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Mia Lacomte

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foto di Carlo Acerboni

Intanto il tempo (La Vita Felice, 2012) di Mia Lacomte si apre con una bambina che scrive poesie, accesa emotivamente nel più candido e dolente dei balconi, la scrittura, e dimentica del grigio paesaggio intorno: è un “miracolo piccino picciò”, che diventa destino, ma anche compito, progetto, che si prefigge di raccontare le ombre attraverso la luce delle cose, il disequilibrio salutare, parlando della trasformazione delle pietre in nuvole e delle nuvole in pietre. L’esergo del poeta portoghese Casimiro de Brito annuncia la strada: Prendo in mano una pietra / e penso: una nuvola / un poco meno effimera”. L’effimero, in questo libro, non è l’inessenziale, ma il contrario: è la verità cangiante degli esseri, il loro stare insieme prima di ogni comprensione, è la relazione io-mondo messa in piedi dalla fenomenologia husserliana, la quale, in Partiturina, diventa poesia, in cinque sequenze esemplari: “Le cose come ci circondano  esitano / a volte così poco che possederle / significa sottrarsi” dice la prima, aprendo uno spazio senza soggetti, dove “ le cose” e “noi” si coappartengono, espropriandosi reciprocamente e così mostrando la vera natura dell’abitare autenticamente il mondo. Quando l’io prevale, in verità prevarica. E Mia Lacomte ce lo dice in uno stile dove il sintagma pesa come piombo, obbligandoci a una sosta di riflessione, per incontrarlo nella sua verità a volte ontologica, a volte socio-affettiva o psicologica. La sommatoria dei tasselli, che spesso e volutamente non torna, come il calcolo dei dadi di montaliana memoria, ci restituisce la violenza maschile e la tenerezza della donna, ma anche l’assenza di “azzurro” che pervade la terra e la sessualità, consumata in una stanza buia – ci racconta una breve lirica –  odora di morte.

“La vita è un aggregato di materia organizzata” scrive Lacomte in Inventario; la sua pesantezza ci tiene in piedi, per terra. Vivere, infatti, qui, non ha grandi pretese, non vuole il volo, il salto mortale, bensì il passo quieto e pieno di pietas verso le cose, che ci guardano e ci accompagnano e, talvolta, ci consolano. La casa, in questo senso, è decisiva perché dovrebbe delimitare lo spazio del viaggio, tenendoci al sicuro, consentire alla vita di rimanere nuvola e pietra, senza ferirsi. E invece, come in molta poesia femminile contemporanea, la casa diventa selva, dove la ragione si perde e “comincia il dolore”: il tema è drammatico e Mia Laconte lo affronta con originalità stilistica, ora usando la paratassi e l’appunto da taccuino (casa di bambola) ora adottando la voce della favola (“queste poche ferite a stanare / la bestia tra le piante il cappuccio strappato”, Cappuccetto rosso), ora aprendo all’autobiografico, come in Musical chairs, dove l’uno (il padre) e l’altro (il marito / il compagno) si “competono”, ossia gareggiano tra di loro, per avere l’esclusiva su di lei, ma anche le  “competano”, per cui le spettano chiedono cure. E tuttavia, come ci dice il gioco a cui il titolo fa riferimento, le sedie non sono mai abbastanza e qualcuno resterà in piedi, game over. A diffondere la musica, qui, sono i legami parentali, dai quali non si può prescindere perché la solitudine è una condizione ancora più penosa, come ci ricorda Funamboli: “quaggiù quel / che è solo viene meno / vive appena sopra il filo sospeso / ma atterrato barcolla”.

Intanto il tempo contiene una prefazione di Gabriela Fantato e una Nota ai testi di Elio Grasso, due autorevoli e attenti lettori che scommettono giustamente su questa opera, scritta da un’autrice e traduttrice impegnata tra l’altro nella letteratura della migrazione e nelle tematiche del confine. Anche questo libro si muove lungo la linea che congiunge e disgiunge, nel contempo, maschile e femminile, esseri umani e cose, razionalità e irrazionalità, con risultati senz’altro riusciti.



Diploma

La bambina che scrive poesie
si accende tra gli ultimi banchi
con tutto l’inchiostro
la gomma sbriciolata un elastico
scivolato dal biondo la bambina
sai scrivo poesie ci dice
e colora gli occhiali sul naso
gonfia il nome con le piume arrossate
libera le grammatiche, un miracolo
piccino picciò, libera il dolore
in bell’ordine nell’astuccio di raso
poi si piega ad allacciare il passaggio
quattro stringhe da un intero destino
e così quando rialza la testa
la bambina che scriveva poesie
è già un’altra si dimentica oramai
di affinare il suo lapis sorride
e spegnendosi non dice più oltre
non si accorge



Casa di bambola

Sezione della casa.
Frontale. Mezza in ombra.
Il terzo piano è soffitta.
Rotola una palla, costante, e la polvere è viola.
Il secondo piano si flette.
Tutti i passi dei figli, a migliaia. Dei gatti.
Si flette.
Al primo piano comincia il dolore.
Lei è tutta sul letto, decomposta.
Lui la aspetta nella vasca da bagno.
Al piano terra è cominciato da giorni.
Lei ora è in cucina. Ha già pianto e si affretta.
Lui l’ha seguita con le sue lenti tabacco.
Fuori un groviglio di spade. Il prato col box.
C’era il nome.
La sezione non mostra le scale.
Si passa da dietro, tra i piani.
I figli lo sanno tutti in fila.
In salotto lei ha perso l’età.
Lui la ragione.
Scricchiola un osso qualunque, un molare.
La polvere si è fatta celeste e riflette.
Non si aspettano strade



Darkroom

Significa che la stanza è nera
e i corpi ci stanno da morti
stretti fra loro in genitale malinconia
buoni a succedersi in un presepe impagliato
o una scacchiera senza misericordia
significa che l’odore nel buio
è quello dell’origine privata del verbo
quello che la carne sa dare
quando è così sola



Funamboli

Quando ritorneranno bipedi
dovranno ripensare alle formule
per convergere su tracciati reciproci
appaiati speculari a se stessi
valutarsi in due ipotesi analoghe
due di tutto,
occhi e mani
con il resto,
se quaggiù quel
che è solo viene meno
vive appena sopra il filo sospeso
ma atterrato barcolla
è già perso in un nuovo equilibrio
si confessa



Musical chairs

                         perché si è figlia e moglie

Sono attualmente due
gli uomini che mi competono
se l’uno è passibile di morte l’altro
mi sputa nell’angolo tra due pagine
ruga dopo ruga dopo ruga
non ricorda l’uno ma lo pettinavo
ero una voce in ascolto traducevo
mi appartiene l’altro come la pulce
al cane sbagliato cerca affanno va
sputando sul resto che basta di me
corpo a corpo che l’uno ha
lasciato sperduto indeciso per
l’altro che ha bisogno di offendere
persino con lo sguardo gentile



La sirenetta

La mia prima sorella ha un giardino che
affiora rotondo di spighe lavanda ranuncoli
si siede la sera a osservarlo appassire
torna allo scoglio il mattino e fiorisce
la seconda sorella contorna il giardino
a triangolo con siepi di petali amati e
non amati e corolle che non cercano luce
o steli durevoli a tentare radici
la sorella che è terza in una scatola
ripone il giardino di forma quadrata come
fosse una torta da tagliare in porzioni
lungo le aiuole tracciate con cura
nel mio giardino c’è la statua di un principe
tra male erbe liquami cartacce lui
me lo chiede con lo sguardo distante non
sei che coda vuoi imparare a restare



Bella

Ti comunico brevemente
che ho deciso di lasciarti morire in
quel tuo giardino lontano due parole
per dirti che arriverò solo quando
non lo potrai più sapere certa
che non mi avrai odiato tanto da
volermi aspettare per sempre

ti scrivo per informarti
che vorrò riprendermi il miele
e il ginger e il muesli croccante
la vestaglia le babouche
libri carte computer i cd brasiliani
mentre tu andrai spegnendoti
in quel tuo giardino deserto
tra playback di cicale e
una fila di formiche a ritroso

ti vedrò amore caro
solo quando non sarai più
la valigia appoggiata nell’erba
scorrerò attentamente la salma
a ricordare altri corpi nel tuo
l’artiglio di questo le fauci di quello
e un qualunque dolore peloso
di mostro che è stato per tutti
tra una lacrima e una nenia a starnuto
una manciata di terra e un inchino
me ne andrò con in spalla un bastone
la valigia sospesa da un lato viandante
con un tot adeguato di passi
come qualcosa che nessuno più aspetta
e può finalmente arrivare


Mia Lecomteè nata nel 1966 e attualmente vive a Roma. Poeta, autrice per l’infanzia e di teatro, tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: le raccolte poetiche Autobiografie non vissute (Manni, 2004) , Terra di risulta (La Vita Felice, 2009) e Intanto il tempo (La Vita Felice, 2012) ; e i libri per bambini Come un pesce nel diluvio (Sinnos, 2008) e L’Altracittà (Sinnos, 2010).
Membro onorario dell’Associazione francese “Confluences poétiques”, le sue poesie sono state pubblicate all’estero e in Italia in riviste e raccolte antologiche tra cui Confluences poétiques («Mercure de France», 2007-2008, nn. 2-3) e Italian poets in translation (John Cabot - Univ. of Delaware 2008). Nel 2012, a Toronto, presso Guernica Editions, è uscita la sua silloge antologica bilingue For the Maintenance of Landscape.
È ideatrice e membro della “Compagnia delle poete”, un gruppo teatrale composto da poetesse straniere e italo straniere, che mette in scena spettacoli incentrati sulla contaminazione poetica di lingue, culture e linguaggi artistici diversi (http://www.compagniadellapoete.com/).
Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della comparatistica e in particolare della letteratura della migrazione: è curatrice delle antologie Ai confini dei verso. Poesia della migrazione in italiano (Le Lettere, 2006), Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano (Éditions Chemins de tr@verse, 2011) e con Luigi Bonaffini A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy (Legas, 2011), e tiene numerose conferenze sull’argomento in Italia e all’estero.
È redattrice del semestrale di poesia comparata «Semicerchio» e di alcune riviste letterarie online, fra cui il trimestrale di letteratura della migrazione «El Ghibli». Collabora all’edizione italiana de «Le Monde Diplomatique».



Ramona Ciucani traduce e commenta Mahmud Darwish

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Omaggio a Mahmud Darwish



Il 13 marzo scorso dodici città in tutta Italia hanno omaggiato l’icona della poesia contemporanea palestinese, Mahmud Darwish, nel giorno del suo compleanno.
La proposta, lanciata dall’Associazione Arabismo di Roma e raccolta da molti, aveva lo scopo di sottolineare una grave mancanza editoriale: le sue traduzioni italiane sono ormai fuori commercio.
Venezia era tra le città che hanno partecipato all’iniziativa e ha offerto un reading poetico memorabile grazie alla partecipazione degli studenti del Master MIM (Master di Mediazione Inter Mediterranea) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e alla collaborazione della Biblioteca Querini Stampalia. Mettere in sinergia due diverse istituzioni, l’università e la Biblioteca Querini, ci è sembrato un modo positivo per raggiungere più direttamente la cittadinanza e far sì che la poesia dell’autore circolasse in uno spazio culturale allargato e di tutti.
Nella splendida cornice della rassegna queriniana in omaggio a Mario Stefani, otto studenti si sono alternati sul palco e hanno letto i testi di Darwish in otto lingue: arabo, ebraico, persiano, turco, inglese, francese, spagnolo e italiano. Altri loro colleghi hanno allestito un video per presentare l’autore, una bibliografia ragionata multilingue messa a disposizione degli intervenuti e una scenografia con immagini e traduzioni italiane delle poesie. È stato un grande lavoro di concerto, non sempre facile, che ha raggiunto gli obiettivi prefissati: coinvolgere e incuriosire non solo il pubblico ma anche gli studenti. Abbiamo tutti imparato com’è possibile fare mediazione culturale attraverso la letteratura e la poesia.
Da coordinatrice veneziana, ho partecipato all’allestimento del reading in ogni sua parte (costruzione del percorso poetico, selezione dei testi, cura delle traduzioni italiane, lettura di un inedito, introduzione al recital, organizzazione tecnica). La cosa di cui sono stata più orgogliosa è stato l’entusiasmo e la soddisfazione degli studenti alla fine dell’evento.
Mi auguro che, in Italia, come è stato fatto in Spagna, Francia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, si torni presto a tradurre la poesia di Darwish, dando ai lettori l’opportunità di conoscerlo e gustarlo in italiano e all’autore la voce poetica che merita nel nostro panorama editoriale.
Per condividere con voi parte di questa festa di parole ed emozioni, Stefano Guglielmin ha accettato di ospitare alcune mie traduzioni inedite e parte dell’introduzione poetica letta durante il reading del 13 marzo. A lui e al suo instancabile lavoro di passeur, il mio sincero grazie.

*** 

Il criterio che ci è sembrato più efficace a restituire una breve panoramica della produzione poetica di Mahmud Darwish è stato quello cronologico, poiché ci permette di spaziare nell’immaginario retorico del poeta dai poemi giovanili della resistenza a quelli d’amore, dai testi intimi e autobiografici della maturità alle riflessioni faccia a faccia con la morte. Grazie a questo criterio, si è venuta delineando una geografia poetica che corrisponde alle fasi che scandiscono il percorso umano ed estetico dell’autore, spesso intenzionalmente in contrasto e rottura l’una con l’altra. Sicuramente non potremo qui approfondire l’evoluzione stilistica e retorica dell’intera sua opera poetica, che diviene sempre più complessa nello stretto legame tra poesia e pensiero, tra parola e ritmo. Cercheremo solo di farvela intuire. Darwish ha attraversato più di cinquant’anni di storia del Medio Oriente e li ha interpretati e condensati nella sua poesia (dalla Questione Palestinese, alla guerra civile libanese, dalle vicende dell’OLP, agli accordi di Oslo e al dopo Oslo). Ha però deciso di rifugiarsi nella sua lingua, la lingua araba, per non restare ingabbiato nell’etichetta di “poeta palestinese”, e ha eletto la poesia a sua patria. È l’universalità che ci piace e vogliamo sottolineare stasera. Le sue poesie hanno parlato tutte le lingue del mondo e continuano a parlare alle nuove generazioni di poeti e lettori, non solo arabi. Con la sua opera, Darwish ha aperto un orizzonte poetico nuovo, trasformando la sua poesia da affermazione di identità in eterna presenza nelle parole. Come ha detto Yasir Suleiman (Cambridge University) “where politics fails, literature succeds”. […]
La raccolta del 1995, Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine? (trad. di L. Ladikoff, S. Marco dei Giustiniani, 2001), segna un punto di svolta nello stile dell’autore: da qui inizia l’identificazione totale con la lingua e la poesia araba (“Io sono la mia lingua” dice Darwish in un’intervista), che si caricano dei riferimenti intertestuali e delle allusioni alla tradizione araba classica, ai mistici persiani, alla mitologia del Medio Oriente oltre che a quella greca. Forse, il poeta greco Yiannis Ritsos nel definire l’amico palestinese un poeta “lirico-epico”, si riferiva a questa fase, in quanto il nostro autore fonde l’epica classica con il lirismo della poesia moderna, e addirittura si definisce un “poeta Troiano”, ossia un poeta che racconta la sconfitta, gli sconfitti/il suo popolo, in contrapposizione a chi da millenni ha raccontato i vincitori, ma che attraverso la poesia della perdita trova la via per trascendere la sconfitta. […]
A conclusione di questo viaggio sonoro, ci sarà un estratto da “Il giocatore d’azzardo” (Lā‘ib al-nard) dalla raccolta Lā ’urīdu li-haḏihi al-qaṣīda an tantahī (Non voglio che questa poesia finisca), poesia postuma pubblicata nel 2009. Una summa biografica che potremmo definire una “poetografia”, per riprendere una definizione del poeta iracheno Sinan Antoon, ossia una biografia in forma di poesia. L’ho tradotta per questa occasione e la ascolterete in anteprima nazionale, visto che è ancora inedita. La metafora che veicola ossia che la vita è un gioco d’azzardo, ci pare una degna conclusione di questo percorso nelle parole e nella vita di Darwish, e rappresenta l’abolizione della differenza tra poesia e vita raggiunta dall’autore.





Carta d’identità
Haifa, 1964
tit. orig. Biṭāqat huwīya
                                                                                                                                      dalla raccolta Awrāq al-zaytūn (Foglie d’ulivo)

Scrivi!
Sono arabo
carta d’identità numero cinquantamila
ho otto figli
e il nono nascerà dopo l’estate.
Ti fa rabbia?

Scrivi!
Sono arabo
lavoro con i miei compagni di miseria
in una cava
ho otto figli,
per loro, dalla pietra
cavo pane
abiti e quaderni.
Non vengo a mendicare alla tua porta
e non mi abbasso
davanti alla soglia di casa tua.
Ti fa rabbia?

Scrivi!
Sono arabo
sono un nome senza titoli
sono paziente in un paese
pervaso da fremiti di rabbia
le mie radici
sono ben salde da prima che nascesse il tempo
da prima che avessero inizio i secoli
da prima del cipresso e degli ulivi
da prima che germogliasse l’erba.
Mio padre è della famiglia dell’aratro
non discende da signori,
mio nonno era un contadino
senza stirpe né lignaggio!
Mi ha insegnato l’arroganza del sole
prima di insegnarmi a leggere libri.
La mia casa è un capanno
di legni e canne.
Soddisfatto della mia posizione?
Ho un nome senza titoli!

Scrivi!
Sono arabo
capelli:     neri
occhi:       marroni
segni distintivi:
una kefiya in testa
e il palmo rugoso come pietra
che raschia quel che tocca.
Indirizzo: 
un lontano villaggio dimenticato,
dalle strade senza nome
in cui tutti gli uomini lavorano nei campi o alla cava.
Ti fa rabbia?

Scrivi!
Sono arabo
defraudato delle vigne dei miei avi
e della terra che coltivavo
insieme ai miei figli.
A noi e a tutti i nostri posteri
non hai lasciato
che queste pietre.
Le prenderà forse il vostro governo, come dicono?

Dunque,
scrivi
in testa alla prima pagina:
non odio la gente
e non aggredisco nessuno
però, se avessi fame,
mangerei la carne del mio usurpatore.
Attento, sta attento
alla mia fame
e alla mia rabbia!




Vengo da laggiù

Parigi, 1986

tit. orig. Anā min hunāk
dalla raccolta Ward aqall (Meno rose)


Vengo da laggiù. E ho dei ricordi. Sono nato come nascono tutti. Ho una madre.
E una casa con molte finestre. Ho fratelli, amici e una prigione con una gelida feritoia.
Ho un'onda ghermita dai gabbiani. Ho una vista tutta per me. Ho un prato smisurato.
Ho una luna ai confini delle parole, semi per gli uccelli e un ulivo immortale.
Sono passato sulla terra prima che le spade passassero su di un corpo e lo rendessero pasto.
Vengo da laggiù. Rendo il cielo a sua madre quando è lui a piangerla,
e piango affinché una nuvola di ritorno mi riconosca.
Ho imparato tutte le parole degne del tribunale del sangue per poter infrangere la regola.
Ho imparato tutte le parole, poi le ho smontate per ricomporne una sola:
Patria.



Il giocatore d’azzardo
tit. orig. Lā‘ib al-nard
dalla raccoltaLā ’urīdu li-haḏihi al-qaṣīda an tantahī
(Non voglio che questa poesia finisca, 2009)


Chi sono io per dirvi
quel che vi dico?
[…]

Io sono un giocatore d’azzardo,
a volte vinco, a volte perdo,
sono come voi
o poco meno.
Sono nato di fianco al pozzo
e a tre alberi solitari come monache,
sono nato senza fanfare né levatrice.
Mi hanno dato questo nome per caso,
ho fatto parte di una famiglia
per caso,
ereditandone fattezze, caratteri
e malattie
[…]

Non è affatto dipeso da me quel che ero,
è stato un caso che fossi
maschio
[…]

Non è dipesa da me la mia vita
[…]

Avrei potuto non essere rondine
se il vento l’avesse voluto,
e il vento è la fortuna del viaggiatore.
Sono andato a nord, ho percorso il mondo da est a ovest,
quanto al sud, era lontano e riottoso,
perché il sud è il mio paese.
Così sono diventato una metafora di rondini per librarmi sopra i miei resti,
in primavera e in autunno,
ho battezzato le mie piume nelle nuvole del lago
e ho prolungato il mio saluto
sul Nazzareno che ha vinto la morte
poiché, in Lui, c’è il soffio di Dio
e Dio è la fortuna dei profeti.

Per mia fortuna sono il vicino della divinità,
per mia sfortuna è la croce
la scala eterna verso il nostro futuro.

Chi sono io per dirvi
quel che vi dico?
Chi sono io?

L’ispirazione, fortuna dei solitari,
avrebbe potuto non allearsi con me.
Il poema è un lancio di dadi
su uno scampolo di tenebra,
luccica a tratti
e le parole cadono
come piume sulla sabbia.

Non dipende da me il poema
se non quando ubbidisco al suo ritmo […]

Non dipende da me il poema se non
quando l’ispirazione s’interrompe
e l’ispirazione è la fortuna del talento che si mette all’opera. […]

Così nascono le parole. Alleno il cuore
all’amore affinché contenga le rose e le spine.
Mistiche, le mie parole. Carnali, le mie voglie.
Non sarei quel che sono ora
se quei due – l’io e l’io femminile -
 non si fossero incontrati.
O amore, cosa sei? Quanti tu sei
e non sei?  [...]
Tu sei la fortuna degli infelici.

Per mia sfortuna sono scampato più volte
alla morte con l’amore
e, per mia fortuna, continuo a essere fragile
per farne ancora esperienza.
[…]



Solo il giorno dopo, ho scoperto che mentre noi onoravamo Mahmud Darwish, in Arabia Saudita – alla Fiera del libro di Riyad – le sue opere venivano censurate con l’accusa di blasfemia.
Nella convinzione che la vera poesia sia un patrimonio universale che va celebrato e non censurato, riporto qui una delle poesie incriminate:





Dio mio perché mi hai abbandonata?


tit. orig. Ilahī limāḏā taḫallayta ‘annī ?
dalla raccolta Ward aqall (Meno rose, 1986)


Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonata? Perché hai sposato Maria?
Perché hai promesso la mia unica vigna ai soldati, perché? Io sono la vedova.
Sono figlia di questo silenzio, sono figlia del tuo verbo trascurato.
Perché mi hai abbandonata, Dio mio? Perché hai sposato Maria, Dio mio?
Come parola sei disceso in me, e hai tratto due popoli da una spiga.
Mi hai sposato a un’idea e io ti ho ubbidito. Ho ubbidito ciecamente alla tua previdente saggezza.
Mi hai ripudiato? O sei venuto a guarire un altro, il mio nemico, dalla ghigliottina?
Una come me ha il diritto di chiedere Dio in sposo? O di domandargli:
Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonata?
Perché mi hai sposato, Dio mio? Perché hai sposato Maria?



Mahmud Darwish (1942 – 2008)
Unanimemente considerato tra i più grandi poeti contemporanei.
Tra le sue raccolte di poesia pubblicate in italiano si ricordano: Come fiori di mandorlo, o più lontano (trad. di C. Haidar, Epoché, 2010); Il letto della straniera (trad. di C. Haidar, Epoché, 2009); Murale (trad. di F. al-Delmi, Epoché, 2005); Perche hai lasciato il cavallo alla sua solitudine? (trad. di L. Ladikoff Guasto, San Marco dei Giustiniani, 2001); Meno rose (trad. di G. Scarcia e F. Rambaldi, Cafoscarina, 1997). Interessante la raccolta di interviste Oltre l’ultimo cielo: la Palestina come metafora (trad. di G. Amaducci, E. Bartuli, M. Nadotti; Epoché, 2007).
Tre sue opere in prosa a sfondo autobiografico (Diario d’ordinaria tristezza, 1973, Memoria per l’oblio, 1987 e In presenza d’assenza, 2006), saranno pubblicate a breve nella collana Comete di Feltrinelli a cura di E. Bartuli con trad. di R. Ciucani.



Ramona Ciucani

Lavora come traduttrice letteraria dall’arabo. Tra le sue traduzioni poetiche: “Il viatico dell’esule” [cinque poesie di S. Antoon] in ITALIAN POETRY REVIEW, VII, 2012, (SEF), pp. 197-211; alcune poesie di ‘Ali Ja‘far ‘Allaq e Sinan Antoon pubblicate nel blog poetico Blanc de ta nuque. Ha tradotto i romanzi: Rapsodia irachenadi S. Antoon (Feltrinelli, 2010), Dunyazad di M. Telmissany (Ev Editrice, 2010) e Il gioco dell'oblio di M. Barrada (Mesogea, 2009).

Marisa Righetti

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Lisa ama il blues (Laboratorio Coessenza, 2011) raccoglie tutti gli editi e gli inediti di Marisa Righetti, poetessa cosentina di lunga pratica ma scarso riconoscimento nella patrie lettere. Forse per il suo rifiuto a mescolarsi con logiche corporative e certo per un carattere aspro, che emerge sin dalle prime liriche e trova, nei tre versi che seguono, il proprio sigillo: “Signu vilinusa / cumu l’oleandru / l’arburu di pazzi”.

Il libro si articola in XIV capitoli, che riorganizzano, come in un canzoniere, le tappe fondamentali della sua poesia in lingua, a partire dalla tragedia della nascita, dal precipitare nel mondo dei vivi, sentendosi  un “pesce fuor d’acqua”, “che si defila”. A dominare i primi due capitoli è la famiglia: “decima figlia” di “quindicesima gravidanza”, di una madre “che batteva la testa contro i muri” e un padre “muto presente / che si sentiva innocente. / Come avesse piovuto”.
La ricerca di una collocazione nel mondo e di una relazione forte, conflittuale, con la madre; la memoria di un padre autoritario verso cui agiva un sentimento edipico, sono vissuti come destinali o, laicamente, inevitabili (quanto l’avvento della pioggia, appunto), a cui fare resistenza privata con la scrittura. “Scrivere – ci dice in calce al libro –  fu strumento per forare la massa di macerie che mi era piovuta addosso”, senza sprofondarci dentro, tuttavia: “Solo la paura della morte mi impedì di chiudermi per sempre in quella stanza”.

Questa consapevolezza tragica è compensata con l’ironia, che a tratti diventa sarcasmo, verso la vita e i suoi burattini, specie quando questi appartengono alla sua biografia amorosa. Prudentissima nello spingere sul pedale del sentimento, la Righetti formalmente lo evita agendo sulla paratassi e scegliendo metafore che si consumano sulla linea della frase, che non fanno in tempo a gonfiare per diventare sintomi o mali conclamati oppure, ancora, temprando le metafore con il fuoco della ragione, così da farle sembrare atti naturali: “Perse il suo profumo / per non attrarre i cannibali”.
La seconda parte del libro (capp.V-VII) cambia radicalmente prospettiva: se prima dominava “il mare della soggettività”, per dirla con Dario Bellezza, ora la Righetti fa un passo indietro, per lasciare spazio agli altri, nella fattispecie ai quaranta ladroni, lei fra questi, che occupano un condominio. Il ritmo si fa più incalzante. E anche quand’è disteso, la parola rimane originale. Le scelte retoriche ora tendono ancor più ad eclissarsi, per dare spazio alla vita che brulica. Una vita degradata, nell’ambiente e nelle anime che la popolano. Sembrano testi nati negli anni Settanta, entro un contesto culturale di sinistra. Via Aladini (lettera da un’occupazione)si apre con una prosa di tre pagine, che mette a fuoco la questione: “Andrea ha detto che se ci sgombrano, lui non s’arrende, s’attacca al termosifone. Io e Massimo proferiremmo volare, piuttosto, come le anatre del parco. Come Peter Pan, esulta lui”.

Le poesie più belle di Lisa ama il blues (ed è la Lisa dei Simpson, in un episodio omonimo edito da Coessenza) sono nei capp. I, III eIX, in cui troviamo tensione lirica e racconto, esemplarità e intimità, e la voce, meglio che altrove, coniuga esperienza e canto, ideologia e retorica. Nel cap. IX, in particolare, l’autrice, che una ventina d’anni fa pubblicò su “Salvo Imprevisti” – un importante quadrimestrale di poesia italiana fondato da Mariella Bettarini e Silvia Batisti nel 1974 (qui il link dei numeri scaricabili) – gioca fra l’altro con i nomi di due poeti ben conosciuti negli anni Settanta e Ottanta: Chiara Scalesse, verso la quale sembra rimproverare la correzione dell’arcaismo “vindice”, e Gino Scartaghiande (tra i fondatori di “Braci” nel 1980), che diventa un verbo: “Ma sorvoliamo / scartaghiandiamo”. In queste poesie il carattere spigoloso torna a farsi sentire, così come l’ironia, il cui gioiello sarcastico si mostra nella poesia successiva, nella chiusa edipica: ”Il poeta è angosciato / la rosa la voleva casta / come sua madre”.

Malgrado qualche caduta – per esempio un eccessivo disincanto, che a volte scheletrisce il verso, svuotandolo di quel minimo di polpa della quale il lettore avrebbe potuto emotivamente nutrirsi oppure in un eccessiva frammentazione del dettato non supportata da parole e sintagmi pesanti come pietre, capaci di compensare il depotenziamento sintattico – Marisa Righetti mi sembra una poetessa di tutto rispetto, che merita attenzione.





Da genitori entrambi gemelli
non nacquero arieti
né scorpioni né capricorni
né vergini né acquari.
Solo un pesce
fuor d'acqua.



**

La scala è a chiocciola
il tirannosauro madre
al piano alto
incombe
respira nella sua carcassa
lei il pavone
lei la capra
dal lungo pelo saggio
che sale più in alto e vede
lei la buona mucca
che provvede al latte…
io il pesce
che si defila



**

Ditele quello che vi pare.
non è più una bambina
Non vi faccia pena.
Ha imparato a difendersi.
Non â la metà di nessuno
tanto meno del cielo.
Finché è viva sarà intoccabile
come ogni animale ferito



**

Non osa sollevare i suoi occhi
adesso da lì
dal suo corpo
disteso sul lettino.
Ha dovuto amputare parti di sé
per essere veramente sola.



**

Intanto che lei se ne stava
Come cane da corsa
In attesa dello sparo
L’altro scendeva mogio
Impermeabile blu appeso addosso
Mogio e quieto
Col passo da barone
Titolo nobiliare acquisito
Per via della rigidità degli omeri
E culo contrito.
Saliti in macchina
Alla ricerca di un bidone
Per fare benzina alla mini
Ferma da due giorni
Un meccanico evangelista
Aveva detto che mancava la lenza
E la fumata allora.
Tutta fatica sprecata
Ora lei sentiva solo stanchezza
E dal sedile accanto
Una richiesta silenziosa d’amore
Cupa e silente
Una tragedia greca
Senza tassa di circolazione
Un etto d’erba
Blocchi stradali dappertutto
Per via della retata
Alla banda di Perna.
Che malavita!
La malavita.



**

Nell’indifferenza del traffico
La Venere di Botticelli
Bucando i secoli
È giunta fino a noi
Impressa su una lattina d’olio
Esposta all’autogrill
La prendono i camionisti di passaggio
Prima la pagano.
Poi se la guardano
Come una puttana.



**

Io e la scrittura
andiamo avanti così
da troppi anni
Non troviamo il tempo
Non troviamo il modo
Non ci rispettiamo abbastanza
Non abbiamo il coraggio di rompere
Forse ci amiamo.



**

Scrivere è innaturale
A meno che non si sia gobbi, paralitici
O assolutamente poveri
Scrivere infatti non costa niente.
Per ogni albero abbattuto
Ci sono miliardi di fogli di cartastraccia
Scrivere è un atto
Di assoluta devozione all’albero.



Marisa Righetti si racconta così:
“Sono nata nel 1947. Ho la maturità classica, ho studiato Filosofia a Roma senza  laurearmi. Ho cominciato a scrivere  intorno ai sedici anni: mi piacevano i poeti beat.
Poi non scrissi niente per anni. Mi tenni molto impegnata politicamente, tanto che, a diciott’anni, finii in carcere, dove rimasi per 13 giorni.
Poi venne il primo figlio e la necessità di mantenermi. In quel periodo ho partecipato ad un megaconcorso in banca e l’ho vinto.
Tra lavoro figlio divorzio nuova relazione (una  malattia, come Barthes  definisce l’innamoramento) che finì in tragedia e lutto (il mio compagno è morto a 28 anni con un cancro), la scrittura non mi riguardò se non in chiave terapeutica, scrivevo quaderni di analisi del mio malessere senza mai venire a capo di niente. Per anni. Finì in un bolo isterico che  risolsi licenziandomi dalla banca e mettendo al mondo un altro figlio con un uomo nuovo.
Poi mi sono trasferita a Firenze dove ho vissuto per molti anni. Nel 1995 ho pubblicato Via Aldini,  mentre vivevo in uno stabile occupato; sono venute la Bettarini e Gabriella Maleti, oltre a Giancarlo Cauteruccio di “Kripton”, allora direttore del teatro di Scandicci, anche lui cosentino, sotto una pioggia torrenziale. Via Aldini edizioni Gazebo è del 1995.
Nel 1997 sono ritornata a Cosenza dove per dieci anni sono stata responsabile delle attività culturali del Centro di Informazione Sessuale del Comune di Cosenza. Nel  2001 è uscito per Edizioni Meridionali  Chimica sentimentale, risultato del nuovo matrimonio (mater ed ammonio) e degli studi su sessualità  e l’amore (cancellare dal vocabolario la parola amore). Questo mentre il mio ruolo professionale ed educativo mi imponeva certezze che non possedevo. Su Chimica sentimentale ho provato a dire le cose come in realtà stavano, almeno  per me. Bisognava estrarre come un succo la poesia dalla vita.  E s’è visto: ce n’era poca.
La raccolta Lisa ama il bluesè uscita nel 2005 con la casa editrice autogestita e di cui ho fatto parte, inaugurandone la collana di poesia, Coessenza.  Ho pubblicato diversi racconti e poesie inedite su riviste come  “Salvo Imprevisti”, ora “Area di Broca”, su “Poesia”, “Jnonja”, “ Capoverso”, “Quaderni del poeta”, “Teatro Rendano” etc.
Mi sono riavvicinata alla poesia e alla scrittura negli ultimi quattro anni. Nel frattempo  ho iniziato a praticare seriamente il buddismo, non come religione, ma come fede in una dimensione spirituale  in cui credo e a cui mi affido, con qualche  temporaneo sbandamento e caduta. Sulla mia esperienza di pratica del buddismo ho scritto un  testo ancora inedito: Daimoku. Ho scritto un testo teatrale: Sedare dolerem divinum est che non riesco a finire anche se è finito”.



Père Lachaise antologia. Racconti dalle tombe di Parigi

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Sta per uscire, bilingue italiano e romeno, Père Lachiase. Racconti dalle tombe di Parigi, a cura di Laura Liberale ed edito della casa editrice romena Ratio et Revelatio di Oradea, al confine nord con l’Ungheria.
Scrive Raluca Lazarovici Vereș: “Io e mio marito siamo i titolari  Insieme a una piccola e valorosa squadra con ottime credenziali, abbiamo iniziato la nostra avventura nell’editoria romena ed europea come traduttori (tra l’altro sono la traduttrice ufficiale in romeno di Massimo Carlotto - ho già tradotto Il fuggiasco e Arrivederci amore ciao, pubblicati nel 2009, e nei prossimi mesi tradurrò Cristiani di Allah per Ratio et Revelatio – e di Fabio Geda, del quale ho tradotto Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, pubblicato sempre nel 2009; recentemente ho  tradotto il libro di Enzo Bianchi, Uomini e animali, per Ratio et Revelatio), redattori, curatori, autori. Quello a cui miriamo è, da un lato, il recupero dei valori del classicismo filosofico antico e medievale (specialista mio marito, teologo e filosofo di discreta fama), dall’altro la proposta di una visione della letteratura contemporanea (io sono di formazione contemporaneista, laureata in Lettere a Padova nel 2004 e addottorata in Romanistica all’università di Torino nel 2009) che sia all’altezza del progetto europeo comune – la letteratura non ha frontiere, i valori europei contemporanei sono più simili di quanto i localismi di oggi vorrebbero ammettere.
La nostra idea è questa: libri che appaiano in più paesi europei allo stesso tempo, prodotti editoriali romeno-italiani, romeno-tedeschi, romeno-inglesi, ecc. (sperando poi di rimescolarli grazie ad accordi con distributori, editori locali, agenzie letterarie), che taglino trasversalmente l’Europa. Vorremmo così poter contribuire a contrastare il crollo odierno della fruizione dell’arte in generale e del libro scritto in particolare. Per formazione e passione noi viaggiamo molto e non abbiamo infatti trovato un solo posto nelle grandi capitali/metropoli europee in cui non si senta l’allontanamento innaturale del lettore dal testo scritto, dagli autori, dalle librerie.
Come iniziare? Con un progetto pilota basato su un gruppo di quattro libri a mio avviso emblematici:
1) l’antologia Père Lachaise. Racconti dalle tombe di Parigi, a cura di Laura Liberale (con la partecipazione di 23 autori italiani), tradotta contemporaneamente in romeno. Parigi a Bucarest? Voglio ricordare che la Bucarest interbellica era chiamata dai viaggiatori stranieri “la Parigi dell’est”, oppure “la Piccola Parigi”. I legami della Romania con la Francia sono secolari, si pensi all’alto tasso di francofonia della Romania attuale, agli scambi interculturali,  agli studi alla Sorbonne (io stessa ho conseguito una specializzazione post-laurea in Diritto internazionale all’università parigina nel 2006-2007, e mia sorella è psicologo-psicoterapeuta a Parigi).
2) il romanzo in italiano (con traduzione in romeno) Sottobosco di Simona Castiglione, ottima scrittura sul mondo femminile e sull’immigrazione dalla Romania e Moldova degli ultimi anni. Eccezionale abbattimento degli stereotipi da parte di chi ha vissuto in prima persona l’esperienza della vita e la sorellanza con una colf\ baby sitter moldava romenofona. Per la scrittura del romanzo l’autrice ha viaggiato per  tre mesi in Moldova.
3-4) Due fiabe italo-romene – in edizione bilingue: La favola della piccola ape (testo e illustrazione di Letteria Giufrè Pagano, regista teatrale e artista che tiene numerosi laboratori presso le scuole della Toscana, sposata con un romeno, studioso e traduttore dello storico delle religioni Mircea Eliade per svariate case editrici italiane) e Il Sogno vero, di Laura Boerci (artista poliedrica di grande talento, scrittrice, regista teatrale, pittrice, nonché assessore del proprio comune nei pressi di Milano. Laura Boerci è disabile e le sue opere vengono realizzate esclusivamente con la bocca. Il suo lavoro artistico è da sempre volto alla lotta contro la discriminazione della disabilità e della diversità in genere).
Questi sono i quattro libri che vedranno la luce nella primavera del 2014.
Ci sono poi i nostri libri in romeno, che vorremmo distribuire in Italia per venire incontro alla necessità crescente di un nuovo e numeroso pubblico lettore romenofono.”
Gli autori di Père Lachaise: Francesco Abate, Chiara Baldini, Francesca Bonafini, Claudia Boscolo, Simona Castiglione, Laura m. De Matteis, Caterina Falconi, Loretta Franceschin, Sara Gamberini, Mauro Graiani, Stefano Guglielmin, Riccardo Irrera, Janis Joyce, Paolo Logli, Gianluca Minotti, Gianluca Morozzi, Antonio Paolacci, Andrea Ponso, Paola Ronco, Paolo Zardi, Heman Zed, Giovanna Zulian.

Alessandra Paganardi

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Poetessa milanese, Alessandra Paganardi ha assorbito e fatta propria la linea montaliana, contaminandola con le voci più recenti di molta poesia lombarda, e non solo. Penso per esempio alla verticalità dell’Anedda e alla radice del tempo primo pavesiana, che attraversano La pazienza dell’inverno (puntoacapo, 2013), libro della maturità espressiva, segnato dalla ricerca di una saggezza in grado di cogliere l’assolutezza dell’attimo quale risposta al dolore di cui è intrisa la memoria. La poetica degli oggetti e il loro correlarsi con la malattia del vivere emerge sin dalla prima lirica, lapidaria nell’assertività (“E’ dato il salto – come questo marmo”), colta (“quell’orecchio di Dioniso svuotato / nel venerdì di Pasqua”), capace di intrecciare spazio e memoria (“[…] il tempo che attende / di tagliare i ricordi, di spostarli / via dalla mente in blocco”), usando metafore concrete, disseminate in tutto il libro, che cerca la narrazione allegorica, non con fine didascalico o conflittuale, ma piuttosto emblematico, quale esempio amplificato di un accadimento, di un’esperienza.

Che cosa sia la scrittura poetica, ce lo dice “paratesto”, citando implicitamente Osip Mandel’štam:  “[…] un solco / che si gonfia di terra sempre nuova / una crepa che chiama sotto i piedi”. La Poesia della Paganardi convoca talvolta il tempo abissale, ma spesso evita di perdersi in quell’infinitezza mistica propria del neoromanticismo, riconoscendo che “la traccia è vera ma non è invisibile – è lì nascosta”. E con essa si può cercare un confronto, uno scontro, persino, a partire dall’affermazione di mitezza, di accondiscendenza verso il finito: “Scrivo che anche il tempo / diventa mite se lo lasci sfogare”. Accettare il divenire, raccontarlo nei dettagli, diventando quasi crepuscolare (“Fuori piove. Mi cedono il posto // Non sono fredde le strade del mondo”), ma soprattutto, con piglio nietzscheano, trasformare l’io devo in io voglio sono appunto i compiti, esistenziale e artistico, che la Paganardi s’impone. Propositi che, appunto perché fondati sulla consapevolezza che nulla permane in eterno, non portano con sé il lutto della perdita irreparabile. Ce lo mostra per esempio “Ritaglio V”, nella figura gioiosa del bambino quando guarda staccarsi da sé l’aquilone. Ordinariamente, tuttavia, quando il peso dell’esistenza vince sull’intelletto emancipato, vivere è un andare affannoso, nella misura in cui significa sentirsi in esilio dall’origine; lo ribadisce “Ritaglio I”: “Un giorno, tanto tempo prima, / qualcosa era felice” recita il primo verso; “e noi camminavamo più leggeri / come una fiamma che ritorna al sole”, conclude il distico finale, alludendo forse al ritorno al Padre di cristiana memoria, o dantesca, perlomeno.

La pazienza dell’inverno trova nell’endecasillabo e nel settenario la sua pronuncia preferita, lasciando con ciò intendere il legame della poetessa con tutta la tradizione lirica italiana, che attesta la fiducia nel canto e nei suoi strumenti retorici. Dello stesso parere è Marco Ercolani nella prefazione, quando scrive che “Alessandra Paganardi ha naturale familiarità con il dolore della mente, con la malinconia dell’esistenza, con le virgiliane lacrimae rerum che si addensano su ogni destino, ma sente la sua poesia come arma complessa e potente di salvezza”.

Dalla sezione “Farsi altro”

La cava

È duro il salto – come questo marmo.
Bisogna flettere il calcagno freddo
alla salita, rendere le suole
alla polvere che si fa più scura
nel passo. Appiattire il respiro
alla pietra. Poi l’ultima stanza –
quell’orecchio di Dionisio svuotato
nel venerdì di Pasqua, dadi immensi
allineati come case a schiera.
Non sarà mai acqua
il fiume – è un rumore la voce
impigliata tra fango e sassi.
Ci siamo messi in fila anche noi –
rocce cave per il tempo che attende
di tagliare i ricordi, di spostarli
via dalla mente in blocco, uno su uno.
E tutto ricomincia a farsi altro.


VIII

Esistono parole passeggere
frasi da temporale – un esperanto
alla rovescia. Un verso mai più scritto,
dimenticato. È una menzogna il mito.
Nulla si perde se soltanto smetti
di trattenerlo. Tutto si fa vuoto -
i polmoni, il cassetto, il fiume dopo
la bracciata. Nessun magazzino
contiene mai la gioia.


Dalla sezione “Museo e parola”

I

C’è un horror vacui fin nelle pareti –
non amano l’assenza, non si deve mai
aspettare. Prima un po’ di brutta carta
da parati, quindi l’invasione
barbarica dei quadri.
Questi fiori sembrano tutti veri
- i seni all’erta, ripartiti in due
dal sentiero del cuore. Che la vita
mimi la vita, dove non sa andare
dritta e bella. I vasi alle finestre
paiono finti, covano l’abbraccio
osceno di una bambola di gomma
dicono un’intenzione di cemento
di stare sempre qui, di non morire.

IX

Ma non è chiacchierare con il foglio
fingendoselo amico. È revocare
senza voce la parola sospesa.
Tornare nella stanza ancora chiusa
andare solamente per vedere
per abitarvi mai. Una cura qualunque
non basta, serve all’ora – non al poi.


Dalla sezione “Voci in ombra”

VII

Di quella pietra nel cemento
non è rimasta che un’impronta vuota.
La terra ha una memoria minerale
si riempie quando passa forte il vento
o il piede indelicato del passante
a scalciare la vita
allora il vuoto sente ancora il grave
un diapason che mai nessuno vede –
la cartina si tinge dietro gli occhi
se ritorna il dolore.


Dalla sezione “Ritaglio”

I
Un giorno, tanto tempo prima,
qualcosa era felice.

La venatura perfetta del marmo
il rosa improvviso, il giallo gentile
come se fosse sempre mattina
o una notte di stelle senza male.

Alberi dritti in un cielo impreciso
accoglievano l'aria con le mani
la cattedrale bastava alla piazza
il feltro consolava le sue note
e noi camminavamo più leggeri
come una fiamma che ritorna al sole.


Alessandra Paganardi (Milano, 1963) ha pubblicato, oltre a varie plaquettes, le raccolte di poesie Tempo reale (Novi Ligure 2008), Ospite che verrai (2005), Poesie (Facchin Editore 2002).
Ha pubblicato la raccolta di saggi critici Lo sguardo dello stupore: lettura di cinque poeti contemporanei, (Viennepierre edizioni 2005, finalista al Premio Nabokov 2008).
Dal 2003 sino alla sua chiusura è stata redattrice della rivista “La Mosca di Milano” e collabora con “puntoacapo Editrice”.


Gianmario Lucini

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Con le due chiavi introduttive, una di Maria Zambrano ("bisogna trasformare il male in bene; bisogna estrarre dall'oscurità la luce"), l'altra messa in incipit quale avvertimento "al lettore", in Hybris (CFR, 2014), Gianmario Lucini ci invita a tenere ferma l'attenzione anzitutto sulla cura al/cl malattia del moderno che questo libro si propone di essere. Malattia focalizzata, fra gli altri, dal primo Leopardi, commisurandola all'arido vero della scienza, che vorrebbe farci da stampella una volta perduta la Natura. Quella Natura madre dolcissima, come scrisse Pascoli nella prefazione a Myricae, e che Lucini coniuga con la tensione religiosa e quella civile, sempre fondanti nella sua poetica.

La volontà di chiarezza spinge il Lucini dell'avvertenza a uno stile piano, ma non arrendevole, vicino al Baudelaire dei Fiori quando si rivolge all'''hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère". A governare l'intenzione etica, tuttavia, non è la disperazione romantica del parigino, bensì l'amore verso il prossimo, la fede nella possibilità del contatto messa in opera dalla parola. La poesia diventa così il banchetto comunitario, l'ostia consacrata dal dolore, l'agape che il poeta, staccandosi dal gruppo di poetucoli da studiolo (sui quali sparla nell’ Intermezzo), condivide con "voci di masculi et de foeminae / scollegate dal centro animale", per educarli a ritrovare la luce. Dante pedagogo sta nei paraggi, guida l'allievo, ma non sino a spingerlo a mortificare l'hybris, necessaria alla rivolta dal torpore in cui il capitale ci ha gettato. Marx, tuttavia, viene tenuto a banda nelle sue spinte rivoluzionarie e così uno dei suoi riferimenti, quel Fauerbach che, ne "L'essenza del cristianesimo", sostenne l'identità fra teologia e antropologia. Non che Lucini neghi l'esistenza della materia e nemmeno la fragilità degli uomini, usi a inventarsi degli idoli per sopravvivere all'orrore della morte. Ma una cosa sono gli idola baconiani, un 'altra la verità di fede, l’esistenza di Dio, ucciso dalla presunzione e dalla noia, un Dio diventato "impraticabile" scrive in Nenia, poemetto dedicato a padre David Maria Turoldo, che da sempre accompagna la sua scrittura e lo ispira nel rigore virtuoso contro i mali del mondo.

Basta leggere le prime venti pagine per cogliere tutta la complessità culturale di Lucini: c'è l'amore francescano per il Creato e il suo Creatore, c'è il Pascoli pervaso dall'unità mortale culla-nulla e dall'idea che la poesia si scriva dal ciglio della tomba, e c'è il viaggio dantesco tra le macerie del contemporaneo oltre che la sua propensione al plurilinguismo, qui inteso nella polifonia dei registri ma soprattutto nell'agglutinazione interlinguistica. Su quest'ultimo piano, superata la porta infernale, Lucini non lesina affatto: latino, italiano arcaico, francese, lombardo, tedesco, inglese, entrano in campo con grande abilità d'amalgama fonetica, le lingue moderne con funzione ironica e/o spaesante, le classiche per tirare in gioco la valenza autoriale, la forza di resistenza alla deriva che l'antichità ci ha tramandato.

Nelle due sezioni, dedicate ciascuna a un momento della storia ebraica – L'Exodusdalla cattività egizia, fino al deserto e alle tavole mosaiche, e la figura complessa di David – il plurilinguismo cessa, in favore di un'espressione sublime, degna della materia trattata. La scelta tematica vuole essere fondante: tutto questo travaglio, ci dice il poeta, è stato necessario per "plasmare una folla e farne un popolo", con ciò additando la via eschilea del dolore quale conditio sine qua non alla conoscenza, a un destino di partecipazione che ci tempri e ci avvicini l'uno all'altro. Il monito è all'Italia di oggi, non ancora nazione. In effetti, il nostro Paese trovò soltanto in rari momenti una forte condivisione ideale. Primo fra tutti la Resistenza, poi tradita da una ricostruzione che fece gli interessi di alcuni a discapito dei molti. Del resto, sulle disuguaglianze e le ingiustizie italiche, Lucini editore non ha mai smesso di operare, pubblicando antologie contro le mafie e gli speculatori d'ogni sorta. La sua stessa produzione poetica mette bene in rilievo la tristezza dell'inciviltà italiana. Ricordo, a tal proposito, Sapienzali (puntoacapo, 2010) dove sono presenti sia il mondo offeso contemporaneo con i suoi carnefici e le sue vittime, e sia – come si evince dal titolo – quello biblico, in sintonia con Hybris.

Vadam ad portas inferiè la sezione che apre con maggiore evidenza all'autobiografia, un resoconto sulle cose fatte e da fare, sulla bellezza della natura, sulle persone conosciute e amate, "dentro un tempo del delirio e del silenzio / gridato che divelle ogni certezza / tempo di lenta agonia", che non ci dà scampo. La voce del poeta diventa più intima e cupa, ora che anche "Dio guarda altrove" e in cuore sente che l'inverno durerà millenni prima che un nuovo Cristo ritorni.


La penultima sezione, Il canto della nottola, ribadisce la forza originale del Cristianesimo, contro la violenza del sacro, propria del paganesimo: attraverso il dolore di Prometeo, Aracne, Tantalo, Sisifo e di eroi come Agamennone e Odisseo, Lucini ci racconta l'imperfezione degli dei olimpici, spietati e capricciosi, mentre il finale del libro, di "questo lungo viaggio dentro l'uomo", ci parla dell'Italia come di un "Paese di morti", di corrotti e ruffiani, di scrocconi e lesto anti, una Gomorra insalvabile al quale egli si offre in sacrificio, più come un Orfeo dilaniato dalle baccanti che come un Cristo crocifisso. E come Orfeo fatto a pezzi, anche Lucini non smette di cantare, donandoci, nell'ultimo testo, una parola attraversata da "un sogno", un'ultima speranza incarnata nella poesia, che sappia far rivivere l'innocenza dell'inizio, che mantenga viva la memoria di un'età "quando ancora il tempo era bambino". 

(Stefano Guglielmin, Prefazione a Hybris)


I

Pater filius noster che dentro le stelle riposi
mentre maraviglia ci trastulla
interi orizzonti occupando
e tutti i suoi abitatori et l’amara
scorza della felicità che ancora
dalla forca pende dopo l’ultimo
sterminio al suono di violini e grancasse

noi grati Te laudiamo per l’infinite occasioni d’alberi et colori
et pianure et erbe dal vento mosse e il fantastico
lucore di petali e petali che brillano
e petali e l’infinite iridescenze di messer lo frate sole;
e anco de tutto il ciarpame che c’imbriglia
dentro la tomba del mondo
nostro efebico e gelato,

per lo zirlire di numeri et indici e profitti e per questa
compatta salvezza di ragioni e prospettive,
noi Te santo facciamo al chiarore dell’ultima face,
per onne tempo grati de lo regno tuo et de la tua voluntate
perché ci libereremo dal male un minuto appena
prima di sora morte nostra corporale,
senza poter capire lo spiro di chi
è già defunto e il vagito primiero
del neonato che ne eredita lo spazio

su questa terra

per proclamar Te onnipotente, eterna
ignava nostra
creatura.

*

V

Al quinto dì del tormento già s’allenta il resistere,
già indoviniamo i segni de la disfatta
e de l’etterno sussistere.

Uno dice che necesse metter sé ai ripari,
co-ordinare riparo et salvazione,
confluire al vero duce
angelo o demone purché armato di Kalashnikov.

Un secondo urla rauco da un microfono
con una cert’aria non proprio civile
ma cupo si leva dalla folla un tuono.

(Dunkel!)

Un terzo lo stracula ma in quel momento
inizia a dirotto la piova.
(Sono lacrime di un Dio fuori campo
che mai intervenne nel dibattito).

Si torna a frotte frottole e brandelli
e fatti e strazzi nelle case
con la matura convinzione che qualcosa
come dovrebbe non funzioni,
e nessuno sa dove andare,                 et che cosa parare.

El gira minga, el gira no. Si levano
commentari mediatori,
si addita l’ostracismo nemico da battere, la chiarità
bene supremo und drei
oder vier evidenze di riserva
che nessun paraculo oserìa confutare.

Proprio ora inizia la svaccata delle cinque
e la democrazia per oggi è a salvazione.


***

X

Sono io il luogo dell’inizio
la chiave, l’insonnia, la face
l’èffeta, l’alfa, l’omega,
il fuoco rubato ai primordi

e posso volare più in alto d’ogni osanna
posso creare et creando distruggere
con un semplice gioco di prestigio
barare

aleph
inizio d’ogni bene
al di sopra d’ogni bene
e d’ogni male. L’orrore

mi consacra signore dell’era.

***

Da Exodus

X

Quarant’anni di stenti e di tormenti
per plasmare una folla e farne un popolo,
dal nulla uomini liberi
da un refolo di vento la durezza di una rupe.

Ci volle un Dio, una gente, un condottiero
balbuziente e il suo bastone, un deserto
e tutto fu necessario
ogni passo, ogni voce, ogni comma.


da "David"

III

Sapevo la sagoma lenta del gigante.
Stava lì, piantato fra due eserciti
come un terribile sogno divaricato.
Era l’incubo degli orsi e dei leoni,
era la tormenta
delle grame stagioni nei pascoli d’inverno.

Non mi fu difficile affrontarlo: di lui
conoscevo il digrigno bavoso
e la caverna della voce
conoscevo la sua forza di leone e l’arroganza di orso
cento volte spezzati sulle colline di Bethlem;

Gionata riluttando
non ebbe che questo mio sorriso
da offrirgli in sacrificio, avanti la disfatta.

Ma quando s’infisse il labbro della pietra nell’occipite immenso,
sorsero i nostri guerrieri dal niente
come un’onda immane spazzarono la piana
e la collina riarsa dal terrore.

Per me non fu che un brivido,
il versetto d’un Salmo e questo
mio braccio roteante nell’azzurro il braccio
di un altro, proteso nell’imperio del fulmine
per collocare al suo posto la pietra
levigata dalla pioggia di millenni.

Perché si sappia che nulla
fu lasciato al caso
- uomo, pioggia, pietra -.


da "Nel segno di Qohèlet"

Ciò che è storto non si può raddrizzare
né ciò che manca si potrà contare”:

(abbiamo ucciso dèi per questo, fracassato
teste di pargoli contro le pietre,

siamo impazziti di dolore e l’azzurro
più non ci sorride)

non ritempra più il verde slanci d’amore
chini come schiavi a scontare la vergogna

nella tristezza infinita del paesaggio
ridente della primavera...

Dove c’è molta sapienza c’è molta tristezza
se si aumenta la scienza si aumenta il dolore

ma è tempo, questo, dell’arroganza
prima della disfatta.



da "Vadam ad portas inferi"


Tutti sanno il clan dei Piromalli
e i Pesce padroni della grande Piana1
o i Marcì della Locride, i Morabito
gli Strangio di San Luca, i Pelle, i De Stefano

nomi sussurrati a mezza voce nelle case
di ogni calabrese, o i Crea, i Vottaro,
clan senza onore di ladri e delinquenti
e insieme cognomi che non ebbero mai voce

– cognomi di miti e di bestie feroci
allevate a pane e prepotenza,
cognomi di operai e contadini
cresciuti a pane e deferenza –.

Sono i cognomi della cronaca,
figli devianti di quest’Italia assente
perduta nei suoi ineffabili circenses,
impoetici cognomi, umili, ignobili

– ma la poesia li deve pronunciare.


da "Il canto della nòttola"


Hermes, se lo chiedi mille volte lo ripeto
che il comando è onorare chi ci fa del bene,
ma queste parole sagge e un poco doppie
lascerei volontieri ai tartufoni
che passano il mattino all'incensiere
e di notte insidiano le alcove.

Il mio istinto è sincero e brutale: sono
impostore e violento, uno che
prende quel che vuole fin che gli va bene
senza farsene scrupolo e ammazzo
e insidio le mogli d’altri con la brama
di un animale. Ma non insistere
con la tua frusta morale, Hermes:
non sei così sciocco e sai che lo dico
soltanto per evitare le frustate

– ma tu, che lo sai bene, lo taci,
per dare sfogo al tuo sadismo giustiziere –.

                        (Issione)

da "Ad epilogo"

[...]

Non vale dimetterti se ci sei dentro
non vale neppure indignarsi e urlare
chiedendo in piazza il pane e la vendetta
agli dèi della chiacchiera,

non vale dopo gli anni del silenzio
al torpore di promesse invereconde
non vale abbandonare il carro dei perdenti
per dire “non nel mio nome”, dopo
l’assenso omertoso, il dileggio
per chi ancora osava un pensiero,
per chi pagava l’ignavia del vostro
stolido privato
con il travaglio d’una vita schedata;

voi che avete accettato ogni stortura
col mugugno d’osteria, voi che col voto
avete avvallato ogni ricatto
ogni mafia e illegale potere,
tirando a campare, in attesa
che una briciola cadesse dal desco dei forti
per potervi accapigliare come cani, sgomitare
sognando in cuor vostro vacche grasse,
speranze di spreco al di là di ogni spreco ingozzarvi
di ogni inutile oggetto e strasazi
volere ancora e ancora volere

e poi vomitare sul paesaggio
i vostri immani rifiuti, i veleni;

voi che alimentate l’inflazione e la rapina
della finanza col vostro stesso danaro
voi che corrompete con scarpette e magliette
cibi, bevande, giochi insanguinati
i vostri pupilli – un mondo
d’oggetti che grondano sangue
di Paesi lontani, di donne e bambini
falcidiati dalla vostra rapina –, voi
che amate la durezza del cemento
e spregiate la tenerezza dei marmi antichi,

avete costruito un Paese insopportabile
dal quale si può soltanto evadere.
[...]


1. La zona, in Calabria, è detta “Piana di Gioia Tauro”.

 Qui la mia lettura di Sapienzali e la biografia.

Eleonora Gallitelli: Towards a Global Literature. Verso una letteratura globalizzata

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In esclusiva per Blanc, una sintesi del recentissimo convegno sulla letteratura globalizzata che ci ha regalato Eleonora Gallitelli.

Il 10 aprile, alla Casa della Cultura di Milano, Tim Parks e Edoardo Zuccato hanno presentato il numero 48 della rivista “Testo a Fronte”, dal titolo Towards a Global Literature.Verso una letteratura globalizzata, che raccoglie i contributi dei partecipanti al convegno tenutosi a Milano dal 10 al 12 ottobre 2012 a coronamento di un progetto di ricerca biennale patrocinato dall’università IULM.
Nicola Vitale, che ha coordinato l’incontro, ha parlato, con una metafora ippica, di un “salto dello steccato”: oggi, diversamente dal passato, chi scrive un romanzo spesso pensa già al mercato globale, quindi tende a semplificare lingua e intreccio per facilitare la traduzione, aggirando in tal modo le problematiche messe in campo dalla traduttologia.
Si parte, insomma, dalla percezione di una discontinuità. Alla radice del mutamento, sostiene il romanziere, saggista e traduttore Tim Parks, sta la rottura del legame tra lingua e comunità nazionale che proprio il romanzo aveva contribuito a saldare nel corso dell’Ottocento, per fare spazio all’idea di una comunità internazionale.
Ma come può darsi una comunità senza una lingua comune? A sostegno dell’ideale della world literature intervengono, per esempio, premi internazionali come il Nobel. Tim Parks scorge un’analogia tra la competizione per il più prestigioso premio internazionale e i mondiali di calcio, intravedendo dietro entrambi il perseguimento di un fine comune: la letteratura da una parte, lo sport dall’altra, diventano gli strumenti per rappresentare un nuovo tipo di “comunità immaginata” di proporzioni globali. Mentre, però, nel calcio le regole del gioco sono chiare, nella gara per il Nobel sorge un problema di tipo tecnico: “Come si fa a paragonare una poesia messicana con un romanzo giapponese?”, si chiede Parks. Eppure non c’è dubbio su quale delle due sfide prendiamo maggiormente sul serio.
Certo non tutti i romanzi vengono progettati per l’internazionalizzazione (anche se questo può succedere, come nel noto caso di Kazuo Ishiguro); è indubbio, però, che alcune forme narrative si prestano meglio di altre a essere lanciate sul mercato globale. Pensiamo a romanzi come quelli di Peter Stamm (di cui è presente un contributo nella rivista), straordinariamente inquietanti nella loro semplicità, oppure ai gialli di Camilleri, che offrono al grande pubblico un bozzetto caricaturale di piccole comunità locali, o ancora ai testi del realismo magico, una delle modalità narrative più diffuse del global novel, proprio in virtù del legame puramente schematico ai luoghi e del ricorso a figure stereotipate (si veda il saggio di Fava per la recente reazione del movimento McOndo, in Sudamerica), che lo rendono facilmente consumabile all’estero. In tutti questi casi si tratta di libri che possono essere apprezzati senza avere una conoscenza intima della comunità di riferimento.
L’India è spesso considerata il luogo paradigmatico del “conflitto” tra globale e locale. Basti pensare alla distanza in termini di lettori e di introiti che separa le fiabe postcoloniali di Arundhati Roy e Rushdie, scritte in inglese (parlato dal 5% degli indiani) per spiegare l’India al mondo e inclini a una condanna buonista delle violazioni dei diritti umani, dai bellissimi romanzi in lingua kannada (una delle ventidue lingue nazionali indiane) di Ananthamurthy, molto amati in patria ma di difficile decodificazione per un pubblico occidentale, estraneo alle pratiche culturali o rituali descritte.
Arriviamo così al cuore del problema, la traduzione. Oggi un’opera viene tradotta ancor prima di essere pubblicata nel paese di origine per poter usufruire di un lancio pubblicitario internazionale. Così, in tutti i paesi del globo, nello stesso momento, abbiamo o crediamo di avere lo stesso Harry Potter o lo stesso Stieg Larsson. Sembra verificarsi la previsione formulata da Calvino nel 1965, secondo cui ogni lingua avrebbe sviluppato “un polo di immediata traducibilità nelle altre lingue […] e un polo in cui si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua, intraducibile per eccellenza”.
È qui che la polarità nazionale/internazionale si aggancia alla dialettica tra globale e locale, come osserva Edoardo Zuccato. Da poeta e studioso che ha per lingue di lavoro l’inglese, l’italiano e il dialetto altomilanese, Zuccato è interessato al diverso statuto di queste tre lingue nel mondo contemporaneo. L’inglese, va da sé, è il principale veicolo della letteratura globalizzata. Ma oggi è talmente differenziato, talmente ramificato, che al suo interno si è prodotta una situazione di centro/periferia (si dice che gli scrittori postcoloniali rispondano, write back, alla madrepatria). Se, però, questi autori fanno leva su concetti tipici delle lingue minoritarie, la loro posizione, sfruttata in vari modi, è quella di una minoranza nella maggioranza di lingua inglese.
Che tipo di inglese è quello degli scrittori postcoloniali? La tendenza è duplice. Da un lato, si ha una lingua per lo più semplificata, traducibile; dall’altro, si osserva uno stile riconducibile alla categoria estetica dell’ibrido, molto di moda presso i critici, cioè un inglese arricchito da parole straniere o ricalcato su strutture della lingua del paese da cui proviene l’autore per suggerire appunto la sua origine esotica. Talvolta, trattandosi di autori monolingue anglofoni, non si può neanche parlare di calco, semmai di simulazione di calco; in altri casi, si è di fronte a scrittori bilingue o plurilingue che scrivono in inglese, ma quasi mai ammettono di farlo per avere successo o semplicemente per essere pubblicati. Descrivono le loro opere come delle “traduzioni”, quasi fossero metatesti di un originale non scritto, per cercare di aggirare il problema della traduzione interlinguistica in senso stretto, che rende più difficile per i testi circolare a livello internazionale (le traduzioni coprono appena il 2-3% dei titoli pubblicati in lingua inglese). Queste “traduzioni culturali” – raramente si riflette su questo punto – spesso incontrano una ricezione ostile, o quanto meno poco entusiasta, nei paesi di origine degli scrittori.
Il paradosso è che questo iato tra nazione e narrazione è molto meno sentito nell’epicentro della globalizzazione economica, gli Stati Uniti, dove uno scrittore come Jonathan Franzen può dilungarsi per pagine e pagine entrando sin nei dettagli più minuti, perché in fondo, dice Parks, “sappiamo tutti com’è un soggiorno americano”. Se consideriamo che in Italia il 70% dei titoli pubblicati è coperto dalle traduzioni, che a loro volta nel 75% dei casi provengono da testi anglofoni, l’effetto cumulativo di rafforzamento culturale è evidente.
Per questa ragione, rimarca Zuccato, essere marginali dentro l’inglese è molto diverso dall’esserlo in qualsiasi altra lingua. Tipicamente, lo scrittore “minoritario” vende poco, non trova pubblico. Gli scrittori “periferici” inglesi vivono, al contrario, la condizione schizofrenica di chi sceglie come soggetto dei propri libri la sua comunità di origine, parlandone però con altri, rivolgendosi a un’élite transnazionale che a quel soggetto non è minimamente legata. Gli scrittori realmente “minoritari” (si pensi, per esempio, ai poeti fiamminghi pubblicati in Italia da Mobydick), pur non avendo niente da invidiare ai poeti di lingua inglese, circolano infinitamente meno. Zuccato propone allora un’estensione della ricerca, per vedere in quale misura la globalizzazione tocchi la poesia e il teatro: come non tanto le poesie inglesi quanto le loro traduzioni italiane impattino sulla scrittura dei poeti italiani.
Tra i tanti temi toccati nell’incontro c’è poi la novità delle antologie americane di letteratura mondiale (approfondita nel saggio di Giovannetti), che raccolgono brani da ogni epoca e latitudine - ma sempre in traduzione inglese - senza fornire alcun contesto, dando così l’impressione che non sia necessario “entrare” in una cultura per godere dei suoi frutti. Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura, parla a buon diritto di “disintermediazione”, di rottura dei corpi intermedi, per definire l’orizzontalizzazione che tocca oggi anche, ma non solo, la vita letteraria (si pensi al boom del self-publishing).
Insomma, siamo in un periodo di profondi cambiamenti e, concludono Parks e Zuccato, per quanto, in un primo momento, la situazione possa sembrare sconfortante, esiste un lato positivo: a noi è toccato il privilegio di osservare il nuovo che avanza.



Eleonora  Gallitelli ha conseguito il dottorato  di  ricerca in Letterature comparate presso  l’università  IULM  di  Milano  con  una  tesi  sul  ruolo delle  traduzioni  letterarie  dall’inglese  in  Italia  dal  Risorgimento  alla contemporaneità. 
Lavora come traduttrice di narrativa inglese per Mondadori, Laterza, Sagoma, Internazionale.  Collabora con la rivista di traduttologia “Testo  a  Fronte” dal 2011.

Nadia Agustoni

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L’inquietudine e lo spaesamento, in cui ci colloca la prima poesia de Il mondo nelle cose (Lietocolle, 2013) di Nadia Agustoni, ci dicono la qualità di questo libro, la sua non omologazione ai linguaggi poetici più à la page. Il verso incipitario (“quando c’è chi va nel buio in alto”) spiazza perché l’andare, di solito, è orizzontale, o semmai, essendo nel buio, diretto agli inferi o nei sottoscala della ragione. Qui invece qualcuno o qualcosa, sale, ma non vola, eppure la sua forza muove “seggiole forchette bicchieri”. Mi ricorda (e questo è un pregio) le atmosfere di Ida Travi, il suo adunare i vivi e i morti nello spazio della relazione turbata. L’inquietudine linguistica deriva dall’organizzazione sintattica del discorso, che non obbedisce alla norma, che scarta come farebbe chi non fosse padrone del codice; due esempi estremi: “i vivi siano quello che fa il bene” o “e dentro stare il modo di foglie”, due endecasillabi (il secondo per dialefe tra la quinta e la sesta sillaba), due passaggi di un discorso accidentato che diventa più chiaro, giustificandosi, quando l’autrice presenta i due personaggi protagonisti: Venerdì e Crusoe. La lingua barbara dell’incipit potrebbe invero essere quella di tutti i Venerdì: esseri naturali o migranti in un mondo in cui “gli angeli” sono “uguali alle mosche” e l’orizzonte di senso sta racchiuso tra “i sacchetti dei ristoranti” e “le tavole dove si spolvera”; ma, più profondamente, è la lingua stessa di questo libro, destrutturante, mai pacifica, attraversata dall’emozione e dal pensiero contemporaneamente, ad essere il Venerdì della nostra isola-mondo. Anche Crusoe, del resto – il bianco defoeiano, che tiene in ordine la selva e vorrebbe addomesticare il buon selvaggio  –  qui non è un vincitore, ma patisce la propria sconfitta e l’impossibilità di raccontarla. È la stessa disgrazia che capita all’agrimensore kafkiano nel Castello, segretamente citato dalla Agustoni: l’inettitudine e l’emarginazione pervadono infatti tutto lo spazio del moderno, nella misura in cui meccanismi burocratici di spersonalizzazione riorganizzano il nostro tempo, alienandolo dai ritmi naturali e dalle relazioni: “Nei canali trovava detriti, un abbandono più duro della terra. L’acqua spinge a riva la sua poltiglia”; è questo il ritratto in prosa del soggetto odierno. E in questo, Venerdì e Crusoe si assomigliano. Non stanno agli antipodi dialettici, l’uno tra gli sfruttati e l’altro fra gli sfruttatori, bensì sopravvivono malamente nel tempo della povertà, aggrappati come naufraghi alle cose, a quello che Guido Oldani chiama il realismo terminale dell’occidente.

A legare formalmente i due uomini – similissimi alle maschere beckettiane (Venerdì “faceva una luce più chiara e gli insetti abitavano i vestiti, a volte è un formicaio che le briciole appese alla bocca”) o a Medoet e Wener dell’anniniano Ritratto di un amico paziente– è la coniugazione dei verbi all’imperfetto, a dire di azioni compiute in una stagione non definita e ora non più praticabili: ascoltava, parlava, conosceva, viveva, mostrava eccetera, come a dire che c’è stato un tempo in cui la vita stava a piombo con le coscienze, mentre ora non si può che ricordare, e forse nemmeno quello. Ai due naufraghi silenziosi, raccontati magistralmente attraverso il naufragio della parola poetica, non rimane che tenersi stretto il relitto a cui si sono aggrappati: sia esso il semaforo da dove lavare i vetri o “un futuro di sale d’attesa” dopo inevitabili malattie, circumnavigando mappamondi come già aveva tristemente suggerito Milo De Angelis in una delle sue più belle poesie.

L’ultimo capitolo del libro vede al centro Pasolini, che diventa il nostro stesso corpo martoriato, “Virgilio degli infermi e del bosco”, emblema di una resistenza culturale non ancora sconfitta per quanto i segni del contrario siano leggibili ovunque. Una resistenza non violenta, come Nadia Agustoni ci aveva insegnato ne Il libro degli haiku bianchi (Gazebo Verde, 2007), scrivendo: La preghiera, se c’è una preghiera possibile, è istante vivo: dire la semplicità. Sia o non sia esaudita, rimane un senso. Significa. Anche se dimentichiamo”. La poesia, se non è fare il verso ai maestri, bensì incisione nella propria carne di un destino, aiuta proprio a non dimenticare l’impossibilità del ritorno all’origine, ma anche ad abitare la ferita, dandole un nome.



Da Il mondo nelle cose

quando c’è chi va nel buio in alto
in casa muovono seggiole forchette bicchieri a volte
nei vetri suonano casa sembra pareti sembra coniglio
avere paura fino al prato.  

ci credi la casa un mare
il diluvio dei muri, i minuti
il numero dei morti negli abiti stesi
nell’aria, ci pensi casse leggere
paese rimasto cortili
gente che crede al ciclope
ai mostri alla televisione:
“sono con i musi di allora e foglie piccole
come del mondo dare il pane
il tempo contato nel tempo
ma rimasti a pensarci
come il bene di prima.”
i vivi siamo quello che fa il bene
gli uomini sono tavoli
il mangiare della terra
guardare le rose, capire:
darai essere nato, scavare
inverni, ma rame nelle gambe
salire, così nelle spalle sacco
fare tempo, i polsi
quasi vivi quasi polvere
leggere col dito queste parole
e dentro stare il modo di foglie
andare via:
qualcosa è abitudine qualcosa non sa qualcosa
(nel volto guardare
dopo sappiamo piangere
gli occhi cresciuti
come crescere le piante
in basso le radici
ali sciolte di insetti
staccate presto prestissimo
dalla vita).

la vita è perché i temporali fanno questo spavento
nessuno lo dice

i morti graffiano il vento sulle mani, portano cose
portano giorno prendere viso braccia.


**

venerdì

scavava arance col cucchiaio
e malta nel cortile con dita
sbucciate, dai balconi coglieva
l’odore di terra verde
coi germogli:
la vita era torace e ossa
andavano magri
al controcanto di fabbriche
li prendeva nella schiena
un mare rosso
con foglie di vite e uva nera
li incoronava.



**

seminava aiuole
nell'inverno - un Dante
azteco e gabbiere
al supermarket - 
aggrappato a carrelli
a cassette di frutta
(nei giornali sportivi
metteva consonanti
e l’orologio gli andava come a Lima
o nella Terra del fuoco)
nel parterre di un ipermercato
un contuso Venerdì
tra réclame e luci elettriche
sbircia toilette per cani
e dice “cane” il mondo.



**

era qualcosa nel freddo
il colore della nafta e cisterne
l’agonia dell’aria sui cancelli
-  ma il cuore degli uomini se graziato    
risponde con un mantra di sirene
di fabbriche e vento sporco -
e i camion sulla camionabile
coi clacson cantavano il purgatorio:
“Dante quassù avrebbe sognato
la fissione dell’atomo o Hiroshima”,
e di nuovo autostrade
un valico a nord ovest
con la terra azzurra
il cielo azzurro di Vicchio
e sopra l’Appennino,
nel temporale, quella luce
affrancata dal bene
così limpida.



**

amava la salvia sui terrazzi
il citofono di voci sgraziate
il buio d’afa nella cassetta
delle lettere:

i saluti arrivavano come stendardi
e passati di moda, internet
lasciava schegge più certe.

scriveva barchette di carta, aeroplani,
inventava un mappamondo
pianeti senza divieto.



**

in albergo baciava ragazzi e ragazze
coi polsi rotti e gli ossi che finivano in cima alle dita
quella melodia di prigioni di porte accese
da untori che a lui non bastava a lui
saliva la fame nei denti e sul letto
tra schiena e cuscino amava
nel rosso.



**

crusoe


conosceva la fine come nei muri anneriti
e nel bianco.



**

rimane illuminato

non voleva che qualcosa lo attraversasse, ma stava come una breccia, apriva il mondo. gli occhi dei conigli anche nella morte erano qualcosa come ghiaia, prendevano il piede, mutavano luce nella sera. dopo scambiava le stanze col pensiero delle gabbie, delle siepi della malva dietro i muri quando il buio rimane illuminato. 



**

viveva con alveari e gesti di agrimensore
mostrava - più del sollievo -
un senso del pudore piantato
in giacche blu marina
e insieme il libro delle navi
istruzioni per l’uso del mare
e della terraferma...

con un pallottoliere
ammainò i discorsi - ma è incerto - 
dicevano trasferisse
verbalmente la felicità
ma con barchette di carta traghettava.



**

il mondo nelle cose

il mondo nelle cose fino alle parole. nei canali trovava detriti, un abbandono più duro della terra. l’acqua spinge a riva la sua poltiglia, sembrava che le mani cogliessero un inferno di palcia, un interminabile margine ai margini di un giorno dove vanno sfollati i piedi, dove calza scarpe di gomma, dove il vento insegna la paura. guardava il sole, un agosto di trattori, l’erba dove la statale comincia a prendere tutto, a portare via.



**

in gabbie di conigli sanguinava
e gabbiani volavano
gli coprivano i sogni
conclusa con le pietre l’assenza
si ricredeva sui morti:
saranno nel vento di oggi
o attaccati agli spini
e il silenzio è quel viola delle labbra
il disuso.



**

Corpo Nostro PPP

corpo nostro cielo di guardare
ripeti la fiume pianura ripeti
le dita nel cavo della bocca
metti visceri di cagna all’aria
vita e lingua dove sono vita
e lingua e la cura è cura
del proprio tempo:

sii corpo pensato
sponda del corpo bandiera
straccio della carne che nasce
sventola rinasce e nelle mani
dei morti e dei vivi come
un suolo più grande della morte
Virgilio degli inferni e del bosco:

qui la partita giochi al sole
dei campi romani là era l’attesa
senza cose un fronte di palazzi
bricolage un cemento a fare
cervello come il caglio
di pecore nel collo giovane
a pastura a vento:

vai mulino ai giganti
indossati veste d’arme
scrivi l’infinito dei gesti
quel che cade e si alza
e si alza ancora e sii piazza
vermiglio sonetto sulla luce
bianchissimo giorno:

scrivi come l’ossigeno
e soffione a dire bocca
il campo viene campo
per crescere città là nel fuori
diavolo e sangue fiori di poco
scrivi senza la legge del libro
senza il male:



Nadia Agustoni (1964) ha pubblicato per Gazebo Edizioni i seguenti libri di poesia: Grammatica tempo( 1994), Miss Blues e altre poesie (1995), Icara o dell’aria( 1998), Poesia di corpi e di parole( 2002), Quaderno di San Francisco (2004) e Dettato sulla geometriadegli spazi ( 2006), Il libro degli Haiku bianchi( 2007) . Nel 2009 è uscito per “Le voci della luna” Taccuino nero.
Nel 2011 sono uscitiIl peso di pianura per LietoColle, il Pulcinoelefante Il giorno era lucee la plaquetteLe parole non salvano le paroleper i libri d’arte “Seregn de la memoria”.
Collabora a varie riviste e a blog letterari.  
Attualmente vive e lavora a Bergamo.


Le vie del ritorno. Letteratura, pensiero, caducità

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Sta per uscire il mio nuovo libro, un saggio dal titolo
Le vie del ritorno. Letteratura, pensiero, caducità 
(postfazione di Flavio Ermini, 
Moretti&Vitali, 2014, pp.144, € 15,00)

Scrive, fra l’altro, Flavio Ermini:
“I passi che noi compiamo per inoltrarci nella vita non si rivolgono a un progredire, a un gettarci in avanti. Il nostro progredire cessa con la nascita, quella nascita che darà l’avvio al dolore dell’esilio e che finirà con l’indurci al “ritorno”. Ecco quanto registra questo libro.
Nascita come esilio, dunque; un esilio doloroso e massimamente insicuro. Principio come dolore: tale è l’evento che Stefano Guglielmin tratteggia sotto i nostri occhi.
Alle “vie” del ritorno dall’esilio è dedicato questo libro, non senza qualche avvertenza. A iniziare da quel plurale: “vie”. Con quel plurale l’autore annuncia che non unica è la via che porta al ritorno. Giungendo a precisare, fin dalle prime pagine dell’opera, che “ciascuna via del ritorno è già sempre sviata dalla morte, s-centrata, depotenziata o esaltata, e comunque porta altrove”.
L’avvertenza è chiara: il cammino che ci aspetta è labirintico. E non potrebbe essere altrimenti se, come Guglielmin chiarisce, la destinazione del ritorno non è mai l’indiviso della metafisica, o il principio incausato delle religioni, o una storica età dell’oro.
La terra da raggiungere con il ritorno è sempre una “terra abitabile”: “un’heimat in cui situarsi se non altro da nomadi, da viandanti”, come registra l’autore nel prefiggersi di indagare a questo proposito le vie indicate dall’Orestea di Eschilo, dalle Rimedi Cecco Angiolieri, dalle opere di Diderot, Rousseau e Voltaire, coprendo quasi duemilacinquecento anni di storia e accogliendo alcune delle suggestioni che le tematiche dell’esilio suggeriscono: il tragico, il comico, il politico.”

Indice

PARTE PRIMA Esilio e morte   

Cap. primo: Orestea                                                                           
1.1 Il sacrificio totemico e l’iniziazione efebica                                       
1.2 Esilio e morte nei personaggi dell'Orestea                      

Cap. secondo: Sulla caducità in Cecco Angiolieri   
2.1 Perché proprio l'Angiolieri                                               
2.2 Vergogna e comicità nei ‘sonetti dell’esclusione’          
2.3 La caducità nei ‘sonetti dell’impotenza’                         
2.4 Conclusioni (e nota sulla malinconia angiolieresca)    
  
PARTE SECONDA In altro luogo                                                  

Cap. primo: L'oscillazione ontologica in Diderot                     
1.1 Sulla verità del delirare                                                             
1.2 L’indole oscillatoria di “Moi” e di “Lui”                       
1.3 La bocca d’ombra di Jacques                                            
1.4 I tahitiani e la tecnologia occidentale                                       

Cap. secondo: Sulla temporalità Rousseauiana                                 
2.1 Il cerchio, la retta e la spirale                                           
2.2 Eternità, ripetizione, novità                                             
2.3 Ecce Homo                                                                           
2.4 Sull’altrove geografico: la campagna, l'arcaico               
2.5 La saggezza di Emilio e quella del Santo taoista 

Cap. terzo: L'esserci voltairiano                                                         
3.1 L’altro al quale nessuno assomiglia                                
3.2 Felicità, azione e i piccoli eldoradi                                 
3.3 La Cina di Voltaire                                                            
3.4 Laokium, Fo ou Foé, Saka                                                
3.5 L’uomo è nato per l’azione                                              

Cap. quarto: Caducità e altrove                                                          
4.1 Malattia                                                                              
4.2 Inizi                                                                                     
4.3 Saggezza                                                                            
4.4 Fantasticheria                                                                    
4.5 Confessione                                                                        
4.6 Esotismo                                                                           

POSTFAZIONE                                                                        
L’esilio, il principio, il dolore
di Flavio Ermini
                                                            

Le vie del ritorno (Moretti&Vitali, 2014), l'incipit

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Posto le prime due pagine deLe vie del ritorno, come assaggio...

1.1 Il sacrificio totemico e l’iniziazione efebica

Giuseppe Fornari, nell’introduzione a una miscellanea in onore di René Girard, ci ricorda che arrheton, l’indicibile, è il termine con il quale i Greci alludevano all’atto di fondazione della comunità umana, l’avvio osceno di ogni convivenza pacifica, che trovava la sua forma estrema nel banchetto sacrificale delle società arcaiche.1 Il dilaniamento mitico e, nelle tragedie, il sacrificio della prole da parte dei capi clan (si pensi all’esposizione di Edipo), diventano in questo senso l’unica possibilità che ha la polis per dare una forma simbolica a quell’infanzia della specie, omicida e talvolta antropofagica, cui altrimenti non saprebbe reggere lo sguardo.
   Se davvero tutta la cultura precedente al Cristianesimo fu densamente coinvolta in questo rito ancestrale – sopravvissuto nella sua forma antropofagica nello stesso rituale eucaristico, come sospetta Sigmund Freud in Totem e tabù– non credo sia fuorviante partire da esso per indagare il tema della caducità nell’Orestea,2anche sulla scorta di quanto rilevò il filologo inglese George Thomson verso la fine degli anni Quaranta, ossia che l’ascendenza sacrificale del genere tragico va ricondotta al vivo giogo tribale del totemismo, dominato dalla forza salvifica che il clan riceve grazie ai rituali officiati dal re, maschio dominante.3 E quando, come nell’Orestea, manca il maschio – giacché Egisto, nelle parole sprezzanti di Oreste, “ha cuor di femmina” (Coefore, v. 305) – è Clitemestra a farne le veci, sacrificando Agamennone e Cassandra, che costituiscono, sotto questo profilo, una minaccia venuta da fuori rispetto all’ordine oramai ristabilito e di cui lei si sente somma custode. La regina è femmina particolare anche per Eschilo giacché, sin dapprincipio, le attribuisce una “volontà d’uomo" (Agamennone, v. 11), "una personalità maschile" (ivi, v. 363) anche se talvolta ironicamente negata (ivi, v. 361 e v. 1881; Coefore, vv. 668-9); essa, inoltre, “manca di quel pudore che si addice al suo sesso" (Ag., vv. 618-19, 847, 1372, Coefore, vv. 627-28), pur mantenendo  un “fascino femminile […] irresistibile" (Agamennone, vv. 932-4).4
   Per comprendere la ragione di tale natura, mascolina e seducente insieme, impietosa davanti al cadavere del marito e maternamente tenera nel ricordare la propria figlia immolata, occorre anzitutto riconosce che l’intero agire di Clitemestra è segnato certamente da molti stati d’animo, ma da un’unica virtù, la stessa che contraddistingue Agamennone guerriero e, più tardi, Oreste matricida: l’astuzia. Come infatti Agamennone conquista Troia con l’inganno e Oreste astutamente si traveste da “straniero” per assassinare la madre, così Clitemestra circuisce il pubblico, il corifeo e l’araldo fingendo una calorosa accoglienza al re di Argo: “Devo affrettarmi ad accogliere nel modo migliore il venerabile mio sposo che torna. Per la moglie quale luce è più soave a vedersi che questa, quando al marito, che un dio ha salvato dalla spedizione, apre le porte?” (Agamennone, vv. 600-4). E poco dopo, rivolgendosi al coro e ad Agamennone, appena approdato: “O cittadini qui presenti, venerandi fra gli Argivi, io non avrò ritegno di esprimere dinanzi a voi i miei sentimenti d’amore per lo sposo” (ivi, vv. 855-57).

[...]

1 Giuseppe Fornari, Introduzione (e trad.) a René Girard, La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, Editrice Santi Quaranta, Treviso 1998, p. 20. In effetti, il banchetto sacrificale lo riconosciamo già nella Teogonia di Esiodo, là dove egli, recuperando “miti antichissimi provenienti dall’Oriente” (Bruno Snell, La cultura greca, Einaudi, Torino 1981, p. 79), racconta del modo in cui Urano respingeva nel ventre di Gaia i propri figli, e di Crono, il quale se ne cibava per timore che essi lo spodestassero. Ma al di là dell’omofagia, cui rimanda il mito di Dioniso fanciullo divorato dai Titani, e dello squartamento, rintracciabile nello stesso mito, ma anche in quello egiziano di Osiride, nella leggenda tracia di Orfeo, fino al sacrificio di Penteo, ricordato da Euripide nelle Baccanti, in Asia Minore già esisteva una tradizione in cui il sacrificio dei primogeniti a Moloch o Chemosh aveva valore fondante: si pensi alle culture semitiche occidentali, in particolare a quella dei cananei (cfr. Antico Testamento, in part. I Re XI 7; II Re III 26-27; XVI 3; XXIII 10; Levitico XVIII 21; XX 2 e sgg; Esodo XXII 28-29). D’altro canto, la Beozia non soltanto venne in contatto con queste culture già nel XI sec. a. C., grazie ad alcuni viaggiatori cadmei, che si stabilirono nella terra di Esiodo in seguito a un lungo soggiorno in Palestina, ma praticò essa stessa i sacrifici dei figli, come ricorda la leggenda di Atamante, già nota al tempo di Eschilo (cfr. James George Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1973, vol. I). Da ultimi, non si possono dimenticare sia i  fanciulli ateniesi destinati dalla leggenda a soddisfare la fame del minotauro cretese e sia, sempre in Atene, la tradizione di usare, quali capri espiatori nell’annuale “festa delle Targelie”, due schiavi, lapidandoli “fuori dalle mura” (J. G. Frazer, op. cit., vol. II, p. 893).
2 Userò la traduzione di Raffaele Cantarella (a cura di), Tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide, Mondadori, Milano 1992. A consolidare l’ipotesi d’avvio, contribuisce l’evidenza che, nello stesso albero genealogico di Agamennone, troviamo costantemente il sacrificio di infanti da parte di maschi adulti strettamente imparentati con le vittime. Si pensi a Tantalo, che offrì agli dei il figlio Pelope, per mettere alla prova la loro onniscienza; e ad Atreo, figlio di Pelope (resuscitato per volontà divina), il quale, per vendicarsi del fratello Tieste, gli servì i suoi figli come vivande; e ricordiamo altresì quanto fece quest’ultimo per lavare l’onta: obbedendo all’oracolo, violentò la propria figlia, convinto che il nascituro avrebbe in seguito ucciso Atreo. La figlia invece, scoperto l’incesto, si suicidò. E non si dimentichi, infine, Agamennone, figlio di Atreo e di Aerope (amante di Tieste), il quale sacrificò la propria figlia Ifigenia, avuta con Clitemestra, per ottenere il favore del vento alle navi guerriere dirette a Troia.
3 George Thomson, Eschilo e Atene, trad. it. Laura Fuà, Einaudi, Torino 1949, parti I e III.
4Ivi, p. 349.

Cristina Annino legge Pietro Roversi

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Nota ridotta dell’autore

Nell’estate 2012 ero a Bilbao, nei Paesi Baschi, tra il pubblico di una conferenza;
si discuteva sulla ricerca che ha confermato l’esistenza del Bosone di Higgs. Il relatore introdusse l’idea di un esperimento per capire come sia fatto un oggetto: scagliarlo contro un muro, e poi raccoglierne e studiarne i pezzi. O, ancor meglio, scagliarlo contro un altro oggetto identico: così, dopo lo scontro si troverebbero solo frammenti dell’oggetto, senza  frammenti di muro che ne confonderebbero lo studio. […]
In questo libro, scritto durante il mio soggiorno di un anno a Bilbao, si tentano due esperimenti simili: si scagliano  il presente contro il futuroe la lingua italiana contro altre lingue straniere. I pezzi che risultano da questi scontri non si possono analizzare come i frammenti di materia negli acceleratori di particelle, né apriranno visioni sulla natura dell’Universo. Sono testi che aspirano ad uno spazio minimo, per guardare dal basso al futuro della lingua, o meglio, alle forze unilaterali (e deterioranti) che agiscono nel tempo sulla lingua. Inoltre: la scienza del giorno d’oggi si scontra con le strutture di potere entro le quali opera. A differenza delle due citate prima, questa collisione, nel libro,non fa parte del metodo né dello scopo: piuttosto lo origina lo permea .[…]
Ora, uno studio basato su collisione e successiva raccolta e disamina di frammenti, sia in scienza che in poesia, può generare una certa oscurità: sia perché il metodo presuppone la distruzione delle strutture che studia, sia perché una serie di frammenti rischia di far perdere il senso dell’insieme.[…]


Recensione di Cristina Annino

Per le edizioni di Gattomerlino, Roma, è appena uscito - marzo 2014- il libro di poesie Vamosaver di Pietro Roversi. Nel 2010 lo stesso autore aveva pubblicato con l’editore Puntoacapo (Novi Ligure) la sua raccolta di esordio: Una crisi creativa.

Vamosaverè un libro che consiglierei di leggere a tutti, non solo ai poeti. Libro particolarissimo, divertente,  fuori da ogni genere, che meritava perlomeno il consiglio dell’editore di mettere come introduttiva l’originalissima nota di Roversi, sistemata invece in fondo al volumetto. Sarebbe stata utile per godere meglio questi testi che appunto schizzano su da un esperimento linguistico che non ha nulla da invidiare alla scienza, ma al quale solo uno scienziato poteva pensare.
   Consiglierei la lettura ai poeti di tanta poesia stanca, che ritengono la poesia un travaglio di parole serie, di etimologia, di comprensibile classicità (rispetto per una  tradizione dalla quale escono nudi).Queste parole che ho pronunciato tante volte, qui hanno una consistenza diversa.
Lo consiglierei ai tristi poeti che puntano solo su se stessi e sulle proprie emozioni; lo consiglierei ai poeti cosiddetti comici, per mostrare quanto sia meglio far sorridere che ridere, perché questo è troppo facile e non ci sposta dal sistema di cui è serva,  la risata, a pensarci, è sempre complice, mentre l’autore apre con  semplicità finestre alternative alla “postura” di simili autori.
Roversi solo apparentemente sembra divertirsi, con la  sua musica a volte rap, a volte meno intonata, distratta anch’essa apparentemente, oppure magari si diverte, non conta questo; conta il fatto che comunque ci offre il risultato di come situazioni o persone, possono vivere una vita traslata in poesia dopo che è avvenuto uno  scontro tra un’impostazione tradizionale e ciò che non ha più alcuna ossatura. Attua tale effetto generando un impatto  tra la suaconcezione di linguaggio, e ciò che non è più lingua. Ci fa capire infatti, con una  grazia solida, che anche l’intero vocabolario italiano organizzato in componimenti poetici, ha troppo spesso la caratteristica sfortunata di non “esistere”; che la lingua può continuare a mantenersi viva solo dopo uno schianto contro qualcosa di assolutamente diverso da sé. Diventando qualcos’altro. Che questo potrebbe essere comunque un inizio. Roversi da l’avvio, è come se mostrasse la strada; poi staremo a vedere.
Di questo parla nella nota finale del libro: immagina  di usare quella parte di linguaggio che rimane dopo un esperimento provocatorio anche a fini solo scientifici. Già il pensiero di crederlo possibile, anche metaforizzandolo, da l’idea di una istallazione poetica. Oppure un immaginario happening che ci faccia vedere la nascita del suo metodo attraverso una performance attuata dalla poesia stessa.
Affascinante perché  provocatorio senza eccessi, snodato quanto lo è la musicalità con cui parla, dimostra  che l’arte è infatti il contrario esatto della codificazione, utile solo per i rapporti tra persone nella vita quotidiana, le quali ovviamente possono comunicare con un’intesa anche formalmente logica. A questo forse già molti erano arrivati e da tempo. Significativo e, a mio giudizio, importante è che lui faccia di due metodi un metodo solo. Affermando che nella poesia, come nella musica, pittura, nell’arte insomma, ogni linguaggio  d’uso comune deve spaccarsi contro la barriera di una elaborazione ritenuta decisamente contraria, quella scientifica per esempio, in una collisione che genera  soprattutto diversità espressiva. 
  
   Farei leggere questo libro di Roversi ai poeti sacri, che si impegnano di dare il massimo di dignità a un idioma che loro non sono più capaci di far muovere e non si sono ancora accorti, insisto volutamente, di quanto una sperimentazione totalmente opposta passi attraverso  un’elaborazione molto simile a ciò che dovrebbe definirsi la “poetica” di un autore. Perchè la poesia può contenere tutto, se di poesia vogliamo parlare.
“Il segreto del dogma è averlo giusto,/ quello naturale per esempio, ma/ di rado c’entra il punto chi è  così/ insicuro e vocale. Innaturale, appunto./ Bulli e pure citrulli.” pag. 21

Vamosaverè di facile lettura,  per gli occhi e per la mente di chi vuol accettare sensazioni nuove; resta più duro ricavarne un senso di unità globale. Ma forse a Roversi non interessa la progettualità del libro, interessano più le poesie che hanno, volta a volta, una  risoluzione propria. Per questo potrebbe apparire come  un gioco sperimentale. Ma non dovremmo commettere il facile errore  di definire gioco tout-court ciò che obbliga il lettore a fare un passo avanti o di lato,  che insomma lo invita a spostarsi dal suo luogo fermo. La vitalità del libro è tale che sfugge a ogni termine di contenzione, necessario per i liquidi, ma allergico per i  solidi.

   Il libro è introdotto da un saluto Aupa! e termina con un commiato Agur! in lingua basca. Già questo modo di offrire le sue composizioni, di aprirle  e chiuderle  dentro una diversità linguistica, oltre al sapore  di novità ha quello di movimento scenico. Di divertissement. Niente come il sorriso o lo sberleffo  genera pensieri profondi!
 Il corpo delle poesie è diviso in tre sezioni:  “Discendenti”,  “Vamosaver”, “Caustico incauto”, che credo alluda a quel che resta, quel che possiamo dire. E tra l’altro, possiamo affermare questo, che “I tipi poetici sono tre: fresco, surgelato e in scatola./ Prendere e mangiatene tutti, nessuno escluso, poi direte/di ognuno se credete abbia una data di scadenza e quale/ E qui un certo rischio sia pur con prudenza va preso uguale.” pag. 49

  Anche se rivolgo all’autore una domanda di sfida: quale cioè potrà essere la strada percorribile da questo organismo poetico , considero i suoi testi  un piccolo decalogo sulla scrittura. Perché non danno l’idea di una riflessione sulla poetica propria o altrui, ma  mettono in discussione o alla prova l’ars poetandi in quanto Statuto Letterario. Decalogo fitto di rime, volontariamente: in tal modo la rima si svaluta, cozza contro il muro, si sfracella cascando in terra, si definisce. Pag. 33:” Così arriva/ un’emozione dopo l’altra, olive/ ciliegie, cacio sui maccheroni,/ contrazioni, droga./ Il tutto contro il tempo. Toma!/ oppure, meglio ancora,/ contro un altro orologio, altro/ che muro! L’idioma del futuro!”

Voglio terminare questa breve nota con alcuni versi che sarebbero degni di essere messi in esergo a eventuali poesie altrui, pag 22:
Che se gli altri ci fregano?/ Se alla fine ci rubano/ gli uffici? Com’è dura/ la missione, mai fidarsi, mai fermarsi, segare/ la segatura, filtrare/ anche l’acqua ultrapura!”
Vitalità, cinismo divertito ed esperienza vitale. Qualche sprazzo di malinconia subito presa a calci da quella sua musica quasi non calcolata, messa lì come all’improvviso, e una grande curiosità nel chiedersi se noi fossimo capaci di rifare con le briciole di una collisione qualcosa di nuovo, rendono questo libro, a mio giudizio, un testo che dimostra di saper ricomporre a modo suo le varie parti dell’orologio rotto contro il muro. Facendo però girare al contrario le lancette. Perché questa è la sfida di Roversi pronunciata contro di noi: a che serve rifare nello stesso modo ciò che già esiste?




Sindrome di Adamo

I miti più commoventi
li inventi
sull’infanzia tutta
pomi, pappa e frutta
omogeneizzata e illesa.
Comandata la festa
del Sabato Santo,
al lavoro calpesti, l’attacco
la miglior difesa.
Una pulcina passione ti strapazza
di perduta perdita
(l’unica vera invecchiando
quella del fiato).

Di fatto, gli adoratori di altari,
facendosi gli affari
propri, sempre idolatrano l’altrui
ex-padre Abramo. Quanto all’angoscia
d’asilo, gli strilli,
chi aveva un filo di saggezza
era Eva, colpevole
di tacerlo a chi alleva,
ma non divaghiamo. Stringi stringi,
la vomitevole
spocchia d’angelo cacciato
tra la pazza folla, chi te la leva, io
con la faccia di tolla,
che mi ritrovo?  Che non
recrimino e non approvo?  No.

Un marcio rammarico imperversa.
Un maschio come te è una causa persa.


Repressione

Dice: Cristo era eversivo.
Forse, ma chi fa il catechismo
fa bere ai bimbi detersivo
(molti perché non possono farsi
chierichetti). Confeziona
manicaretti morali magari ma
getta carte di caramella, e preferisce
la Coca Cola alla cannella. Colleziona
cicche false, pontifica, si contraddice,
mi cita Sant’Ignazio non Galileo,
(come dire, preferire
allo spazio un matroneo), vanta
en passant grandi scopate
e non s’avvede che mente
giustificando il cosmo
col ruolo dell’uomo. Fa l’anta
sopraffino, mi lascia
il suo telefonino “Chiama te”.


L’uomo sin más

Incolore, insapore, inodore,
oremus!
Tutto casa potepintxo e chiesa,
senza offesa, ma oggigiorno
più del crocifisso
amo lo stoccafisso,
meno morboso più gustoso,
se anche si deve
togliergli il sale
mettendolo a mollo,
io il mio lo inzuppo
dove so. Además,
dell’uomo sin más
meglio quello con gas,
il peloso del liscio,
dell’acqua distillata
il piscio, lo sgrollo.


Anello, corpo, campo

Aziono il telecomando del teletrasporto:
s’approssima a fiato grosso,
gira, prende ai fianchi, mette la mente
di schiena contro il muro.
Accelera il futuro, poi
rallenta. Di buona lena
mette sotto il presente.
Manomette le leve,
si arrampica, non dà
scampo, si scatena.

Io elenco mentalmente l’alfabeto
da meno A a meno Z: arrivato
a reni senza freni, con un grido
s’impenna, trema. Si quieta.
Dice “Siamo a cavallo”, condivido.
Ridiventa una bestia mansueta.


Semu chiddi ca semu

Scontata dell’età la perentoria
certezza, sta tuttavia sulle spine
della protezione
della prole
in stato di ebbrezza, dove loro
ammiccano e i colori sgorgano
dalla spatola nottambula,
in calzoncini pieni. Una quasi
catastrofe. Salvano per fortuna
pittura scrittura lui me
nell’ordine, sicché ancora
le forze non ci calano.

E a proposito di Montalbano, a mare
siamo troppo pigri per andare,
colpevolmente, di colpe in ogni caso
esistiamo, ancora una volta sul filo
dell’emozione, questa droga gratis
(chi ama dona il proprio corpo,
ma in vita non all’Aido, all’Avis).

Poi si chiacchiera del più e del
meno laido, osservando la tecnica
dei quadri notturni.
Scartando una banale cinema-
tografia, scopriamo
che la vita avuta in sorte
è migliore di quella immaginata,
e che nell’altra eravamo
un cespuglio di spine
nell’Asia Centrale:
il cielo ci sovrastava,
i cavalli brucavano in pace.
Questa serenità proiezionista
non ci convince, però ci accontentiamo.

Certo, un attico pieno di luce
per dipingere, una volta in pensione
non sarebbe male, un ricordo
estremo. E una puntatina
lontano dagli occhi nemmeno,
giusto per il momento in cui vedremo
tutta la nostra vita
passar loro davanti,
reale virtuale e marginale,
in un unico finale,
essere stati chi siamo.


Quattro formaggi

Un fatto accade,
un fattone
si fa. Del resto
se ne fa a meno, di una
buona metà.

Per vostra enorme regola,
ed eccezionalmente,
non si ha scelta, si taglia
roba scelta, stracchino.
Del reale si fa realtà.

Credete a me, che
faccio testo, spaccio
ovvietà.


Tropi-xxx

Lamenta un maldicapo e un poco questo commuove.
Rimane il fatto che la pigrizia deteriora, a prescindere
da quel che s’aspetti, la pietra filosofale o l’ovetto Kinder.
Allora come toccasana gli diamo una buona lavata di capo.


Pietro Roversiè nato nel 1968 a Novara da famiglia emiliana. Cresciuto  tra Carpi e Verona, ha studiato prima per una laurea e poi un per un dottorato in Scienze Chimiche (1987–1997) all’Università Statale di Milano. Nel 1993–1994 ha prestato un anno di servizio civile presso la Cooperativa Lotta contro l’Emarginazione di Sesto San Giovanni (Mi). Durante il dottorato si è trasferito in Inghilterra, a Cambridge (1995–2003) e a Oxford, dove vive e lavora come biologo strutturale presso il Dipartimento di Biochimica dell’Università. È un anarchico tradizionalista, un rivoluzionario conservatore e un iconoclasta benigno.
È coautore di più di 70 articoli in riviste scientifiche internazionali. Nel 2010 ha pubblicato il suo primo libro di poesia, “Una crisi creativa”, presso Puntoacapo (Novi Ligure). Altri suoi testi sono apparsi su riviste in rete/blogs e in varie antologie.



Renata Morresi

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Dei migranti derelitti e relitti, spiaggiati moribondi o morti, o traghettati dall’inferno acquoreo alla terraferma concentrazionaria si è scritta molta poesia nell’ultimo decennio. E necessariamente. Tuttavia non è facile uscire dalla retorica e dal pietismo conformista. C’era riuscito Fabiano Alborghetti, con  L’opposta riva (LietoColle, 2006) – di cui è uscita da poco una nuova edizione per La Vita Felice, con molte poesie ripensate per migliorarne la comunicabilità – e ci e riuscita Renata Morresi con Bagnanti(Giulio Perrone editore, 2013), ma con differente intenzione. Tanto Alborghetti curò l’immedesimazione, il punto di vista dei migranti, preoccupandosi di raggiungere il lettore tramite un’epica sciolta da eccessiva retorica, quanto invece la Morresi agisce sul piano espressivo, usando le parole come fossero tonalità cromatiche, pennellate che non descrivono ma alludono a una scena, la richiamano per intensità, al modo della pittura impressionista, dove conta l’emozione prima che il dettaglio naturale, l’effetto della materia sulla retina, prima che il giudizio analitico sull’evento. Un dire comunque concreto, che resta ancorato alla materia di cui quel naufragio è fatto: ci sono rettili e altre “antiche / genealogie anfibie” in quel paesaggio agostano, mescolate ai quieti bagnanti, a insegne, alla curva del paesaggio lampedusano.

La focalizzazione delle scena nella sua evidenza cronachistica non è immediata, ma quando tutto si fa chiaro ed entra persino un’intervista del Corriere della Sera a due elicotteristi che intervengono nei salvataggi, allora il dramma acquista dimensioni epiche; la stessa poesia, nella sua struttura formale, sembra un corpo martoriato, franto, dove il senso si rompe di continuo per l’enjambement o per lo sfocato (memore forse delle cattedrali monetiane), dietro il quale intuisci forme umane, disumane, elementi d’accumulo, ossi, carte d’identità, il fucsia di una tunica “rotonda / come una medusa”.

Il secondo paragrafo ci porta in un aeroporto, un non-luogo raccontato in presa diretta, nella forma del monologo interiore, con frequenti parole-picchetti che attestano la precisione di ogni gesto, in un’aggettivazione cara a Milo De Angelis: esatte sono le rotelle (del trolley), esatti i negozi, perfetta la volta, dritta la schiena, preciso il saluto. Ma qui, al metafisico deagelisiano, si sostituisce il grottesco, il pasticciaccio gaddiano teso a raccontare un attraversamento-naufragio carico di oggetti, di persone anonime, con le quali stare temporaneamente insieme, temporaneamente separati, in una predisposizione ad “ammazzare il tempo” ingoiando tavor, cazzeggiando, e facendo i turisti in terra egizia, tra odori mestruali e “inguini struscianti / sul nylon delle calze”.

Il contrasto fra le due comunità migranti è radicale; il giudizio della Morresi, implacabile. Eppure lei, come noi, stiamo fra quelli che colonizzano lo spazio godibile, con voli superinquinanti, solamente per stare al passo con i tempi. Con i nostri tempi. E con i nostri spazi. Che vengono raccontati nel terzo capitolo, “Vendesi”, nel quale l’immagine diventa nitida, di un realismo molto quotidiano, direbbe Sanguineti, pieno di dettagli, che tuttavia, anziché rassicurare, spiazzano: ogni poesia è un’immersione nelle tenebre di un appartamento in disuso, in vendita, o abitato da clandestini o da chi ha perduto ogni cognizione di sé. La terra promessa è sott’acqua e nessuno si salva, nemmeno in occidente. Lo sapevamo, ma ribadirlo con registro fotografico eppure distorcente come fa la Morresi, non guasta.

A pag.54 c’è una poesia concreta, “Facciata II”, con “il bianco della finestra aperta” nel mezzo del quadrato e, in quel vuoto, se ci affacciamo, “si vede tutto” ossia il niente che abbiamo edificato, più immondo che utile, e forse, come ricorda la poesia successiva, che non ci sarà perdonato dalle generazioni future.

L’ultimo capitolo di questo viaggio nell’Italia contemporanea ci porta dentro un “freccia bianca” di Trenitalia, e ritorna il samba accelerato di uno spazio in cui le figure entrano ed escono (“maglia blu-raffaello / da pallacanestro / sale // «non prende» // madre messa / in piega mette / mano alla presa / stenta) e così via in un procedere per condensazioni analogiche da “grand vitesse” dove domina il vedere, lo sbirciare, il chiacchiericcio persino sulla velocità stratosferica di certi oggetti extraterrestri, che si muovono “in tondo”, laddove il naufragio della civiltà procede lento, inesorabile e in linea retta. Insomma, questo viaggio su Tenitalia, dove si incontrano personaggi che prendono la valigia al modo del caproniano viaggiatore cerimonioso (“può aiutarmi / con la valigia?”) e stampatelli maiuscoli come il “PUBBLIC TRASPORT” lontano parente del “TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY” della ragazza Carla di Pagliarani, questo viaggio, dicevo, diventa – come in Caproni, ma con maggiore drammaticità – l’allegoria della nostra vita, tutta scorci, tutta frammento ansioso e mai vivibile nella pace di veri bagnanti, ossia in armonia con il paesaggio, con noi stessi e con gli altri.

Quello che in principio sembrava un libro sulla strage mediterranea, sulla deriva dei derelitti africani, si scopre un racconto sulla solitudine, sui tic della globalizzazione, sul vuoto quale interstizio dominante fra poco e poco, quel quasi niente che siamo nella nostra originalità residuale e a rischio d’estinzione. Un libro dal forte impegno etico, dunque, in dialogo con la poetessa newyorkese Rachel Blau DuPlessis, di cui la Morresi ha tradotto Dieci bozze(Vydia editrice, 2012. Premio per la traduzione “Achille Marazza”, 2014) e dei cui Drafts (schizzi, brutte copie) scrive: “Ecco che i Drafts nascono non in fuga dagli eventi storici, né tesi verso miti universalizzanti, né modellati sulla forza esemplare di un io stabile. Al contrario: vogliono stare dentro il vivo e contraddittorio andirivieni della storia nel suo farsi, storia che rischia sempre di sprofondare nell’oblio o di essere requisita dalle logiche proprietarie di pochi forti”. Bagnantisegue la stessa passionale intenzione, la stessa idea cumulativa: per frammenti, per microstorie, usando “una multivocalità che spezzi l’ordine usuale dell’esperienza linguistica”, come scrive la stessa Morresi a proposito della poetessa americana, al fine di tenere viva la presenza del margine, di quanto altrimenti sarebbe rimosso dal tempo accentratore del capitale.



Da “Bagnanti”



essere molti e saline
vive e più mobili
del mare, abitanti
confusi a risalire
all’indietro, ad uno
stile nobile, le antiche
genealogie anfibie


*


fuori l’anno agosto,
preceduto dal lavorio di un secolo
di settimane

la cronaca ufficiale lo annuncia
fino a che non cade, resta

la bouganvilla rossa
intreccia

la stagione totale


*


dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii
vedrebbero popoli morbidi lentissimi
fondersi agli anemoni polipi i tanti
piedi avvinghiati agli scogli
staccarsi, larve sbocciare
in azzurri

dagli astri, gli stessi
continuamente fossili


*


le nostre vite dicembre
sulle isole Pelagie

furono dei pirati
dei Tomasi

feste lente
lingue di lava

pause lunghe un Pleistocene
ciascun erede della casata

sparso alla sua longitudine
se allarga le braccia, se abbraccia

è una cala
entrata naturale

ma come, cosa, chi altri
che l’aria


*


mischiati rettili, bivalvi, i vicini
d’ombrellone o crostacei,
dèi alieni, relitti d'astronavi

in una scorza che è già pelle
abbiamo sciolto insieme

i sangui nelle spugne,
pianto interi regni
folli di molecole


*


è che a forza di pensare all’Italia
siamo diventati un po’ Italia anche noi
mugola da scorza vecchissima
mugola mucosa
ulcerata dalla plastica

c’hanno visti con le altre nelle vasche
a Linosa all’ospedale
cinquanta chili o dieci o due di carapace
(le bambine più bruciate) in cura dalle piaghe
prega per dio non dal mare


*


Da “Vendesi”


Viale Martiri


In distinto condominio anni 60
finiture in buono stato per le scale
nella camera sui muri ombre di mobili
sgomberati da tempo come una sindone
ma la signora che non aveva figli
ha lasciato l’immobile a un Istituto
di Torino che le regalava sempre
il calendario cioè una volta all’anno.


*

Annunci


Dicono tutti rifinito con cura
funzionale servitissimo adiacente
su due livelli su tre livelli su
struttura ristrutturata di recente
ideale per gli amanti degli spazi
originali giardino effetto-subito
sito su ampia visione mozzafiato.
A sé stante. Indipendente. Finito.


*

Agente immobiliare


Oh i tuoi temi, uso eguaglianza restauro
esclamazione, con tutti i presidenti
sulle scale, la veranda, il posto auto,
quel che aderisce e prosegue ché nessuno
facilmente viene a patti con la morte.
Le parti costituenti il corpus casa
nazione, parti belle più parti immonde,
mai assolte dal responso del futuro.


*


Viale Martiri II


Messi in ordine sensazionale verso
ovest sul letto senza guardarsi pronti
a rientrare in funzione bravi peluches
disposti a ricordarsi tutto a portare
sia la lezione schietta dell'esistenza
(qua il contatto, là il lavoro, dio e il di più)
sia la follia del suo rabido guerrare
sfibrarsi sfinire tornare, assenza.


*

Costruzioni Tartari


Il geometra stende bene la pianta
millimetrata della casa, espone
con cura il modellino giallo con alberi
di cartonato verde, il tetto rosso
da progetto e i pupazzetti che sostano
all’ingresso, uno vestito di grigio
uno con la gonna rosa – com’è facile
guardare un colore e vedere il deserto.


Le raccolte di poesia edite di Renata Morresi sono: Cuore comune (peQuod 2010), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (La camera verde, 2013). Recentemente ha vinto il premio Achille Marazza per le prime traduzioni in italiano della poeta americana Rachel Blau DuPlessis, con Dieci Bozze (Vydia 2012). Altre sue traduzioni di DuPlessis sono in Bozza 111: Arte povera (Arcipelago 2013) e EX.IT - Materiali fuori contesto(a cura di M. Giovenale, M. Guatteri, G. Marzaioli, M. Zaffarano, La Colornese 2013). Sue poesie sono in varie riviste e antologie, tra cui: Il Caffè illustrato, Alfabeta2, Trivio, Il nostro Lunedì, Registro di poesia #4 (a cura di G. Alfano, d'if, 2011), Locandine d'artista (a cura di A. Semerano, La camera verde, 2009), Nodo sottile 4 (a cura di V. Biagini e A. Sirotti, Crocetti, 2004) e altrove. Scrive per riviste, cartacee e on-line (Nazione Indiana, punto critico, ecc.). Collabora con l'Università di Macerata.

Vincenzo Ananìa a un anno dalla scomparsa

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Martedì 3 Giugno ore 17 
Casa delle Letterature, Piazza dell' Orologio 3, Roma.
"LE  ALI DI DARWIN"
Un pomeriggio di poesia per ricordare 
Vincenzo Ananìa
Magistrato, poeta, promotore interculturale e 
sognatore d'assalto. A un anno dalla scomparsa.
Con il patrocinio dell' Assessorato alla Cultura di Roma e dell' Assemblea Capitolina.

Intervengono:

Toni Maraini 
Valerio Magrelli 
Elio Pecora 


E i poeti, amici, collaboratori:
Maria Clelia Cardona
 Emilio Coco
 Roberto Pagan
 Maria Cristina Annino
 Stefano Dangelo
Armando Morelli
 Marzia Grillo.

Letture a cura dell' Attrice Barbara Chicchiarelli.
Musiche al Violino diAndrea Ruggiero.
Allestimento Arch.Irene Cuzzaniti - Twentytrees.

Vincenzo Ananìa era un magistrato e poeta che ha lottato sia come uomo di legge che come letterato per proteggere i più deboli.
Con lo stesso spirito con cui si è battuto per le prime leggi a tutela dei lavoratori negli anni '70 e per andare contro la censura spietata dell' Italia bigotta liberando film come "Novecento" di Bertolucci - con la stessa passione si è dedicato alla poesia: non solo scrivendola e facendo ricerca, ma anche promuovendola con uno spirito nobile e appassionato, creando i primi  concorsi di poesia per i detenuti nelle carceri di Italia e di Europa e dirigendo la Rivista Internazionale di Poesia Pagine, dedita a diffondere gratuitamente in Italia e all'estero la poesia lontana dalle accademie: Creola, Dialettale, Magrebina, Sud Americana, Zingara e dell' Est e scoprendo nuovi talenti.

Le sue quattro raccolte di poesia : Nell' Arco (Crocetti Editore, 1992 - Premio Alfonso Gatto), Le Ali di Darwin (Loggia de Lanzi, 1999), Noi (Zone Editrice, 1993) Biblioteca (Zone Editrice, 2007), Cenni dal Caos  ( Editore Passilli 2012 ) raccontano i tumulti dei nostri anni, le ingiustizie e lotte sociali con a volte sfumature più intime e melanconiche,  di una sua personalissima malinconia e autoironia  che il critico letterario Franco Loi definì "una sottile vena di rimpianto, quasi un contrappunto della meraviglia".

Era inoltre un instancabile viaggiatore, non c'è parte del mondo che non abbia attraversato con un cuore sensibile, seguendo un turismo etico e avventuroso..un sognatore d'assalto, i progetti più impossibili li realizzava senza darsi limiti.

Martedì 3 Giugno - nella splendida cornice della Casa delle Letterature di Roma, ricorderemo Vincenzo in tutti i suoi aspetti; con poesie, ricordi, aneddoti e con progetti per il futuro, per proseguire quel suo impegno nobile per promuovere la Poesia - onesto e senza vanità né altri fini che continua ad essere necessario.

Verrà  proposta in tale occasione alle Personalità Politiche istituzionali il progetto " LE ALI DI DARWIN- la poesia del mondo" una biblioteca che contenga tutti i libri di poesia raccolti in anni di ricerca dell' Ananìa , che sarà aperta a tutta la cittadinanza che sia un luogo fisico e ideale per proteggere e diffondere la poesia.
Verrà inoltre  presentato il progetto "Guardandoti guardare" per rilanciare il concorso di poesia per i detenuti ideato da Vincenzo Ananìa.


Sabato 7 giugno, a Merate

Ercolani-Frisa, "Il muro dove volano gli uccelli"

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Il muro dove volano gli uccelli(L’arcolaio, 2013), scritto da Marco Ercolani e Lucetta Frisa, raccoglie le divagazioni dispercettive scritte in quasi vent’anni di curiosa visitazione del mondo pittorico, in cerca di quell’istante originario in cui nulla sta per diventare qualcosa, di quell’essere in fieri che d’improvviso si mette in opera, si gestualizza in uno spazio poi chiamato estetico. il primo saggio, Graffiti, ci dà le coordinate di base, parlando dell’opera quando “non è ancora un regno stabile, una certezza che azzera le ipotesi, ma una potenzialità creativa, uno sconvolgimento del linguaggio che annuncia l’inesprimibile”.

Questo libro, ben curato editorialmente, indaga il mistero della creazione, e quanto questa s’incarni nella biografia; le considera entrambe – creazione e biografia – opere mai pienamente compiute, reciprocamente in dialogo drammatico. Il dipinto o la poesia, c’insegnano Ercolani e Frisa, nascono dal questo conflitto, e quanto più l’opera mantiene il carattere del frammento, della provvisorietà, tanto meglio porta “alla luce il gesto ferino”, che ci appartiene antropologicamente e che la società tenta di addomesticare, incanalandolo nell’agire istituzionalizzato. Per salvare l’animale che parla nell’opera, e per tramandarne l’importanza nell’equilibrio delle forze visibili e invisibili, il libro ci racconta di vite frante, inette nel tenersi in piedi: di Michaux, per esempio, e di Giacometti, Artaud, Nicolas de Staël, suicida per non essere riuscito a realizzare l’opera assoluta, come lo fu simbolicamente Rimbaud, quando smise di scrivere poco più che ventenne.

La prima parte de Il muro dove volano gli uccelli– titolo omaggio agli Oiseaux di Braque e ispirato da una frase di Nicolas de Staël (“Lo spazio pittorico è un muro ma tutti gli uccelli vi volano liberamente”) –  oltre a una splendida disamina della scultura giacomettiana, mossa dalla consapevolezza che la “realtà è il brulichio, l’erosione, i buchi, i pori che si aprono nelle cose e nei volti”, affronta il tema del perturbante nel ritratto e, ancor più, nell’autoritratto, riprendendo (pur senza citarlo) le riflessioni di Emmanuel Lévinas su volto e esteriorità, sviluppate nella terza sezione di Totalità e infinito. Il volto, scrivono Ercolani-Frisa, “è ciò che trapela, come enigma, dalla superficie del viso”. Maestro fu Rembrandt nei suoi autoritratti, il quali, con quelli dipinti da El Greco e dal Goya, “annunciano consapevolmente lo sgretolamento dell’unità rappresentata dal viso dell’uomo; testimoniano i segni di una lotta, la fine di un equilibrio idealizzato”. In fondo, una buona poesia è sempre un autoritratto, nella misura in cui visibile e invisibile, trasparenza e opacità, sono egualmente evidenti eppure mai esauribili in un’interpretazione univoca. Ciò indipendentemente dallo stile. Che tra l’altro in questo libro è preciso, mai ridondante eppure labirintico, nel migliore spirito della saggistica contemporanea.

Nella seconda parte del Muro, troviamo sessantuno brevi “dispercezioni”, che invero, a dispetto del termine, che rinvia ad un vedere distorto, malato, sono una lucida descrizione di altrettante opere di artisti occidentali, pittori, scultori, fotografi, sorta di brevi recensioni dello spazio tensivo, coloristico, emozionale e storiografico, che costituisce l’immaginario contemporaneo, da Giovanni Pisano a Velasquez, da Rothko a Lorenzo Lotto.

L’operazione, pur differente nello stile, si affianca a quella di Marco Furia, che, ne La parola dell’occhio (Edizioni L’Arca Felice, 2012), si misura con la possibilità di dire la pittura, di raccontarla da poeta, tanto da condurci dentro l’opera, quali ospiti graditi. E va ricordato La vita dei dettagli(Donzelli, 2009), di Antonella Anedda, altro viaggio nel mondo del visibile e del frammento, compiuto nel calore bianco della parola poetica. In sintonia con quanto detto finora, e per converso, mi piace ricordare il lavoro di Sergio Marinelli, ordinario di Storia della Critica d’Arte presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, i cui ultimi due libri, La Galleria (I, II, III, 2011-2013, Scripta edizioni) distillano in versi, spesso ironici e sempre eleganti, centinaia di opere pittoriche visitate in tutto il mondo. Se con Furia, Anedda, Ercolani e Frisa, sensibilità poetiche incontrano l’arte visiva, con Marinelli, la teoresi lascia lo spazio al verso, sempre comunque per mettere a fuoco l’immensa via d’uscita dalla crisi dell’occidente, via che l’arte incarna, chiamandoci alla responsabilità della scelta difficile, non convenzionale, a un dire fuori dal gregge, creativo per necessità esistenziale, a un dire eretico, contestativo del dogma, sia questo fondato sull’ottimismo acritico o sul pessimismo catastrofista, altrettanto acritico.



La malattia dell’illuminazione

Gli uccelli di Braque sono molto più pesanti dell'aria, come sono realmente gli uccelli, ma volano meglio di tutti gli altri, perché, come i veri uccelli, 

partono dal suolo,
ridiscendono a nutrirsene
e ripartono in volo.

                                    Francis Ponge

Una irriducibile eresia si propone come potente atto creativo. «Più voi capirete che l’esplosione è tutto, in me, come si apre una finestra, e più capirete che non posso fermarla rifinendo meglio le cose, e più capirete questo più avrete veri argomenti per difendere ciò che faccio (1955)». Così Nicolas de Staël afferma che l’esplodereinfinitodell’atto artistico mai si concilia con la necessità di rifinire i contorni del dipinto. «Io credo all’azzardo, esattamente come voi, con ostinazione costante (1954)».

Così Maria Zambrano descrive il Don Chisciotte di Cervantes: «…ha inventato se stesso. Ha condotto il proprio sogno di libertà tra le realtà. Ma, siccome la realtà non lo ospitava, ha dovuto trasformare la realtà nell’unico modo a lui possibile, sognandola». Le sue parole ci fanno pensare a de Staël, che trasforma la realtà nel sogno appassionato di rappresentarla. «Troppo vicino e troppo lontano dal soggetto, non voglio essere sistematicamente né l’uno né l’altro, e con questo all’ossessione ci tengo, perché senza ossessione non farei nulla, ma l’ossessione del sogno o l’ossessione diretta, non so quale sia la migliore, e poi di fatto me ne frego, visto che questo si equilibra come può, di preferenza senza equilibrio. Il contatto con la tela lo perdo all’istante, lo ritrovo e lo perdo. Bisogna pure che io creda all’accidente, non posso che avanzare di accidente in accidente, fin da quando la sento troppo logica la logica mi snerva e va naturalmente verso l’illogico (1955)».

L’ossessionediretta sembra essere la realtà che i suoi occhi vedono e non possono rimuovere, e l’ossessione del sogno l’interpretazione di questa realtà nei modi luminosi e deformanti della ri-creazione. De Staël non vuole stare vicino al soggetto del quadro ma neppure troppo lontano. Lavorando nel crinale tra forma e non-forma, non soggiace al rigore dell’informale e alla prevedibilità della figurazione. Ha fiducia in una logica totale che, nella sua assolutezza, tende all’illogico. Non avanza per teorie sistematiche ma fa un viaggio irregolare e personale attraverso piccoli accidenti e minime catastrofi, inseguendo i dettagli della sua ossessione nel presente del quadro a cui lavora.

«Sordo, muto, gli occhi che si abbassano ogni giorno a forza di guardare, farò dei quadri come potrò per i dieci anni che vi aspetterete dalle mie mani di pittore (1954)». «Ho ancora bisogno di elevare i miei conflitti a un’altezza unica, non fosse che per presentarli in tutta umiltà, e ciò indica molta familiarità con tutto ciò che traversa il cielo – andirivieni di ombre, luci, composizione fantastica, molto semplice, di elementi (1952)». «Dipingo come posso, e cerco ogni volta di aggiungere qualcosa elevandomi su ciò che mi soffoca. Non sono Jean-Baptiste Corot, non vedo che da lontano, e avere il naso sul quadro mi è impossibile, talvolta c’è troppo schizzo senza schizzo, soprattutto da vicino non c’è nulla, bisogna abituarsi di più a finire senza finire, ma non è facile…(1954)».

Pur volendo familiarizzare con le nuvole, l’occhio del pittore è costretto ad abbassarsi per guardarle meglio, per rifinirne il contorno: il mondo gli appare come un’architettura instabile, turneriana, dissolta da un eccesso di luce. Quella luce interna e vibrante è rappresentabile solo attraverso le cose dipinte, ostacoli e simultaneamente strumenti del suo viaggio interiore: «Si finisce per avere una sensibilità molto prossima alla follia quando si è vicini a quegli invisibili ostacoli che si scelgono sempre quando lo scacco è imminente».

Lo psicoanalista André Green parla di una psicosi rossa, “cruenta”, appassionata, che percepisce il dolore della distruzione, e di una psicosi bianca, atonica, indifferente, che va oltre il dolore di quella distruzione. De Staël sperimenta entrambi gli stati, spesso contemporaneamente, a volte prima uno e poi l’altro. Spalanca gli occhi per fissare la luce che cancella i confini delle cose illuminate. Realista fino alla veggenza, scruta il suo desiderio, eccessivo, di una forma che racchiuda, scorticata, tutte le vibrazioni, tutto il farsi e disfarsi della materia nella luce. «In de Staël la tragedia non si svolge in profondità, ma in una struttura complessa e vertiginosa, come le Carceri piranesiane. Se in van Gogh c’è sprofondamento, e poi dal basso un riaffiorare del colore, in de Staël c’è il crollo, lo scorticarsi sottile della materia come pelle esposta, sfogliata, L’andare al fondo di se stessi è per de Staël toccare una terra – inaccettabile per van Gogh – in cui suicidio e assassinio si equivalgono» (Antonella Anedda).

De Staël muore perché la sua opera è imperfetta. Perché lui, come artista, non realizza mai il quadro che vorrebbe. Muore per mancanza di equilibrio ed eccesso di desiderio. Qualcosa lo spinge sempre oltre, come se scalasse una montagna la cui cima si perde tra le nuvole: «Più si sale, più tutto si complica ed è impossibile, non ho mai abbastanza cielo in montagna».

Quantocielo vorrebbe de Staël? Quanta luce? Non c’è mai abbastanza luce o abbastanza cielo. L’opera è sempre annunciata, ma mai finita. Il pittore fa quello che può, con la luce delle sue forme cancella le forme del mondo visibile, le dissolve, ma non vuole un mondo altro da quello che sente e che vede dentro e davanti a sé.
Lo scacco di de Staël è la luminosa  autorità che lo spinge verso un’opera fedele alla luce che la assorbe e la pervade e l’oscura esitazione che gli fa sentire quella stessa opera come inadeguata. Non c’è corrispondenza fra il possibile, che si realizza, e l’impossibile, che si cerca. Georges Braque, venerato da de Staël, scrive: «Se dovessi cercare di vedere qual è il cammino dei miei quadri, direi che dapprima c’è un lasciarsi impregnare: poi – la parola non mi piace ma si avvicina alla verità – ne segue un’allucinazione, che a sua volta diventa ossessione e per liberarsi dall’ossessione bisogna fare il quadro o si muore».

De Staël, non ha saputo liberarsi del quadro. «Lo spazio pittorico» – scrive – «è un muro ma tutti gli uccelli vi volano liberamente». E ancora, in una lettera al poeta René Char, scrive: «Solo un poeta può mettersi lui stesso ai piedi del muro, peggior nemico e miglior amico di se stesso, e non esitare, semplicemente». Il pittore preferisce morire dentro quel «muro» ben sapendo che non potrà mai vibrare della sua folle utopia: il libero volo di tutti gli uccelli che lo hanno attraversato.

Si potrebbe dire, di Nicolas de Staël, ciò che Bernard Noël afferma di Artaud: «Artaud non scrive e non disegna come si scrive e si disegna: lo fa così eccessivamente e così costantemente che ne consegue un espandersi della vita fisiologica nella grafia che la raccoglie e la registra. È come un getto verbale. Un getto dove si distinguono serie di assonanze che si chiamano, si succedono, si completano».

A Pierre Courthion il pittore scrive: «È troppo facile definire assurdo ciò che essenzialmente è organico, vitale, ciò senza cui non si può vivere, e che forse sarà l’equilibrio di base per tutto ciò che verrà. No, è grave pronunciare una parola come questa, quando il punto più acuto di tutta questa bella storia è un’illuminazione senza precedenti».

La “malattia” del pittore è la ricerca, implacabile, di questa “illuminazione” che gli sfugge. La verità della pittura contemporanea è mostrare il cuore organico delle cose investite dall’aria e dalla luce. De Staël afferma perfino che quell’”assurdo” e quella verità saranno in futuro l’equilibrio dell’arte e del mondo.

Matisse, negli ultimi anni della sua esistenza, dipingeva con gli occhi bendati, benché non fosse cieco; voleva che la mano scorresse fluida sul foglio, guidata dalla matita o dal carboncino, perché lo tormentava essere schiavo del mondo che non avrebbe più visto. De Staël, invece, vivendo la sfida tra vedere e non vedere, considera la sua opera inadatta all’oltre luminoso di cui deve essere segno. Già il suo viaggio in Sicilia, in cui le forme trovavano simultaneamente una visibilità perturbante e un’abbagliata astrazione, è un flebile ricordo. Quadri come Route d’Uzès, Grand nu orange, Port de Marseille, Agrigente, – in cui la densità della materia pittorica si attenua per dare spazio a macchie colorate più ariose, più fluide, – sembrano  un’illusione del passato. L’impulsivo atto finale è imminente: il volo in cui il corpo si solleva, si innalza e, libero dalla vita e dall’opera, si schianta. 


Marco Ercolani nasce a Genova nel 1954. Tra le sue ossessioni il tema dell’apocrifo, il nodo arte/follia, la poesia contemporanea. Narrativa: Col favore delle tenebre, Taccuini di Blok, Vite dettate, Lezioni di eresia, Carte false, Il mese dopo l’ultimo, Taala, Il demone accanto, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa. Poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore. Saggistica: Il tempo di Perseo, L’opera non perfetta, Nottario. Con Lucetta Frisa cura i “Libri dell’Arca” per le Edizioni Joker e pubblica: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci e Il muro dove volano gli uccelli. Ha vinto il Premio Montano, il Premio Morselli e il Premio internazionale per l’aforisma Torino in sintesi. Sua ultima produzione la plaquette Prose buie e l’ebook Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser. Sito web: www.marcoercolani.it

Lucetta Frisa nasce e vive a Genova. Attrice, poeta, traduttrice. Opere poetiche: Modellandosi  voce, La follia dei morti, Notte alta, L’altra, Se fossimo immortali, Ritorno alla spiaggia, L’emozione dell’aria, Sonetti dolenti e balordi. Narrativa: Fiore 2103, Sulle tracce dei cardellini, La torre della luna nera. Ha tradotto opere di H. Michaux, S.J.Perse, A.Borne, B. Noël, P.Quignard, S.Durbec, J.Sacré, C.Esteban. Ha collaborato con i suoi racconti per ragazzi al quotidiano “Avvenire”. Con Marco Ercolani cura i “Libri dell’Arca” per le edizioni Joker e pubblica: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci e Il muro dove volano gli uccelli. Vince nel 2005 il Premio Lerici-Pea per l’inedito e nel 2011 il Premio Astrolabio per l’opera complessiva. Suoi testi sono tradotti in antologie, riviste e libri collettivi. È presente in diversi blog letterari.


Veronica Tinnirello

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Polaroid stile impero (Raffaelli, 2013), di Veronica Tinnirello, è un viaggio nella memoria e nella crisi industriale, raccontato attraverso il filtro della poesia, intesa quale campo di forze tensive, nel quale paesaggio, soggetto e temporalità si danno in una sintesi estrema. Il diritto di essere opaca, la giovane Tinnirello se lo gioca del tutto e con perfezione architettonica, nella quale micro-asimmetrie si ricompongono in una voluta più ampia, che le giustifica, e distillando immagini metaforiche, spesso inesauribili nel loro segreto (“abito l’ingranaggio / e lascio appassire / ai miei piedi / le code piombate / del cecchino”), o perfettamente chiuse nel proprio scrigno (“una cagna dal perimetro / rabbioso ci accorcia”), con grande attenzione all’uso degli aggettivi, non di rado usati in modo originalissimo: “vento pastoso”, “corpo domenicale”, “pelli liturgiche”.
L’ossimoro del titolo, rilevato ma non approfondito da Francesca Serragnoli nella Prefazione, diventa emblema dell’intera opera, ne cuce i due lembi: da un lato la fugacità del presente, l’effimero succedersi degli istanti, degli scatti, dall’altro il desiderio di rifondare l’antichità imperitura, il potere degli uomini sul tempo. Ma è un desiderio che la crisi contemporanea ha spazzato via in Occidente, e se n’è accorta molto bene la poetessa, figlia di operai in una città, Prato, cresciuta intorno al tessile ora in crisi, sostituito dal prêt à porter cinese. Fabbriche dismesse, spazi testimoni di un impero che non tornerà (se non nella sua veste di illegalità diffusa e clandestina), qui raccontate non con piglio realistico bensì, appunto, nella deformazione onirica della lingua poetica, in cui l’identità spaesata e memore di un passato operoso cerca di rifondarsi a partire dagli affetti familiari, recuperati come foto da un baule, e dallo spazio industriale ormai vuoto, come nella poesia “cancelli di perle ruggini pagode”.
La seconda parte del libro ci porta nella Cina moderna, ospiti forse di un funerale. È un breve viaggio in Oriente, con i suoi ideogrammi estetizzanti e custodi di radici arcaiche, dove tuttavia i riti antichi non possono far nulla nei confronti dello squallore moderno: “Gli oracoli non avevano ossa / per predire l’abbaglio indimenticabile”, quello sfruttamento della forza-lavoro già tutto realizzato nella Muraglia, “con i morti dentro / morti sordi che urlano” e ora globale, da Prato a Pechino.
Veronica Tinnirello fotografa per noi una globalizzazione all’insegna delle macerie, ci dice quanto i sogni di dominio imperiale (vedi l’espansionismo napoleonico, cui rinvia lo stile del titolo) cadano appena un sistema va in crisi, quando un equilibrio vacilla. È il messaggio della Ginestra leopardiana, ed è lo scenario in cui ci colloca la poetessa fiorentina, in una commozione trattenuta, asciugata come le pietre ungarettiane, come il bianco e nero dello Schindler’s list di Spielberg, dove una bambina in rosso si consegna al passare, e che riusciamo tristemente a seguire fino allo sterminio, proprio in grazia di quel rosso, filo tessuto anche in Polaroid stile impero, dove rosso è il sangue, la passione, la fortuna e la gioia nella cultura tradizionale cinese, ma anche l’orrore delle persecuzioni maoiste, e rossi – fuori dal libro, ma implicitamente richiamati quali preziosità perdute, forse non per sempre (“il cielo neanche l’acqua / dei santi lo lava via”) – sono i tessuti nelle corti rinascimentali, e rosso è il colore del sacro già nei Fenici, e degli eroi, come testimonia l’Agamennone omerico.
Bene ha fatto dunque Raffaelli a dare fiducia a questa autrice, ora attiva a Bologna nel settore attoriale e radiofonico, con una trasmissione sulla poesia italiana contemporanea molto seguita, intitolata Il Rubino presso Radio Città del Capo. 



da POLAROID STILE IMPERO, Raffaelli Editore



Un corridoio rosso
mi costrinse
a camminare
tutta la vita

il cielo neanche l’acqua
dei santi lo lava via


***

 i lupi appendono le ultime grinze
al buio secco delle gore, alveari miracolosi
col cibo dipinto dietro le facciate

l’operaio incide uno spartito
telaio, casa, cassa e a metà
punta un silenzio che interrompe la linea

gli oracoli non avevano ossa
per predire l’abbaglio indimenticabile


***

è intorno a questa testa
questa vena dipinta
dalle stravaganze di un rossetto
che i fantasmi costruiscono sul marmo
un senso che rovina
si somministra una reggia di vie vuote


***


    : Ofelia dormi?

vedo la tua ombra, martirio miniato taglia 38
difficile metreggiare questa buca sgonfia
la pelle va, un fondale senza incroci e riga
di confine, privo di pensieri al suo sangue

    : non lasciarmi lontana
     da questo mio fondo
     appena accennato

coinvolta nel tuo perimetro rosa
aspetto che il corpo ritrovi
i piedi del suo spirito


***

storce le gambe il nervo cattivo
occupa e incrina tutti i confini verticali
incrina i cavalli, il paese
le criniere si spandono, restano immobili
tracciano migliaia
migliaia di righe bianche addosso
al vento pastoso, le tracce
sono geometria vinta in battaglia
code di sposa in disordine


***

il proiettile preme
sulla bocca, lì dove
il vetro, con il filo nemico
e gli occhi di retro dipinti
s’incrina



INEDITI


sono ore queste spalancate
sull'improvviso mistero umano
le ombre inclinano le forme in tagli
d'ala, incidono il blu dove si divarica
e fa la spaccatura infinita, cosparsa     

l'orizzonte ci prende gli occhi
li traduce in voli
case cose operose operosi volti
tu splendi pacificata sulla linea del mare
e il disastro era ieri


***

le materie intarsiate dei nostri
corpi organizzano pensieri
      - chiudersi in fretta le ferite  
         per non morire mai 
fa freddissimo e non c'è il cielo
i piedi di lana saltellano sul parquet
intontiscono i fantasmi
è giorno di festa e la casa ospita
un seme per sempre riparato, vestito
di nostro sangue lontano


***


i fari spenti dei nostri avi, timidi,
non suggeriscono lo sfogo azzurro di una via
eppure
un'alba scuce bocche
splendenti, si sente dello scavo solo
il silenzio d'amore
sfila via lo scheletro diabetico
della notte
e intorno un collare di cose sante,
senza lacci
come il maculato progetto dei cromosomi
organi, ossa caparbie e traiettorie del tempo
qui restiamo, noi specie, rigenerata
da nessuna parte finiamo
da nessuna parte
finiamo


***

una neve sconsacra il buio
poco fuori città, fa al mondo
un pelo bianco e lontano
con un corpo d'oro dentro
dall'orbita regolare che muove
ogni suo pezzo, imbeve il tappeto
di passi, suoni che fanno solo
una luce chiara sullo schermo
taciturno del cellulare
insistente tra le righe in disordine
del divano

e infinite mani prima e dopo le nostre
avvitate tra loro a dire di non lasciarsi
mai sole, a ripetere l'incanto stanco
sempre umano


***

Tra le inferriate del ventre domestico
si scopre un giro di compasso per aria
il progredire disilluso di un tramonto
è stata una bella giornata - un peccato
bianco sulla scapola di una donna
                    femme metropolitana
seguiamo la scia dei suoi tacchi, eleganza
senza rumore in una terra crudele,
tutte le notti si disegna un sesso diverso

e anche io ti dico: oggi mi dipingi i baffi
domani li hai tu


Veronica Tinnirello  è nata a Firenze nel 1980 e risiede a Bologna. Si è laureata in Scienze umanistiche all’Università La Sapienza di Roma e successivamente diplomata presso la scuola per attori di prosa “Alessandra Galante Garrone” di Bologna diretta da Vittorio Franceschi. Ha pubblicato: La voce che disegna l’orizzonte (Editoria&Spettacolo, 2006); e Gli angeli vanno a dormire presto (Coniglio editore, 2009).



Riccardo Martelli

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Riccardo Martelliè un poeta che non può mancare su Blanc, a partire almeno dall’enigmatico titolo della seconda raccolta: Calamite arimaniche e il senso tattico(Campanotto, 2000), dove il primo aggettivo rinvia al Signore delle Tenebre, che, nell’intendimento steineriano, presiede al compito satanico di indurre l’uomo in tentazione materica, di ancorarlo al basso del tattile. Lo fa tatticamente, per allontanarlo dalla spiritualità luminosa di Dio. Se Steiner ci dice che tutto il moderno è calamitato dalla materia, in bilico sul male, Martelli coniuga la preoccupazione in senso catastro-pop, esibendo un circo di umani teatranti, intenti a distillare il sacro da profane quisquilie, non ultimi i poeti, principini del trapezio. Una messa in scena di Sodoma e Gomorra fatta da “macchinette radunate in una mania elencativa”, cui partecipa lo stesso Martelli, preda di una verbigerazione nevrastenica eppure che rende bene l’idea di che cosa sia diventato il mondo dopo la diluviata secolarizzazione del bene ontologico. Un libro insomma ben collocato nella scia sperimentale di Campanotto e che Alberto Bertoni, nella introduzione, trova addirittura imparentato con i vociani, assidui frequentatori di Bologna, ci dice. In effetti, la prosa lirica vociana, “l’impotenza narrativa” dei vociani, come la definisce Romano Luperini, espressione di una rivolta esistenziale, priva di soluzioni collettive (cfr. Gli esordi del Novecento e l’esperienza della “Voce”, Laterza, 1984), se applicata a Martelli, ci racconta tutta la frustrazione di una generazione, la sua, sconfitta dal capitalismo volgare, massmediaticamente idolatrato nei simboli da basso impero, tra show girls e “drenaggi delle voluttà”.
Il suo ultimo libro, anagraficamente vecchio per l’effimero blogghismo, Oro lustrale(Cierre Grafica, 2009), prosegue il viaggio fra i corpuscoli del reale, con testarda indifferenza al richiamo del verso facile e quotidiano. Il metro si fa tuttavia più irregolare, il respiro non asseconda più la sequenzialità fluviale del circo precedente, ma incespica sul mondo, lo riscrive tramite il prosciugamento dei nessi sintattici, così che ciascuna parola, ancor più delle Calamite arimaniche, diventa uno spazio significante, un tratto tristemente vero che pesa, per quanto non apra mondi né vie d’uscita. L’effetto è questo: “Cornici d’oro di scene campestri sostenute / da gomme masticate”: contorni, appunto, supporti dove manca l’uomo, dove le cose abbondano. Forse siamo nei dintorni del realismo terminale oldaniano, ma credo che Martelli sia giunto a questo crocicchio per vie autonome e probabilmente più drammatiche. L’ironia, infatti, è solforica e “ripartire da postulati comici” è soltanto un intendimento memore del paradiso dei fratelli Marx.
Sullo sfondo di tutto questo, le donne, Michela, Arianna, Nasino rosso, messe in dedica, alle quali il poeta dona quest’inferma budineria contemporanea, “il ronzio delle frasi dello psicodramma collettivo”,  non riuscendo o non volendo scrivere loro parole d’amore. E questo è il punto su cui lo invito a riflettere, ossia sulla funzione che egli attribuisce alla scrittura, a quale radicalità aspiri: se al mimetismo della ghiottoneria mercantile oppure alla prossimità creaturale che in quel bailamme senza luce è ancora possibile istituire, non per consolarci borghesemente, ma per restituire alla parola il peso di una tradizione civile, alternativa alla barbarie contemporanea.


DaCalamite arimariche e il senso tattico

per Michela


i giovani prendono in giro i gestori dei bagni
raccontano le sculettanti della dimora delle ombre virili
bighellonando tra ballerine televisive e show-girls
nella città a piste di go-karts al tempo degli haiku
si rosola la fame un caduceo uscitole dall’occhio
i posters delle ragazze svestite sospendono il mondo

**  
                                                            
D’aloglifi appunti
nonostante pane da spezzettare per usignoli
luci di case su chi rigoverna stracci
devozione comicità sul bisogno di palco
ghirigori dell’intenzione sulla tua campagna apparecchiata
fischiettante insonorizzando il pianto zodiacale
nell’indifferibile lettura di libro inattuata
in asteniche nubi da aggettivare
spagiria di quisquillie per fabbricarsi un mazzo di carte


*

Durante il nitore mattutino un nome sbianca sull’agenda
Ventaglio per un moribondo
Bianchi e neri sassi su un abaco sparpagliati
Una raccolta di more nel giallore
Sgrano filatteri nel traffico
Marce convalescenti in boschi medievali
Ogni due ore uno sfarfallio



Da Oro lustrale
                              ad Arianna
a Michela
a Nasino rosso

I

La via delle sciabole adorna di semafori rossi
attimi dell’imbrunire sorprendono
la donna smaltata oltre gli appuntamenti
musa non musona della tonicità
lagunare zigzagare
testacoda di battute avallano rimpatriate
non esistono tensione e distensione
franto un irritante ottimo doppiaggio
il suo frinire si estende al parco cittadino
Del cinema all’aperto dialoghi sul sonnoveglia
entrano imperativi del ballo dell’estate
catarifrangenti si allontanano dalla notte
la circonvallazione delle prostitute accovacciate
non  termina mai
il pranzo  di cichetti è motivo di decorazione
tutto si archivia in quattro o cinque raccoglitori
in riti di prepensionato del compagno di ventura postcoloniale




II


antiche pergamene false dissepolte
l'aspetto immutato tranne capelli grigi
la scia delle illusioni intrecciate  è segreto
risalgo la colonna sonora
mentre ramifico la tavola genealogica
mi rinvengo in eremitaggi di venti minuti
sono meno irrisorio di te
voci di bimbi e di uccelli
spaziano tra le arborescenze primaverili
affioro dalle increspature d'acqua di piscina
da architetture edificate per reggere
la cottura di cibo e di uomini in vacanza
privo di accortezza e di semplicità
meglio di celebrità
mi dileguo verso lo strazio di un tramonto
sbandando tra faunesse
sopra l' andamento psicoracolare
rombo metà di aereo metà di tuono
assistiti dal comfort e l'inflessione li determina
fondo un pubblico per le mie battute spiritose
al cospetto di cibo luculento ci intendiamo
porzioni di panorami di pensieri
trovate e sottoscritte
nella trasposizione cinematografica
della seconda parte della giornata




III


al sorriso che allumerebbe
il bianco da dove estraggo parole nere
nel recinto di canzoniritornelli           
frequenze e armoniche nei neurocircuiti
emetto  rintocchi distorti di campane
buio si  appoggia sul nasino rosso
devo mettere i margini alla  favola
amministro versi da viaggio
diurna luce deglutisce il volto biondo
effetti femminili sostituiscono
fronde nel vento  passaggi di passeri
velleità non funzionali di entità bioletteraria
che mangia repertori
così vesto e produco endorfine
e brandire contorsioni lascive
nella collusione della collisione
impugnato il volano dell’affanno

                      

IV


apnee e iperventilazioni si succedono
ti credo poltergeist a forma di risucchio
reputandola la donna sortita finalmente assonno
sovrappenso con protesi di saggezza
se insieme cospirassimo nel tempo di una sigaretta
amami da estraneo

nella visione dell’odore
nella brama non gioita
con foschia senza foschia                   
abbraccio che nelle semitenebre si ritrae      
per il mattino della dilatazione delle bellezze
reduce da situazioni infermieristiche            
autocostretto ad autocostruire in fretta




Riccardo Martelliè nato a Bologna nel 1957. Presiede l'associazione culturale "Hermo Nes Troupe". Ha allestito una messa in scena poetico-visiva all'Osteria delle Dame di Bologna nel 1979; scritto testi teatrali, tra cui il testo di uno spettacolo allestito al QBO' di Bologna nel 1986. Insieme al poeta Paolo Badini ed allo scrittore Carlo Maria Milazzo ha scritto i testi per lo spettacolo "Il passaggio degli uomini-giaguaro", con musiche del trio jazz Ermones, realizzato al Naima Club di Forlì, al Castello del Vescovo di Arcetto (RE), al 1° meeting di poesia interdiscplinare a Bologna, al Circolo degli Artisti di Faenza ed in altri locali; in collaborazione, ha scritto anche la sceneggiatura di uno spettacolo di cabaret andato in scena al teatro "Capitolino" di Bologna. Ha pubblicato le raccolte di poesie Della recitazione-La veglia (Ed. Pontenuovo, 1987) e Calamite Arimaniche e il senso tattico (Campanotto Ed., Udine, 2001). Altre poesie e scritti sono apparsi su riviste letterarie.

Annamaria Ferramosca, a Vicenza, martedì 24, ore 20,30

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Martedì 24 giugno, ore 20,30
ANNAMARIA FERRAMOSCA

CICLICA
(La Vita Felice, 2014)

Piccadilly Cafè
Contrà Manin 20
VICENZA

a cura del
Laboratorio di Lettura e Scrittura Poetica di ARTEMIS


Lina Salvi

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Il primo libro che ho letto di Lina Salvi s’intitola Abitare l’imperfetto (La Vita Felice, 2007); si capisce subito che a scriverlo è una persona dotata di talento: nessuna sbavatura dovuta al sentimentalismo, nessuna concessione al prolisso, bensì l’asciutto di uno sguardo lucido e di una parola che abita perfettamente gli spigoli del mondo, che li sa trattenere per un attimo, misurandoli per poi consegnarli al nostro giudizio. Tutto questo non per mettere alla gogna l’esistente, in quanto il sapere sulle cose, ce lo ricorda lei stessa, è “sempre in bilico” perché in bilico – tra l’avvento e la perdita –  è il presente, sommatoria di presenze che vengono dal nulla e là finiscono, troppo rapidamente per essere comprese. La poesia, per l’autrice, serve appunto a fissarle, a dar loro durata, una durata non per forza salvifica; lo ribadisce anche Gabriela Fantato nella introduzione, parlando di questa poesia come di un presagio di estraneità: “Il destino che avverte Salvi è esilio, solitudine e non appartenenza”.

Tale metafisica cognizione trova la sua indole pubblica in Socialità(edizioni d’if, 2007) e poi in Dialogando con C.S. (Edizioni della Meridiana, 2011). Se nel libro d’if, il nucleo è familiare e l’impianto da bildungsroman, nel secondo il conflitto raccontato è quello interno alla polis, in particolare fra gli esseri senza potere e l’autorità. La prima poesia, ne riassume i termini: da un lato i “senza dimora”e, tra questi, il “suonatore / di flauto”; dall’altro il sindaco, “il comandante / dei vigili urbani”, i ricchi negozianti con la merce firmata ossia il potere costituito per ottenere quiete pubblica, sviluppo e profitto. Evitando la facile ideologia, e cercando la pulizia espressiva di Abitare l’imperfetto, la Salvi ci porta a spasso per la Lombardia opulenta e sardanapàla(come direbbe il Foscolo), ma anche nella vita di ufficio, impiegatizia e stereotipata. L’ironia non manca in questi versi, ma non tracima, per lasciare invece alla descrizione il compito primo di raccontare lo sfacelo, senza bisogno di effetti speciali. Il Dialogo con Charles Simic (da cui le iniziali del titolo) è anche stilistico, ma per empatia, non per imitazione, tanto che trovo i due poeti ancora più in sintonia in Abitare imperfetto, libro che ha la capacità di tradurre il reale in allegoria dell’esperienza umana intrisa di caducità, senza mai farsi tentare dal racconto, come invece accade in Socialità e, in misura minore, in Dialogando con C.S., che tuttavia non di rado contiene versi geometricamente sintetici come questi: “[…] Restano / le corse nel Sempione, che buttano / fuori gambe e spalle / una certa asimmetria del volo”.

Di recentissima uscita Lettere dal deserto, una plaquette di otto poesie in 100 esemplari numerati, edita dal circolo culturale Seregn de la Memoria e contenente un’incisione di Federica Giudici. Il tema è il deserto del Wadi Rum, nella Giordania meridionale. Lina Salvi esce dal rumoroso Occidente per tornare alla metafisica attraverso lo spazio inabitabile del deserto, disseminato di esseri residuali: “spore, rami secchi, / gusci scavati, vermi, misere / forme di sopravvivenza”. Le presenze umane sono parte del paesaggio, “uomini senza rifugio”, e lei è un grande occhio, preso nel contempo da incantamento e orrore.


Da Abitare l’imperfetto

Nel quadrilatero delle carceri le case
non hanno geometrie verticali
non hanno torri dipinte d’acciaio
tetti rigonfi di un seme
dune assolate

nel quadrilatero delle carceri
Giovanni giocava
alla prima guerra mondiale

nelle strade si assommavano
bambini a sassate


**

La messa è finita
raccogli dunque il tuo pane
l’epifania del lago, i battelli
battezzati, un nome  solo
a memoria.

La parola non è che
un corpo innaturale
pelle avida di sale.


**

E’ uno strano movimento
del cervello, il  girare a vuoto
nella sagoma  di un coltello,
la solita infiammazione di un nervo,
un fuoco che pervade il cerebrale
lo stare della scrittura su una gamba
sola.


da Dialogando con C.S.– Edizioni della Meridiana, Firenze 2011


Farsi del bene è scrivere
oppure immaginare il marcio
che c’è dentro, benigna indifferenza,
chi si slaccia una scarpa, poi mira l’altro,
per il biglietto una monetina,
qualche centesimo per il piccolino:
siamo a Napoli Centrale
si scende da tutte le parti,
si scende di qua.


**

Da Feltrinelli vado in Duomo
dove sulla porta ci sbaraglia
quella bella foto della Lessing,
già li vedo i miei lettori
far la fila a una cassa,
di certo non per me, portare
sottobraccio gentilmente
quei sacchetti dei bei fratelli, 
dei Prada, e chissà        

se anche gli Alfred o le Emil, tutti
mai lo sapranno, o la stessa Plath 
che per avere il suo bel libro
bisognava andare fino in Inghilterra,
immaginato di indossare orecchini,
blu e neri, orecchini a palla  
occhiali per protezione raggi
doppio zero, zero, cento.


**

Credono di essere il paese,
ma sono fuori dallo Stato,
appiccando il fuoco con viso
coperto, a tradimento, alla baracche
di quei nomadi, che con un euro
comprano tre mattoni
per una casa nel loro paese,
i nostri sono scappati incuranti,
nelle auto ritoccate, i bambini
a decine chiedono notizie  
dei loro compagni, ritornano
ai giochi preferiti, perplessi,
in un’altra storia.


**

Vivo arso l’indiano da mani
italiane, spesse tre dita
come il vetro oltre cui giace
Navtej, la mummia, di cerotti e garze,
ha le dita trafitte dalla flebo
riaprendo piaghe e ferite, gonfiati
i polmoni dalla ventilazione artificiale,
sono tornati a sollevare la cute
con pelle di cadavere:
perché in un paese civile
ci si può curare chiedendo
un prestito per la pelle
all’istituto di credito.



**

Quella notte c’ero anch’io 
il ricordo della Cancelleria,
non tutta bianca non tutta nera
l’unificazione non fu, poi il difficile,
andai alla sauna, alla birra
poi al passaggio di frontiera
due straordinarie cose: un’isola
bella nel Mar Rosso, l’altra
tutta per la Capitale,
mini finestre e quartieri
no-single, ottantasei tipi
di salsicce, la città a misura
d’uomo, la città del muro
inenarrabile battaglia.


**

Dalla sezione “Visioni in prosa”

       Sconfinamenti.
Deragliamenti. Più labili i confini. Non esagerate con la classe, dell’anima fluidità dirompente. Troppo grande arguta la battaglia, nella nebbia la polvere sollevata.  Repertorio, formule d’esistenza. 
Deragliamenti


Da Lettere dal deserto  – N.59 Fiori di Torchio (Seregn de la Memoria)

Del deserto non ho voglia
della sua violenza calma
cavalcate  ai margini del cielo,
nel deserto già ci sono:
ahlan wa salan*,
nel deserto popolato  di uomini   
buie città,  annuvolate,
assediate di ogni specie animale,
alberi con rami tondi,
bocche infuocate.
Della tundra, del polare,
che dico?  Se non quel volteggiare
in aria, terra,  affondare 
il piede in una zolla
del viaggiatore la sua ombra
così lunga, così distante.

(* saluto di benvenuto)


 Lina Salvi è nata a Torre Annunziata (NA) nel 1960. Nel 1982 si trasferisce  in provincia di Lecco, dove vive e lavora. Si è dedicata con una certa assiduità alla poesia, a metà degli anni 90. Ha pubblicato la plaquette: Negarsi ad una stella (Dialogolibri, Olgiate Comasco 2003, con pref. di Giampiero Neri), seguita nel 2007 da Abitare L’imperfetto (La Vita Felice, Milano –  Vincitrice del Premio Donna e Poesia 2007, Finalista Premio Baghetta 2008), Socialità (Edizioni d’if, Napoli – 2007, Finalista al Premio I Miosotis), Dialogando con C.S. (Edizioni della Meridiana, Firenze 2011,  con prefazione di Elio Pecora – Vincitore del Premio Sandro Penna sez. inediti 2010), Lettere dal deserto (Seregn de la memoria, Circolo Cultura, 2014, con un’incisione di Federica Giudici). 


“Traversi” al Piccolo festival della Poesia e delle arti notturne

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Nata dalla passione e dalla competenza di Marco Scarpa
dalla lungimiranza delle Edizioni Prufrock spa 
e dall’accoglienza di Ca’ dei Ricchi, a Treviso, 
che ha ospitato 18 poeti italiani nella prima metà del 2013, 

l’antologia Traversi 
sarà presentata al 
Piccolo festival della Poesia e delle arti notturne 

il 2 luglio, ore 21,30 a Portogruaro. 

Ogni autore – fra questi Cristina Alziati, Gian Mario Villalta e Ida Travi – viene presentato senza tecnicismi da Scarpa, giovane poeta e singolare organizzatore di eventi.
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