia.
Ora non sono più certa di trovarlo.
Chi controllerà adesso l’andirivieni delle forme.
Gli manderò una mail, può darsi che risponda,
gli spettri parlano la lingua del computer.
Lingua di formichiere, spacciatore d’ombre,
non so che farmene della tua erma mutilata,
un busto senza testa, il guscio vuoto della tartaruga
che ci ricorda come armonia e bellezza
nascano da un sacrificio sanguinario.
Il vecchio Argo è morto, ma ti fiuta e fruga.



La servitù rigoverna


Gli dèi non usano stoviglie, mangiano
con le mani ovunque imprimendo avide
impronte digitali. Infelici
perché impalpabili, invidiano le farfalle che
a dispetto del nome
ebbero due corpi e nessun’anima.
Acqua e sangue. Sguatteri alacri sgombrano carcasse
irrispettosi delle norme per la raccolta differenziata.
Ma ora cacciatori e prede abitano
le costellazioni come insetti l’ambra
o lattaie di Delft il loro sommesso putiferio di luce. Ebe,
domestica dai robusti avambracci, sparecchia
la mensa celeste galleggiante tra nuvole e anime che sono omozigoti.
Scuote la tovaglia e ci lascia cadere, briciole
dal banchetto degli dèi.


                                   (Lago Maggiore, agosto 2004)
                                                                    

Anzolo de sti loghi calmi, verdi, de aqua,
vien a sentarte al Circolo Velico de Ascona
indove ciogo un toco de torta, come
co ierimo insieme, solo poco fa, epur tuto
xe tanto remoto. Tegno de parte per ti
el bocon più dolze, ti  generoso
sempre te fazevi con mi l'istessa roba.
Zighime cocal, che te son là,
fame veder anco se no ghe credo
como soto de ti svola la tu' picia ombra.
Un'ombra blu, un'ombra
de aqua e de luse (ma la pol luser un'ombra?
- la pol) che la me parla del bel,
del ciaro sconto nela piera che se specia
e no pesa, e nel tu' corpisin bianco
e zeleste co' le zime dele aluze negre
ma cussì lustre, che al sol che le careza,
le fa falische. Falisca de la mi' vita,
como te sparissi nel scuro dela magnolia
e ti, ombra de cocal, ne l'ombra che te ciama.                      
Ma mi so che l'ombra la esisti
perché ghe xe la luse e ti, ti te ieri la prova, como i disi
filosofi e scienziati, fisica e ontologica.



[Angelo di questi luoghi calmi, verdi, di acqua,/ vieni a sederti al Circolo Velico di Ascona/ dove prendo un pezzo di torta, come/ quando eravamo insieme, solo poco fa, eppure tutto/ è tanto remoto. Tengo in serbo per te/ il boccone più dolce, tu generoso/ sempre facevi con me la stessa cosa./ Gridami gabbiano che sei là,/ fammi vedere anche se non ci credo/ come sotto di te vola la tua piccola ombra./ Un'ombra blu, un'ombra/ d'acqua e di luce (ma può mandar luce un'ombra?/ - può) che mi parla del bello,/ del chiaro nascosto nella pietra che si specchia/ e non pesa, e nel tuo corpicino bianco/ e azzurro con le punte delle alucce nere/ ma così lucide, che al sole che le accarezza/ fanno scintille. Scintilla della mia vita,/ come sparisci nello scuro della magnolia/ e tu, ombra di gabbiano, nell'ombra che ti chiama./ Ma io so che l'ombra esiste/ perché c'è la luce e tu, tu ne eri la prova, come dicono/ filosofi e scienziati, fisica e ontologica.]


Nota
La poesia è dedicata a mio marito, il poeta triestino Fabio Doplicher, scomparso nel 2003. “loghi calmi, verdi, de aqua” è un verso della sua poesia Ascona




Valeria Rossellaè nata nel 1953 a Torino, dove è tornata a vivere dopo un lungo soggiorno romano. Ha pubblicato sinora alcune plaquettes e cinque raccolte di poesie: Discanti e incanti (Genesi, Torino 1981), L'usignolo meccanico (Edizioni del Leone, Spinea-Venezia 1991), L'anima del violino(Galleria Pegaso Editrice, Forte dei Marmi 1996), Il luminaio (Crocetti 2003), La città di Kitež (Aragno 2012). E' presente su varie riviste e antologie. E' anche traduttrice dal polacco, ha curato tra l'altro la versione di un'ampia scelta dell'epistolario chopiniano (Il Quadrante, Torino 1986), e di Czesław Miłosz, premio Nobel 1980, un’antologia di poesie (La fodera del mondo, Fondazione Piazzolla, Roma 1996) e il Trattato poetico (Adelphi, Milano 2011).

I giovani poeti e i concorsi di poesia

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Ci sono centinaia di premi poetici ogni anno in Italia, alcuni dei quali prevedono la pubblicazione gratuita della silloge, ma da qualche tempo si sta assistendo a un fenomeno strano, per cui i giovani poeti rinunciano a parteciparvi. Non è la prima volta che mi capita la situazione in cui, dato un bando che garantisce la serietà della giuria e la qualità della pubblicazione, il concorso va deserto o quasi. Capita, almeno per ora, allo ZENIT progetto Poesia < 40, bandito da La Vita Felice che prevede la pubblicazione di un’antologia con 10 autori under 40. C’è tempo per la scadenza del premio (15 febbraio 2015), ma qualche riflessione merita già un suo spazio.

La mia impressione è che i premi di questo tipo vadano tendenzialmente deserti per le seguenti ragioni:

1) La poesia edita su carta, da quando c’è il web, ai giovani pare non sia più indispensabile. C’è la convinzione che  pubblicare in rete o con un piccolo editore sia la stessa cosa. Anzi in rete, dicono, si è più letti.

2) Vincere un concorso, e vedere quindi la propria opera pubblicata (specie se su antologia), prelude all’acquisto di alcune copie, non per vincolo del regolamento, ma per poterle poi regalare agli amici e spedirle ai critici. Tanto vale, pensa il giovane, pubblicarsi in proprio le poesie. La spesa si equivale (ma questo è tutto da verificare). Io dico che un libro autoprodotto o edito da un editore-stampatore che non seleziona gli autori non è la stessa cosa che uscire con un editore certificato (e ben distribuito). A certificarlo è il suo parterre.

3)  Forse i poeti più bravi fra i trenta e i quarant’anni hanno già pubblicato, per cui partecipare a un concorso dove uscirebbero con altri, sembra riduttivo.

4) Forse i poeti under trenta vivono una precarietà talmente diffusa da non sentire l’esigenza di pubblicare un libro di poesia. È una questione di ‘essere presi da altri problemi’, ma anche di sfiducia nell’operazione culturale che il libro comporta oltre che nella consapevolezza che esso non darà né il pane né la notorietà.

Queste ipotesi andrebbero verificate. Invito dunque i giovani poeti, ma anche gli altri, a dire la loro nei commenti. Grazie.


Daniela Raimondi

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La regina di Ica(Il ponte del sale, 2012) di Daniela Raimondiè un libro bellissimo perché capace di parlare di morte, di malattia e di violenza non in astratto o con piglio moraleggiante, bensì con la ricchezza metaforica e il mistero con cui Garcia Marquez ci racconta la vita e la morte a Macondo in Cent’anni di solitudine.
“Rubavo la saliva ai passeri” dice di sé la regina di Ica, mummia regale della civiltà Nazca, in Perù, e “ora riposo. Sterile, perfetta”. L’immagine lapidaria fa da totem al libro e dialoga, con fili quasi invisibili, con un totem della cultura contemporanea, un’icona maledetta perché suicida e per la scia di lutti che ha disseminato accidentalmente in seguito: Sylvia Plath. Con queste due matrone dell’altrove, Daniela Raimondi costruisce un discorso sulla morte e sulla malattia, sulla famiglia e le sue crepe, ma anche sui legami e la speranza, sulla volontà di vivere che pervade gli esseri malgrado tutto sia indirizzato alla sfacelo, tutto, come scrive Leopardi nel Canto del gallo silvestre, abbia come unico oggetto il morire. All’altro vertice del triangolo metafisico c’è Dio, in incipit Padre onnipotente, a chi chiedere “una morte bella”; nella chiusa, magnanimo benefattore che concede la vita, i “suoni tranquilli del mattino”. A parte questa presenza, che rimane nella cornice del libro, e qualche altra rara apparizione maschile avvolta in un alone mitico (il figlio Patrick nato dopo una corsa sorvolando i continenti; Nicholas, il figlio suicida della Plath, che “ogni sera tornava caricando sulle spalle / il cadavere di un cervo”, Ted Hughes, marito di Sylvia, che l’andava a trovare, ancora nubile, “con i tasca / pesci vivi, oroscopi e poesie”; Diego Rivera che sigillo le stanze private di Frida Kahlo, imprigionandoci le cose e le tracce degli amori vissuti), La regina di Icaè un viaggio nella natura complessa del femminile, alla sua forza ambivalente, che tiene le briglia al cielo, partorendo, accudendo i malati, sacrificandosi in nome di una parola libera (come la poetessa afgana Nadia Anjuman, assassinata dal marito) ma anche all’inferno, soprattutto all’inferno, governando la morte altrui – come faceva fino al 1952 la “femmina accabbadora” preposta in Sardegna, nel segreto fuorilegge degli affetti familiari, a donare una morte quieta al malato, stringendo “tra le gambe la testa moribonda”– ma anche la propria, come appunto la Plath e la sua sfortunatissima rivale, quell’Assia Wevill suicida e matricida con il gas, in un gesto simile alla poetessa americana.
“I’m fragile – Please Handle Whit Care” scriveva quasi in principio di Ellissi (Raffaelli, 2005), il suo primo tardo libro, in una poesia dove la madre depressa dell’amica Helga, “la domenica, tre pillole nella gola”, mette “un arrosto nel forno”: immagine in cui si specchia, in una poesia de La regina di Ica, la testa di Sylvia Plath dentro la bocca del forno, che “è un animale buono, / lo sbadiglio di un cane sdentato”. C’è dunque una coerenza profonda nella scrittura di Daniela Raimondi, uno scavo continuo dal silenzio mortale delle cose, per ricavarne un suono che sia condivisibile, qualcosa che dia un senso all’insensata corsa verso il nulla di ciascuno, come ci confessa in un corsivo preludiale di quest’ultimo libro: “la pagina che scrivo è per colmare il buio, il nero-nero che porta solo morte.” Ed è una pagina di luce, un lungo “viale di magnolie che ci riporta a casa”. In senso antropologico, quale via del ritorno che risolve l’esilio originario (e una poesia di Inanna– Moby Dick 2006 – lo dice con chiarezza: “Tornerò alla sorgente di tutti i fiumi. / Con le unghie scaverò la terra / per ritrovare il primo battito”), ma anche, per lei  che si muove tra l’Italia e l’Inghilterra da decenni, in senso biografico. Poesia come spazio reale, da abitare autenticamente. Ed è qui che lo stile soccorre ad arredare le stanze, a popolarle di oggetti, animali, persone, vestendole di un amorevole realismo, magico non per intervento divino, bensì per il potere demiurgico della parola, che vivifica il mondo, altrimenti neutro, freddo, lontano.


La regina di Ica 1


i.         

Rubavo la saliva dei passeri,
una malinconia di muschio e acacia.
La parola cantava
raccoglieva il vento, il seme, il polline.
A ogni luna moltiplicavo
l’offerta del grano e delle rose,
ma il vento ogni volta moriva.
In me cresceva la frattura del sangue,
e il gelo,
un’ampolla di vetro soffiato.

Oh le mie mani di cenere,
mia lingua poverissima!
Lasciavo nel mondo
una foglia d’argento, echi
terra rossa
e il germe della mia povertà,
due fanciulli dalla bocca vergine.

Di quei giorni ricordo solo
un caos di sogni e lune bianche
la scarsità dell’acqua,
la cura minuziosa dei giardini.
C’era una scia di luce conficcata nella carne
e in fondo agli occhi
un cielo siderale.


ii.

La morte è stata piccolissima:
una seta sul viso,
la carezza rovente della sabbia.
Hanno svuotato il corpo,
estratto le mie viscere.
Brillavano
fredde e contorte come serpenti.

Ho visto la forma esatta del cuore.
È un muscolo fatto di fiato e sangue.
Solo un organo rosso, ridicolo.
Qualcosa, credetemi,
non più grande di un pugno.

Ora riposo.  Sterile, perfetta.
Dormo rannicchiata nell’ombra
le ossa leggere, il viso verso l’Est.
I merli mi svuotano gli occhi
ma non importa.
Ildolore era altro, altra la pena.
Restava a cuocere nel sole,
estirpata dal rosso incantesimo.

Intorno a me i doni per il viaggio:
cocci, monili, la ciotola di miele
un tintinnio di giade e lapislazzuli.
Un uccello ha fatto il nido
nel buio centro del mio petto.
Ogni mattino batte le ali
e canta e canta
là, dove un giorno era il cuore.


iii.

Il tempo ha cancellato le impronte digitali.
La sabbia ha intessuto nella carne
la sua trama d’oro.
Non sento la fatica,
pascolo la mia morte senza nessun rimpianto.
Ora so che il paradiso non esiste
e rido, rido.
Senza più mani o piedi, rido.
Senza più cuore, o voce.
Sdentata come una vecchissima bambina
            io
            rido. 

Rido senza curarmi del disegno oscuro delle stelle,
rido brillando cieca nella polvere.
Ferma nel tempo come una pietra nera,
con i capelli in fiamme,
con i capelli in fiamme
io rido.



S’accabbadora 2


La chiamavano quando faceva buio
e la morte gridava
nel becco spalancato di un corvo.
Arrivava vestita di nero,
il viso nascosto da un lembo di stoffa.

Sotto il letto del moribondo
avevano messo il giogo dei buoi
e sopra il cuscino
immagini sante, pietre bianche del fiume.
Lei mandava fuori figli e parenti,
poi chiudeva la porta. 

Nascondeva i rosari,
le immagini sacre e i crocifissi.
Infine abbracciava il corpo martoriato,
gli offriva il suo povero seno. 

Oh notte d’inverno,
oh nerissima notte.
Il pane raffermo nella madia,
le stelle immobili nel cielo.

I figli attendevano nel campo.
Intagliavano cuori di legno,
piccole croci d’ulivo.

Era giunto il momento.
Lei s’accucciava al capezzale,
stringeva tra le gambe la testa moribonda.
Bastava poco per terminare l’agonia:
chiudere la bocca col palmo della mano,
stringere le narici con due dita.
Oppure un solo, secco movimento
ed era tutto finito.

Lei usciva e annunciava:
‘La casa è a lutto’.

Ripartiva coprendosi la faccia
e senza scambiar saluto.
Non riceveva compenso
se non un po’ di farina,
un gallo dalle piume d’oro.

Lasciava sul letto un corpo tranquillo.
Sul volto aveva solo l’ombra di un piccolo spavento.
Qualcosa che somigliava a un sogno,
forse un sorriso.



Le stanze segrete di Frida 3


La casa blu, la pioggia,
un fascio di calle e i quetzal. 4

Un piccone sventra la stanza murata,
strappa la carta dalle pareti.
Il raggio di luce cade su un mosaico di stelle.
Nella grotta segreta splende la lampada di Aladino:
perle e bracciali d’argento, la seta e il broccato,
ametiste e cristalli.

L’oro dei Maya trabocca dalla vasca da bagno.
Ci sono biglietti dell’autobus,
il ventaglio, il rossetto,
le piccole mani di Pablo,
un testo di Trotskij e parole d’amore.

Nel ritratto di nozze, Frida ha il viso di una vergine ebrea.
Alla sua festa di sposa il re sorrideva. 
En las calles corría una música alegre,
un canto suave de pajaros y niños.

Nella penombra, c’è l’armatura di ferro
di una regina dalla schiena spezzata.
Su una sedia, la sua sottoveste di raso
e scialli di lino, il rosso e il cobalto,
le ciprie e i gioielli.
Nell’aria una polvere bianca, una polvere bianca.
Odore di muffa.  Odore di urina.
Un gatto fugge dal vetro rotto di una finestra.

Sul tavolo, c’è il giornale stampato
nel giorno della sua morte
y la foto de un cuerpo de nacar y miel:
i suoi occhi da cerva,
il lenzuolo abbassato sui fianchi
e sotto il lenzuolo la gamba di legno.

Nel fondo delle pupille
Frida conserva il ricordo di un feto senza polmoni,
il dolore delle anche malate,
la neve a New York.
Ella cerraba los ojos del niño
y la nieve caía,
la nieve volaba en el cielo de Brooklyn.

Uno schizzo a matita.
La donna bionica cerchiata di ferro,
la foto di Georgia premuta sul cuore.5
Il capezzolo rosa e Parigi, la nebbia.
L’amore di Diego. 
L’amore e il dolore.

Nella stanza segreta
resta un poco di cenere sul fondo dell’urna.
Se ascolti, senti ancora il respiro,
il suo cuore che pulsa
fra i fiori e la colla della parete.



Alfonsina vestita di mare 6


Mi Buenos Aires querida, adesso smetti di cantare.
Alfonsina vuole dormire,
stendere le sue ossa fra il buio delle tue case. 
Fa’ chiudere le tangherie,
nascondi in cantina le scarpe coi tacchi,
i capelli di feltro, le tue fisarmoniche.
Lei ha aperto la finestra sulla tua selva di luci.
È nuda sul letto, i seni amputati.
                        
Mi Buenos Aires querida,
Alfonsina è tornata ai tuoi porti.
È tornata sola, come la prima volta.
Un tamburello batteva lungo le strade
E dentro la valigia lei portava solo
due vestiti a fiori, le prose di Ruben Darío. 
Aveva un corpo selvatico
e in fondo agli occhi
brillava l’ombra dei boschi ticinesi. 

Venticinque anni e i capelli tutti bianchi.
Una furiosa meraviglia
che schiariva la notte intorno al suo viso. 
La parola feriva il suo corpo,
lo apriva sulle note tristi di una milonga.

Adesso è leccata dal male,
tagliata da una lama pulita.
Una Santa Agnese
coi seni su un vassoio d’ospedale.
Due cicatrici le crescono sul petto
grandi, vive come pesci. 

Mi Buenos Aires querida, ora lasciala dormire.
Domani stringerà tra le braccia un fascio di rose,
avrà fra i denti l’azzurro degli oceani.
Solo poche parole scritte con l’inchiostro rosso
e poi camminare sul fondo del mare,
i piedi celesti,
in apnea.



I.         L’amante  7


                                                           Jealousy can open the blood
                                                           (Sylvia Plath)


Il suo corpo d’ariete mi lava e mi ingrassa.
Ha l’odore del sesso
il suo artiglio mi infilza la parte infetta del cuore.

Addenta.  Mi inghiotte boccone a boccone:
prima un dito, poi un occhio, la spalla;
risucchia un’arteria, il muscolo dolce.

Sua moglie è la lupa di Romolo e Remo,
il volo nuziale dell’ape regina.
Depone bambini grassi sulle rive dei fiumi;
è la grande madre terra – sempre pregna, pregna.
Per ogni amore
io partorisco piccoli gnomi di pietra.
Ogni volta che amo, impasto una nuova morte.
Non sono più vera
di un sogno che bagna il lenzuolo.

Il fauno mi chiama
batte lo zoccolo sotto la luna.
Lo aspetto da sempre,
appesa a un gancio nel retrobottega.



II.        Marionette


I saw the dreamer in her
had fallen in love with me and she did not know it.
That moment the dreamer in me
fell in love with her, and I knew it.
Ted Hughes



“Vede, Signora,
io sua figlia l’ho sempre amata.
Arrivavo ogni mattina con in tasca
pesci vivi, oroscopi e poesie.
Ma la sua bambina aveva nel corpo
lune insanguinate,
viveva nell’impronta infangata di uno stivale.
Il suo odio fermentava con le mele in cantina.
Il suo odio cresceva, strangolava la casa.

Vede, signora,
sono nato in una valle di fantasmi;
un paese di morti dove la notte
le divise dei soldati marciano vuote lungo le strade.
E ogni sera la sua bionda bambina
mi chiedeva di morire.
Ogni volta lasciava un cadavere nel letto.

È che un uomo ha in bocca la fame dei lupi:
ha sempre bisogno di mordere,
di succhiare il sapore selvatico.
Il mio sperma impazziva nei lombi.
Non cercavo un’amante, lo giuro. 
Fu lei a trovarmi
seguendo un’orbita errata di stelle,
nuotando e nuotando contro corrente.
Allargava i suoi occhi nel buio,
fiutava il mio odore col ventre.

La chiamai dalla riva.
Era un luccio gigante,
una cornucopia che splendeva
nella marea del mattino.
Guizzò nell’aria:
aveva un feto nell’iride dell’occhio,
si dibatteva con furia
contro l’uncino del mio sesso.
Non ero che un baco senza pupille.
Lei mi chiuse le palpebre,
mi avvolse con un filo di bava
nel suo bozzolo d’oro.

E a casa la sua bambina bella
cadeva fra i narcisi. 
Si rompeva in mille pezzi,
pura e dolorosa come un grido.
Un crack fra le mie mani, così. 
La vita le usciva da un fianco,
il sangue tornava alla terra.
Io non centro, lo giuro. 
Fece tutto da sola.”



IV.       Gas


                                                           and from our opposite continents we wave and call.
                                                           Everything has happened.
                                                           Sylvia Plath


La bocca del forno è un animale buono,
lo sbadiglio di un cane sdentato.
La cucina è igienica come un crematorio.
Il gas è una sciarpa di seta,
ha l’odore pungente delle ascelle di Ted.

Shura dorme attaccata alla mia schiena.
È il mio piccolo innesto,
una farfalla avvolta nel tepore della coperta.
Il suo respiro è una garza.

Fuori la luna imbianca
la potatura senza sangue degli alberi.
Il prato è cangiante come una pellicola esposta.
Due pastiglie, perfette come una comunione
e orbito fuori dal mondo.
Ultimo volo sullo Zeppelin
contro l’irriducibile flusso delle maree.

Apro le orchidee dei bronchi
e respiro, respiro.
Un airone mi picchia dentro il cervello.

La casa è un polmone chiuso.
Il dolore ha il sibilo azzurro del gas.



L’operazione


i.          Odissea Notturna

Un corpo un numero un nome.
Qui non ci sono fiori.
Non ci sono ombrelli, cappotti rossi, bambini.
È un mondo muto, puro come il sale.

Spengono le luci. 
I malati scendono nel ventre delle sotterranee.
Hanno mani bianche, orecchie di carta velina.
Trascinano lentamente i corpi ricuciti.
Sono fantasmi sotto le luci azzurre dei corridoi.
Osservano muti le file di cuori sotto spirito,
la solitudine dei feti nei vasi di cristallo.

Questa è una prigione di donne, 
un gineceo di lamenti e corpi sterili.
Le vecchie rantolano nei loro astucci bianchi,
si agitano come bambine nei vicoli dei sogni.

Qualcuno russa.  Muove nel buio la lingua di cenere.
Sento l’aprirsi e il chiudersi,
l’aprirsi
e il chiudersi             
faticoso         
dei polmoni.

Una donna grida.   
Gli angeli della morfina hanno calze nere,
mani preziose. 
Le portano in dono poche gocce d’amore.
L’ago entra nel braccio come una fiaba
e la donna si scioglie, è di zucchero.
La testa ricade soffice come una pesca.

Dormono le donne magre, gli anemici,
gli esseri soli della terra. 
Dormono i senza figli, i senza corpo,
i corpi di cera infilati nei pigiami.
Giù nel cortile i topi divorano foglie di cavolo,
garze, croste di pane. 
Le loro code guizzano dentro ai cassonetti.

Vegliano i portieri di notte,
gli occhi di scimmia dietro le tende a fiori.
E vegliano le bocche sigillate degli insonni,
i cuori inamidati delle infermiere.


[…]

(Homerton Hospital, Londra, febbraio 2007)



La città dei vivi


Torniamo sempre alle città dei vivi
lasciandoci dietro le porte sprangate,
e avanzi di cibo, le persiane aperte nel vento.
Torniamo di notte,
come le piccole luci dei presepi,
quando i cortili si riempiono di buio
e sentiamo il polso inalterato
immuni alla nostalgia dei nomi,
o al disordine lasciato nei letti dell’amore.
Torniamo soli,
come agnelli trascinati dentro ai fiumi
e cerchiamo la sosta sotto le grondaie
la fine della pioggia, l’odore dell’infanzia.

Di notte i corpi non fanno rumore.
I passi cadono come pezzi di pane nel latte.
E torniamo con le ossa stanche, il cuore azzurro.
Quel che resta
è  il cielo chiarissimo delle stagioni fredde.
Sono gli oggetti di rame,
la gioia dei piccoli gesti quotidiani.
Quel che resta
sono i mobili di noce che durano nel tempo,
le rughe profonde dell’acqua.

Torniamo nell’ora buona e splendida
ad aspettare alzati
l’impronta del sole sul muschio,
il gioco bianco del mattino
sulle lenzuola stese ai balconi.
Torniamo a cercare
le stanze di luce sulle rive del mare,
la tregua nel sonno tranquillo dei figli.
Lontano dal peso notturno dei sogni,
lungo il viale di magnolie che ci riporta a casa.

Note ai testi:

1.        La regina di Ica
Ad una trentina di chilometri dalla cittadina di Nazca, Perù, si può visitare l'affascinante Cimitero di Chauchilla, una pianura cosparsa di ossa, teschi, frammenti di vasi e mummie.  I reperti risalgono al periodo tra il 1000 e il 1300 D.C.  Fra loro, una mummia dalla bocca aperta e un ghigno terribile, simile a un’amarissima risata.

2.           S’Accabbadora

Da tempi antichissimi, in Sardegna era compito di sa femmina accabbadora procurare la morte a persone in agonia. ES'accabbadora era una donna che, chiamata dai familiari del malato terminale, provvedeva a ucciderlo ponendo fine alle sue sofferenze. Un atto pietoso nei confronti del moribondo, ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti.  Negli stazzi della Gallura e nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, questa figura serviva a evitare lunghe e atroci sofferenze al malato.  S'accabbadora andava via in punta di piedi, quasi avesse compiuto una missione, e i familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra. Quasi sempre il colpo finale era diretto alla fronte, da cui, probabilmente, il termine accabbadora, dallo spagnolo ‘acabar’, terminare, che significa alla lettera dare sul capo. In Sardegna s'accabbadora ha esercitato fino a pochi decenni fa, soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi noti avvennero nel 1952.
(Informazioni tratte e adattate dall’articolo le ‘Terminatrici’, dal quotidiano La Stampa del 1/5/52.)

3.           Le stanze segrete di Frida

Mexico City, 1954. È irremovibile Diego Rivera alla morte della moglie: la casa di Frida veniva trasformata in museo aperto al pubblico, tranne per due piccole stanze da bagno che lui stesso fece murare. Le “stanze segrete” di Frida.  Sigillate nel 1954, e rimaste tali per oltre cinquant'anni, le stanze murate della Casa Blu sono state riaperte nel 2004.  A partire dal 1930, e per più di vent΄anni, nella Casa Blu erano passati gli amici più cari di Frida e di Diego, artisti rivoluzionari e amanti segreti.  Fra questi Lev Trotsky, André Breton, Pablo Picasso, e con loro, un pezzo di storia artistica e politica del Novecento.  
4.      I Quetzal sono gli uccelli mitici dei Maya.
5.      La fotografa Georgia O’Kieffe, la sola donna di cui si sia trovata prova scritta che fu amante di Frida Khalo.

6.           Alfonsina vestita di mare

Alfonsina Storninacque nel Canton Ticino, in Svizzera, il 29 maggio 1892.  Si trasferì in Argentina con la famiglia all’età di quattro anni. Alfonsina scriveva poesie, faceva l'attrice e studiava per diventare maestra.  A 20 anni ebbe un figlio ancora nubile.  Ragazza madre, femminista e socialista, pubblicò diversi libri raggiungendo molto presto un grande successo di critica e di pubblico.  Con le sue poesie ha cantato l’amore e la solitudine, ma anche l’ansia di vivere e la voglia di libertà e di emancipazione.  Malata di cancro al seno, si suicidò il 25 ottobre del 1938, all’età di 46 anni, lasciandosi trasportare dalle onde dell’Oceano Atlantico a Mar del Plata.

7.           L’amante

Assia Wevill viene menzionata nelle biografie di Sylvia Plath, come la causa del divorzio fra Ted Hughes e la poetessa americana.  È spesso considerata anche come l’artefice principale del suicidio della Plath.  Nonostante Assia Wevill abbia vissuto accanto a Hughes per sei anni (lo stesso periodo di tempo che il poeta inglese trascorse con Sylvia Plath), e nonostante gli avesse dato una figlia, è praticamente assente dalle biografie del poeta e non venne nominata nelle interviste che Hughes diede durante la sua vita.  La sua presenza fu praticamente cancellata dalla sua storia personale.

Assia nacque nel maggio del 1927 a Berlino, da una famiglia di origine tedesca, russa ed ebrea.  Trascorse la sua gioventù a Tel Aviv e in Canada.  Sposata al poeta canadese David Wevill, la coppia si trasferì a Londra dove Assia lavorò per un'industria pubblicitaria.  Nel 1961, la casualità volle che Assia e David affittassero l’appartamento degli Hughes in Chalcot Road, mentre Sylvia e Ted si trasferivano nella casa appena acquistata nel Devon.  Furono invitati dagli Hughes a passare un fine settimana in campagna e, poco dopo, iniziò la relazione tra Assia e Ted.  Scoperto l’adulterio, Sylvia cacciò il marito di casa. 
Al momento del suicidio della Plath, Assia era incinta di Ted, ma abortì.  Poco dopo, Ted e Assia si trasferirono insieme ai figli di lui a Court Green, la casa nel Devon acquistata per Sylvia. 
Assia era perseguitata dal ricordo della rivale.  Leggeva con ossessione i suoi scritti e cominciò addirittura a usare oggetti che erano appartenuti alla Plath.  Il 3 marzo 1965, diede alla luce una bambina, Alexandra Tatiana Eloise, soprannominata "Shura". Ma, nonostante questo, non fu mai accettata dai genitori di Ted che iniziarono una campagna di ostilità nei suoi confronti.  La situazione domestica a Court Green col tempo divenne insostenibile.  Assia fu spinta da Hughes a tornare a Londra con la figlia.  Qui visse il resto della sua vita insieme a Shura, figlia che Ted riconobbe ma che non trattò mai allo stesso livello dei due bambini avuti dalla Plath.

A Londra, Assia vedeva Ted solo sporadicamente, vivendo in uno stato costante di ansia e tormentata dal terrore di essere abbandonata.  Si trovò isolata, dovendo anche affrontare serie difficoltà economiche.  Negli anni scivolò sempre più profondamente nella depressione.  Spesso menzionava agli amici il suicidio come unica alternativa alla solitudine e alle difficoltà che vedeva costellare il suo futuro e quello di Shura.
Il 23 marzo 1969, Assia Wevill si uccideva insieme alla figlia di quattro anni in un modo che ricorda molto da vicino il suicidio di Sylvia Plath.  Dopo aver trascinato un materasso in cucina, sigillò porta e finestra, depose sul materasso la sua bambina addormentata, aprì il rubinetto del gas del forno e si stese accanto alla figlia ad aspettare la morte.  Il suo suicidio fu ignorato dalla stampa inglese, che mise a tacere ogni connessione fra la sua vita e quella dell’ormai celebre poeta.


Daniela Raimondiè nata in provincia di Mantova e ora divide la sua vita fra Italia ed Inghilterra, paese dove ha ottenuto una laurea in Lingue e Letterature Moderne e un Master in Hispanic Studies presso il King's College, University of London. 
Ha ottenuto il Premio Montale per una silloge inedita e numerosi premi nazionali e internazionali sia per la poesia che per la prosa e il teatro.  Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, inglese, tedesco, ungherese e serbo-croato.  E' stata selezionata per rappresentare l'Italia all'European Poetic Tournment in Maribor (Slovenia), dove ha ottenuto il Premio Del Pubblico (2012).
Ha pubblicato: ELLISSI, (2005); INANNA (2006); MITOLOGIE PRIVATE (2007); il monologo in versi ENTIERRO (2009); il libro-CD DIARIO DELLA LUCE (2011) LA REGINA DI ICA (2012), SELECTED POEMS (2013) e AVERNUS (2014)


Diana Battaggia su ZENIT POESIA

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Buongiorno a tutti.
colgo volentieri l’invito per partecipare a questa interessante discussione (vedi in questo link), esponendo il punto di vista della casa editrice La Vita Felice.

IL PROGETTO [estratti dal bando]
1) Finalità
Nello scenario della poesia contemporanea, in cui si parla molto in generale evitando le prese di posizione, il progetto rappresenta un’assunzione di responsabilità con la volontà di mettere a disposizione del lettore poesia originale e di qualità di autori che la casa editrice desidera affiancare nel loro percorso poetico, al fine di consolidare le loro potenzialità mediante una capillare diffusione e visibilità.

2) Estensione temporale
Nato da un’idea di Marco Bellini, è stato accolto con immediato favore dall’editore che ha sviluppato ZENIT POESIA - Progetto 4x10<40 span="">40>impegnandosi in un’iniziativa che si snoda sul lungo termine: “un percorso temporale di 4 anni che porterà l’attenzione complessivamente su 40 voci poetiche di età inferiore a 40 anni, distribuite in 4 antologie annuali che presenteranno 10 autori selezionati, aventi ciascuna due curatori diversi”.

3) Materiale richiesto
A differenza di altri progetti analoghi, agli autori viene richiesto l’invio di 8 testi (o di un poemetto di 6000 caratteri): una proposta articolata che consentirà ai curatori una migliore comprensione delle singole caratteristiche di scrittura e al lettore, nel caso di pubblicazione nell’antologia per avvenuta selezione, la possibilità di attraversamento di ampi spazi poetici.

4) Curatele
Sono previsti due curatori differenti per ogni antologia.
I curatori opereranno in completa autonomia ricevendo il materiale in forma anonima e la previsione di coppie diverse per ognuna delle edizioni è un’opportunità in più per i partecipanti di avvalersi di sguardi, competenze e gusti distinti.

Con riferimento al punto 1), LVF si mette in gioco, si espone eseguendo delle scelte, che non vogliono attestarsi come verità assolute, ma in quanto scelte saranno perseguite successivamente con la volontà di affiancare, seguire e promuovere la scrittura e gli autori selezionati, in quanto meritevoli di attenzione.
L’operato che la casa riserva agli autori in poesia del catalogo (mi riferisco per congruità dell’argomento unicamente a questo genere fra i diversi trattati da LVF) è visibile quotidianamente, per chi vuole seguire i costanti aggiornamenti del sito: nel 2014, 220 presentazioni; 20 partecipazioni a Fiere e esposizioni;
380 recensioni ricevute, pubblicate su riviste, quotidiani e web; ca. 40 partecipazioni a trasmissioni radio.
Per quanto attiene alla distribuzione, LVF è distribuita da Messaggerie Libri, il più importante distributore indipendente di prodotti editoriali in Italia e dispone di un proprio gruppo di agenti che presenta le anteprime nelle librerie. Qui confermo che la poesia stenta ad essere accolta con grandi entusiasmi dai direttori di libreria, ma l’approvvigionamento dei libri LVF, per le librerie nazionali “in ordine con i pagamenti” con Messaggerie, richiede al massimo 3 gg lavorativi.

ZENIT POESIA vedrà la realizzazione di un’antologia: non è una silloge personale, ma non è neppure un testo singolo. Ne vengono infatti richiesti 8 (punto 3) o un poemetto di 6000 caratteri che riteniamo sia comunque, per la poesia, una proposta ampia per il fruitore. E gli autori antologizzati diventano, a tutti gli effetti, autori del catalogo LVF, seguiti e supportati come sopra esposto.
Il punto 2) rafforza l’idea progettuale che non si risolve in un solo anno di osservazione, ma su 4 permettendo più possibilità ai partecipanti ai quali viene offerta l’opportunità di presentare il proprio lavoro in più edizioni e a curatori diversi (punto 4). Questi, ovviamente, avranno differenti parametri di valutazione secondo la propria formazione e sensibilità.

Ringrazio per l’ospitalità con l’augurio di un nuovo incontro “attraverso il verso”!

Diana Battaggia
Resp. Poesia LVF

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