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William Stabile

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Nel nuovo numero de Le Voci della Luna (luglio 2013), trovate questa mia lettura di un inedito di William Stabile, sul quale ho già scritto qui

Credo sia utile leggere "Dr. Livingstone, I suppose", parte del libro inedito La Forza degli Schiavi, come se fosse un blues, con i suoi tic tematici (e il suo ripetitivo giro di accordi): l'io che dialoga con Dio, che Gli racconta del lungo viaggio spaesante per conoscere se stesso e il mondo, del perdersi e del trovarsi tra le Sue pieghe, sempre con un leggero senso di colpa, in parte risolta con un'autoironia giocata in punta di lingua. William Stabile, su questa tessitura nera, ricama tuttavia una biografia bianca, dentro una realtà tardo-moderna dove ognuno cura il proprio orticello, e prende il taxi e gioca a sudoku, senza soluzione di continuità. Il procedere versale scarta rapidamente di lato, così che le scene, in questa preghiera infinita agìta dentro un capitalismo crudo, si succedono come le avventure dell'Orlando furioso, che qui, in apertura, si presenta sotto le mentite spoglie del Dr. Livingstone, che a propria volta sembra il doppio di Kurtz nel Cuore di tenebraconradiano. Tutto questo racconto senza rive, plurilingue, potrebbe essere letto come l'allegoria della scrittura, nostra pratica quotidiana dentro le tempeste e gli acquitrini della vita. La citazione di Plinio il Vecchio "Nulla die sine linea", posta verso la fine del canto, serve a ricordarci che il viaggio nella parola non ammette chiari di luna, bensì pretende esercizio costante, che non porta – pare dirci l'autore – in alcun luogo sicuro, ma ci tiene nel mondo, in una vigile presenza. Ed è questa la "nostra rivoluzione" non armata, pacifista.


Dr. Livingstone, I suppose !

“in te ipso redi, in interiore homine habitat veritas”
                           Sant’Agostino Le Confessioni

well
yes I am 
dear Stanley

io che avevo una fissazione
per l’uomo e
mentre ti aspettavo
ho letto la bibbia 4 volte
e mentre leggevo e leggevo
amavo osservare sulle rive
l’umana sofferenza
dentro le disgraziate
capanne negre

che orrore !  Stanley
che orrore !
tutto era profonda
tenebra

finalmente ho
capito

la vita è sempre
un dono
e non va mai
sfidata
(come ho fatto io)
Stanley

non c’è niente di nuovo
-per l’uomo -
sul fronte occidentale
le ragioni della polvere
consumano sempre nelle cose
è tutto sotto il cielo - e sopra
nulla
solo l’amore cambia

oh mio Signore
tu sei tan grande
grazie

ero un parto scagliato
verso un mondo
in un arco una freccia
a cercare una traccia
prima che tu ci fossi 
eravamo già tu ed io
insieme  - Signore
e tu senza saperlo
eri già tutto in me
presente in me
dentro di me
& io attratto
mi allontanavo da te
e costruivo per me
un’architettura di dolori
e tu preparavi per me
opere e missioni
la mia speranza
che gradualmente
diventava parola
con architravi forti
di essenza
ponevo fragili
colonne di pensieri
e così per mia gioia
ripagavo te in una vita
para bellum
mordendo
un odio largo
quanto un lago
del continente nero

oh mio Signore
tu sei tan grande
grazie

io intesi ingenuo
che utilizzando la sinistra
avrei cambiato il mondo
ma tu -Signore -
cambiasti me
mi indicasti la rotta
da funambolo
su soglie di luce
e segni e segnali che scegliesti
tu od io?
e venivi a me
con le tue idee
-le mie-
a partorire immagini
dal profondo ed ora
tutt’intorno
il mondo tuo
mi parla
la lucertola sul caldo asfalto
la bouganvillasul muro
bianco di calce
emettono un senso
di estremo linguaggio
lo sniffare del cane
emaciato  africano
sull’uscio della capanna
l´anello di comprensione
finora mancante
il muso umido
nel concavo del ginocchio

oh mio Signore 
tu sei tan grande
grazie

ti chiedevo (interrogavo)
mi dicesti
when you’re ready
you’ll find it
così   ho attraversato il mondo
e spesso in questo mondo
mi son perso -Signore
cercando  cercando
ma il mondo eri tu
e la mia casa
e nell’economia
dei sensi ritrovai
la rotta del dolore
che cessava
non era compito mio
cambiar(e)mi
mi feci solo da parte
e lasciai che l’alfabeto
s’incagliasse (sedimentasse)
sul fondo mio
di fango

oh mio Signore
tu sei tan grande
grazie

qui radio londra
abbiamo trasmesso
alcuni annunci speciali

the streets of London
are paved with gold
a quei tempi vivevamo
in Gloucester Road
col sole dritto in faccia (fronte)
tutto era ordine e lustro
in UK ognuno curava
il suo orticello
& io non potevo
stare fisso
alla forca delle 7
non volli cedere
alla sconfitta pendolare
della cella del sudoku
ero ricercatore urbano
& africano
non impiegato
del verso capitale

oh mio Signore
tu sei tan grande
grazie

camminavo per le strade
ma stavo
già viaggiando
osservavo le persone
la domenica nei bar
ben vestitepasseggiare
e sapevo 
tutto ciò
non mi appartiene
le case ben arredate
ed ordinate degli amici
in cui non potevo
essere partecipe
-se non a metà -

oh mio Signore
tu sei tan grande
grazie

più che produrre reddito
piacere mio era
produrre idee
e solcare la traccia
per nuovi cammini 
e così decisi:
non attraversai più il viola
del parco della vittoria
monopoli del mondo
nei sentieri cercavo
una sintassi di parole
nei luoghi fluidi
mi compivo
esistevo
-straniero alla mia
stessa terra -
nella favela dell’anima
nella dissenteria spirituale
nei posti dove (de)strutturavi
la mia marginazione

oh mio Signore
tu sei tan grande
grazie

e mi indicavi come
imparare ad essere niente
ed intanto apprendevo
a nutrire la (mia) calma
e tu venivi a me
a salvarmi dalla mens sana
in corporate sano  -Signore-
quando anche dei libri e
della poesia &
delle sporche scarpe di fango
era oramai
l’estremo ennui

oh mio Signore
tu sei tan grande
grazie

la voglia irrefrenabile
di sovvertire l’ordine
a me che neanche
la BBC radio di notte
al buio della stanza
mi acquietava


io che
salendo in auto
salutavo tassisti
prima di pagare
la tariffa
credevo ancora
nell’uomo ma
ancora cosciente che
detengono il potere
a questo mondo
i poster delle ragazze
nude
nelle officine
ed il pianto dei bimbi
nelle tue messe
null’altro Signore

& era “nulla die sine linea”

*
così sull’orlo
di questo letto
inizierò  il mio verso
il più delle volte
ci si nutre di piccole cose
che poi si sommano a fiumi
parole affluenti
ed arriva il tuo verso
-oh Signore-
ad estuario o a delta
preciso o confuso
in tempesta sull’acqua
parola
ciò non importa

oh mio Signore 
tu sei tan grande
grazie

non importa dove scorra
l’alveo
-se rompa gli argini
la traccia-
è solo prendere la
faretra (penna) in mano e
scagliare frecce al cielo
che conta - Signore

oh mio Signore 
tu sei tan grande
grazie

tutto contiene l’uomo
l’oro ed il fango
l’unico dono
è dopo tutto
la forza degli schiavi
di ascoltare
la forza degli schiavi
di rialzare la testa
la forza degli schiavi
di guardare in volto
la bellezza e
solo degli schiavi
di aprire
sempre
le braccia
e sempre
al prossimo
che ti si para
davanti

oh mio Signore 
tu sei tan grande
grazie

perché tutto è
come deve essere
porterò ancora alta
nel vento la bandiera
bianca della nostra rivoluzione


William Stabileè nato a Milano nel 1973. Dal 1998 ha vissuto in Inghilterra dove ha lavorato come giornalista finanziario tra Londra e Milano. Nel 2000 si è imbarcato su una nave in giro per il mondo.  
Ora insegna lingua e cultura italiana a 3.600 mslm a La Paz, Bolivia.
Sui versi sono usciti su varie riviste e siti di poesia italiana e straniera. E’ presente in alcune antologie di poeti italiani contemporanei.
Ha pubblicato una raccolta di poesie con Fara Editore “Contrappunti e Tre Poesie Creole”,2006. 
Ha ricevuto una segnalazione nell’ Antologia del Premio Nazionale Biennale “Cittá di Solofra”.
Un suo contrappunto, in inglese, è inserito nell’ultimo libro del poeta irlandese William Wall
“Ghost Estate”, 2011.
Si riconosce nella frase del poeta salernitano Alfonso Gatto: “Se voi vi domandate perché un poeta scrive, in che modo si è deciso a scrivere [….. ], comprenderete perché la poesia appartenga agli uomini che non si difendono, che passano nella vita, lungo tutta la vita, senza appropriarsene, amandola anche per gli altri che credono di averla spesa o di poterla spendere senza mai riuscire nemmeno a destarla.” 


Matteo Bonsante

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Scritto nell'alveo ispirato di Dismisure, anche Simmetrie (CFR 2013) di Matteo Bonsante sperimenta la parola individuale immersa nella luce dell'universale, confermando che la grammatica della lingua può avvicinarsi, per via "aurorale", alla grammatica dell'essere, alla sua fenomenologia. La poesia metafisica dell'autore pugliese vuole insegnare la postura corretta dell'essere umano prima che questa diventi dover-essere. Come, nel Tao, la virtù soccorre soltanto se la Via è perduta, così egli non ci dice che cosa dovremmo fare per ritrovare pace e armonia, bensì quanto è scritto nel corpo del Cosmo, la "cosa in sé", e che noi dobbiamo conoscere affinché la nostra natura –  celeste e terrestre insieme – realizzi le proprie potenzialità. La poesia serve appunto, ci dice, "a riverberare / l'afflato e l'empito / dell'essere". Come scrivevo a proposito di Dismisure, egli abbraccia alcuni dei più importanti pensatori occidentali e non solo, proponendoci una poesia poco praticata in Italia, proprio nella misura in cui non vuole essere di matrice cattolica e/o mistico-mortificatoria, ma semmai sapienzale, come per esempio lo è quella di Tiziano Salari e dell'ultimo Viviani. A fianco di questa visione pacificata sul reale, convive tuttavia la consapevolezza che tra sapere e saper fare esiste una ferita incolmabile ("Ma perché la ferita/ ancora dissipa ancora separa?"), così come tra essere e essenti: la vita di ciascuno, in altre parole, è in quanto alterità che si è rifondata storicamente, cosi lacerando il legame ombelicale con la madre-tutto. Come accennato all'inizio, Bonsante non ci dice come sanare questo strappo (e come potremmo se non rifondando una teofania o una teocrazia), soltanto ci ammonisce affinché, con l'esercizio spirituale, ci liberiamo dall'io egoista che organizza i nostri rapporti di proprietà per riconquistare l'io profondo, un "infinito e / pur finito io" che si fa accogliere dal tutto, ma senza espropriarsi totalmente, senza appunto raggiungere le vette mortificanti del misticismo medioevale: un conosci te stesso forse di radice francescana come lasciano intendere questi versi: "Ed ecco il cammino, dolce e dolente, dell'uomo: / diventare infinito per condividere / le realtà altre che sono al di là del tempo / e oltre la mente. E, / in simmetria, / ecco l'essere che si distacca da se stesso / e diventa finito — in noi umani — per osservare / con occhi azzurri / il suo stesso esistere nel mondo".


 da Simmetrie (CFR Edizioni, 2013, pref. di Raffaele Urraro)


Sono le cinque e due minuti (ora legale)
di una giornate d’estate.
Fra poco il sole sorgerà e colmerà
la terra
             del suo splendente dono.

– Che sapremo fare oggi, noi umani,
di tanta luce
                            di tanta Gloria?



**



Lo spazio è specchio
in cui risplende il logos.
E si dispiega il mondo.

Nel mondo si rispecchia
l’io
       e traspare  Dio.

L’io sguardo simmetrico e 
viandante
                 della divinità.

E sua sezione aurea.


**


Eppure se la mia radice è eterna
e se posso scrostarla dai detriti
e dalle scorie che vi si sono
tenacemente depositate,
allora la mia vera essenza
           lacosa in sé
non è tra ciò che assiepa questo
nostro mondo
(il più delle volte agitato e stinto),
ma nell’essere, fuori dello spazio
e della mente.

In invisibile beatitudine, e amore.



**



Oh energia-logos che mi hai fatto
uomo e a te mi tieni e a me, legato.
Domani sorgeranno nuovi cieli,
nuovi appagamenti, e nuove seduzioni.
E il mio agio, la mia libertà,
sarà di slegarmi e di compararmi
alle tue leggi e risonanze.
E sarò roccia e sarò canto,
sarò l’umile stella che predicando
sorge all’alba per accompagnare il sole
e scomparire in un buio fulgore, 
mentre
un’ossuta favola si affaccerà 
e forgerà vite novelle.

Tra qui e un batter d’ali,
esserci… e in uno schioccar di dita,
svanire.

Affannata e vigile è la forma dell’io.
                 Il suo incompiuto, spesso
 tragico, simulacro.



**



Il più grande dono è essere nato
                          libero.
Libero di slegarmi da me stesso
e di dissolvermi nella tua impervia
infinità,  
            essenza e scopo del tuo/mio
esistere.

Conoscermi e
                         negarmi
all’inquietudine dei venti e della Storia
che non sanno da dove vengono,
né dove vanno.



**



Senza l'ardire dell'io,
senza il suo fermento, tragico e dolente                    
sulla terra,
senza il suo fluire in simmetria
del logos,
non avremmo mai conosciuto
la vastità del cielo,
né la tenuità delle lontane rive        
dove l’essere e il divenire sono
una stessa forma.
                     Una stessa fonte.  




**



Potranno mai le parole essere tanto
audaci e penetranti
da cogliere il più piccolo soffio
della cosa in sé?

Le parole son fervide di vita e di terra.

Possono descrivere e percorrere
l’intero universo
ma non sporgersi sull’altro volto
delle ore
se non per momenti
                                   scossi, aurorali.
                      
       *

Che si onori e si festeggi l’essere 
in simmetria di canti e di lodi.

Al modo degli uccelli.



**


Se l'essere è infinito e senza forma
anche la verità è infinita e senza volto.
Ed ecco il cammino, dolce e dolente,
dell'uomo:
                   diventare infinito per condividere
le realtà altre che sono al di là del tempo
e oltre la mente. E,
                                in simmetria,
ecco l'essere che si distacca da se stesso
ediventa finito — in noi umani — per osservare
con occhi azzurri
         il suo stesso esistere nel mondo:
un bel tramonto, il ciclo stellato,
una bianca e leggera nevicata
e le tante dissimmetrie che caratterizzano
la terrestrità:
i derelitti, i senzatetto, i sanspapiers,
i messincroce, i senzasperanza, gli
emarginati, gli errabondi, gli alienati,
 i disperati, coloro che non credono,
coloro che non vedono....

Volgiamoci ridentemente all'aura
che ci sostenta e ci sospinge verso
un gran domani.



**


Un lampo nell’ardente vela. Si
intravedono lucori in lontananza.
Esplode il cielo, la misura è alta.
Ciò che mi chiama è luce
                                            e solo luce.

Devo varcare me stesso e sigillare l’ora?
O girarmi indietro e rivedere il mondo?

Non c’è nulla da compiere o completare.
Il ricordo e il pegno cercano nuove labbra. 

Il mio scorrere è certo, acqua di fidata polla.
Estremo arcano annidato nella febbre delle ore,
nel fico d’India, sotto casa. E in me,
                                             nella mia voce.



Matteo Bonsante è nato a Polignano a Mare nel 1935. Vive dal 1976 a Bari, dove ha insegnato nella scuola secondaria superiore. Per la poesia ha pubblicato:

Bilico, poesie, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1986
Ziqqurat, poesie, Centro Stampa 2P, Firenze 1996
Sigizie, poesie, Adriatica Editrice, Bari 1998
Poesie 1954 - 2004 (Bilico, Ziqqurat, Sigizie e le raccolte inedite: Esperidi, Nugelle, Prime poesie), Aliante Edizioni, Polignano a Mare (Bari) 2004 
Iridescenze, un diverso possibile sguardo, poesie, Aliante Edizioni 2007
Dismisure, poesie, Manni, 2010
Simmetrie, CFR, 2013


Fabrizio Pittalis

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Uscito postumo nel 2010 a cura di Marika Bortolami per il ilmiolibro.it, Molto spiacenti, Sir di Fabrizio Pittalis ha trovato ampia ospitalità in rete e sicuro consenso. Le poesie più mature evidenziano grande maestria ritmica e immaginativa oltre che la propensione a ricostruire il mondo con sguardo innamorato e materico insieme, che sa cogliere i particolari ("tutto un mondo in piccoli particolari") nella loro massima luminescenza, esattamente l'attimo prima che dirupino e scompaiano. Forse la malattia e di sicuro la sua grande capacità di osservazione hanno fatto di questo poeta un cantore della luce quando corrode le cose e le fa splendidamente mortali; una voce che stempra il tragico di questa verità con un impagabile senso dell'umorismo e una tenerezza che commuove. Pascoli ci troverebbe lo sguardo del fanciullino, ma di un fanciullino che avesse visitato l'inferno e ne fosse uscito "con il corpo di muschio" e "la testa a sonagli": creatura che mai sarebbe riuscita a confondersi con la piazza e destinata perciò a una solitudine esistenziale, forse amplificata dall'indole consumistica del turismo continentale in Sardegna (a questo proposito si veda la poesia intitolata, in un inglese 'parlato', Sammer on a solitari Ailand).
In un appunto inedito del 2003, Pittalis parla della propria immediatezza punk, "figlia della disperazione portorrese" (a conferma di quanto detto sopra), ma anche della sua passione per le parole, per i loro suoni, e questo fa di lui un poeta del significante, moderno, anche se lui non amava lo sperimentalismo della neoavanguardia, forse perché lo avvertiva come il prodotto di una casta intellettuale, lui che si sentiva invece ancorato alla vita, pur sapendo "che si va per tutto il mondo spettinando un po'": è una brezza la vita, che però asciuga e chiede "falsi / allarmi umoristici" e vie d'uscita in cui sia ancora possibile stare insieme, magari dimenticando "calce viva e piedi sporchi". A questo proposito, di lui si potrebbero usare le parole di Pasolini scritte su "Officina" a proposito di Massimo Ferretti: "Il suo sperimentare non è altro che il suo attaccarsi alla vita".
 La ricerca di una comunità degli animi lo portò a fondare il gruppo "Karpòs", al quale aderirono, fra gli altri, Alessandro Ansuini e Silvia Molesini. Gruppo che fece conoscere per primo le sue poesie e sostenne il progetto del libro, assieme alla Biblioteca Clandestina Errabonda di Parma, che ne curò la grafica, l'elaborazione e l'impaginazione. (citare sito). Quanto fossero importanti gli amici ce lo racconta lui stesso, in un capitolo in cui riprende alcuni loro testi, infilando "alterazioni o semplici mescolanze" così da "figliare" nuovi testi, legati agli originali. "Un giochetto – scrive – che mi sta emozionando un mondo". L'ultima sezione di Molto spiacenti, Sirè un racconto dal richiamo psicoanalitico, Invidia del pene, e dal sapore onirico-sperimentale, che ricorda il Pasto nudodi Borroughs, ma pieno di immagini originali e in linea con il sentire delle poesie. Un racconto che meriterebbe maggiore diffusione e riconoscimento, così come queste poesie, fatte conoscere da suo padre Luigi, con la sua semplicità e pazienza.





Dura Jole

Se in ogni modo tieni duro le parole
e dappertutto cadono i capelli

la punta della lancia te la tieni in tasca
e accechi l'angolo dell'occhio

accechi delicata la mancanza d'alleati
triangoli schiacciati senza voglia

sui tuoi cigli ( così diresti, forse in modo
involontario) strade impraticate

per sorprenderti legarti in basso
per risucchiati a strozzo dentro al tubo dello scolo

Jole - sudandoti ti chiamano le pile
i prati da lavare ad aspettar distesi

il sole lì tutte le sere tutte che s'assolve
l'orizzonte divorando e l'imbrunire pure.

Sai bene ( e ciò ti scuoce ) che si va
per tutto il mondo spettinando un po'.

(09 / 01 / 07)


Irreparabile

Mi portavi alla campagna per
un giorno vuoto
veloce e rustico
proprio quello che ci vuole
hai detto.

Io cercavo
nonostante le promesse di star fermo
e con la testa sopra il collo
nelle pietre un bel canguro
una forma da notare di leopardo

mi sentivo come fossi appena partorito

visto e rivisto

straordinariamente vecchio
dentro agli atomi nell'aria
mi guardavo di nascosto.

Godevamo degli sbuffi degli scherzi entrambi

solitari, belli e cristi
dermatologicamente quasi muti

sulla fronte
non avevi niente altro che una piccola eruzione.

Se non fosse stato per la prosa degli occhi
non saresti mai riuscita a scovarmi.
Me l'avrei forse cavata
col bluastro d'un cielo d'inchiostro
un agire da latte e biscotto
tra i ricordi delle elementari

così romantico

con un paio di stampelle sentimentali
avanzando
tra un quiproquo ripetuto di falsi allarmi umoristici
nascondendo ben dentro il cappotto
il mio corpo di muschio
la mia testa a sonagli
con viso da barbapapà
ed un cuore
che a schiacciarlo fa
piii-pò

( 14 / 03 / 2006)




Annusando certe crepe dell'estate



Non fu fuoco sulla faccia

forse solo terra dura

crivellata

sotto il peso della vita 

dell’“Avanti!” dell’erbetta… 

Dolci visi angeli morti

grossi rospi intermittenti

mai del tutto seppelliti tra i tendaggi

-- tutto un mondo in piccoli particolari --

costole di cani

infiniti lunghi spettri

luminosi di corolle e fiori informi

 incagliati per scurire i tuoi ricordi grano e luce in un colore.

(le due cose stanno sempre insieme)

... 

Per aria al mercato…

Un inferno di grucce e stoffe…

Fruttivendoli poco commossi per il calore dei pomodori…

Passeggiavi…

 E sfocava l’avvinghiarsi sessuato delle voci

pietre grosse troppo leste a sbriciolarsi

se il tuo dito se n’andava alla ricerca di qualcosa che piacesse

se s’apriva luminoso il paradiso in un momento principale

e saltava

luccicante

subitanea si squarciava la città. 

... 

Tutt’ignari dei pericoli i volatili ci sembrarono i più vivi

voli viola a capofitto scuri

volteggiando

negli sforzi delle nuvole e nel sole

e col fuoco del fornello dopo acceso azzurro in quel bel giorno

facevamo le scarpette lungo i fondi delle pentole

dimenticando tutti calce viva e piedi sporchi

l’altrui colore sempre più lucente

denti bianchi sani e forti

e un’altra nota non poco importante

il nostro essere incantata inconsapevolezza

il nostro buon funzionamento umano.

 ...

Dovette piovere molto sul clima indorato di quei giorni

ci muovemmo mosche negli occhi

fessi

caldi dentro ad illuminazioni e soli assenti

decapitati nelle intenzioni delle luci

e alcuni giacevano morti

e un morto canticchiava fra sé e sé.

Non si capiva il vespro

l’accecarsi nella luce attonita

il nero invadente sotto gli ombrelli nel sapore dorato dei corpi

dei sogni rubati ad immaginazione dalle menti degli altri

non s’avvertiva che poco quel sale sugli occhi

la vaga sensazione erotica

di madri felici cullando cullando fagotti di figli inesistenti

ma a noi la materialità non importava

la luce falsa

profeti indossammo del tutto anche noi i nostri occhiali fumé

e ancora nel sole altri corpi

cumuli di mani nel sudore nudo dei petti 

agnizioni squarciate di brevi momenti percossi

i figli dei figli dei figli giocavano ai morti

e un cane canticchiava fra sé e sé.

...

Moriva

da lontano

l’abc sulle lavagne sporche…

Nient’altro che improbabili insettini piccoli 

obbligati dall’invidia dei palazzi

perdemmo in pochi giorni il nostro onore

tra i giochi dei quattro cantoni.

Furono grandi risate come tagliole accecanti

e non ci impressionarono i cazzi puzzolenti dei soldati

le nostre donne bionde di menzogne e pastarelle

in ogni via il trionfo della gioventù splendente 

un peso perdifiato come d’allitterazioni collettive

e se n’andava via la grigia marcia eterna

l’esercito raggiante di uomini stracciati nella polvere

così innescammo ancora e quindi l’emozioni nostre

incinte di coriandoli e bombette.

Scontato un mio compare riteneva fossero soltanto favole

e seguitava a noia l’infinito delle trame e le sue ciarle

e a noi non importava niente

e alcuni giacevano morti

e un morto canticchiava fra sé e sé.

(12 / 06 / 2006)



A dialogar se stesso con cuore incompiuto



(Entra
e in un secondo è solo
senz'annuncio
sguardo assente di contegno)
«La mia giornata non è mai un disastro
la mia giornata è una prospettiva in cui regolarmente svengo
come un televisore interrotto
faccia china sulla tavola imbandita
ronzinando contro i miei mulini a vento
bollicine e vino bianco
orde intere di pollame fatto freddo
calze asciutte come paste
i contrasti di mutande
fuselli che danzano come panini nelle forchette
film bianco
film nero in fondo alla notte
cascate di note su note di sonno
completamente inventate.

Non sono mai stato un esteta
Non sono mai stato un asceta
Ma son tetto di campagna.
Mai stato fiero

(per dirla tutta non me ne vanto....)

Avrei voluto esser cielo d'ossa
per tutto quel che mi riguarda
ma una donna senza polpa non mi ha mai attirato
ho un senso dell'amore decisamente pornografico
mi ritrovo dentro a un letto nel disperdersi del dramma di un sospiro
mi ritrovo dentro a un letto a elemosinare un pezzetto di me stesso
che non sia di secco pane azzimo
non ho mai avuto fretta
d'esser crociato di sangue d'agnello
pieno fino alle orecchie del mio dolermi
bello da tagliarmi il collo
ma del resto sono un bugiardo
sono arbusto disinteressato
schiavo di una prospettiva
fughe di strade le mie catene,
simboli
alberi a dipingere il mondo
serie su serie di
-Torna al tuo posto ! -
-Torna al tuo posto ! –

-Torna al tuo posto ! -

Atomi fin dentro il naso.....

La pazzia
è del resto rimasta fino ad oggi un'utopia
probabilmente morta
nella luce trasversale d'uno sguardo
tutto è stato già detto come taciuto

la mia giornata è naturale scontentezza delle cose appena nate
naturale istinto di rifugio e simbolo
è ripiego di non detto
la mia giornata è un ragazzo che parla da solo
distratto.
E' un qualcosa che non mi ricordo....»

(si rannicchia tondo nello stomaco e traviato in un sospiro si rialliscia
svelto,
entra in campo l'altra voce interno corpo
sullo sfondo un cielo storto
un sole piatto)

E allora io qui mi chiedo ma che vuole questo?
Che diavolo richiede il giovinotto caramelle vino e Lexotan camomilla caffè Seropram aspirina
stricnina dritta al fegato di topo, figlia di sapori e sguardo di lupo come cagna spudorata che si gratta malamente il culo in terra......

E abbozzato mi rispondo :

«Da sempre hai sognato la gente che sanguina vermi
non hai mai sopportato il compulsivo dirti
il tuo unico ascoltare è l'ascoltarti
vedo i bruchi salutarmi di pupille tue
mentre
raramente ghiotto
in silenzio
fingo circumnavigazioni del tuo occhio»

ma lui sordo riprendendo:

«Mi ricordo che in un sogno riconobbi Magellano....
Fu pur sempre sfortunata nel suo vano farlo fuori l'isoletta dell'oceano
la sua gente nata morta di sprofondo dentr'agl'occhi
di quegli strani nuovi bipedi
ricaduti all'orizzonte come il mare giù dal cielo

io conobbi un galeone ammutinato
e gli dissi che a tribordo
sarei stato quello stronzo,
col coltello

...ma ora penso che sia inutile deviare

infiocchettare l'argomento

interessarci fintamente del discorso.....

La mia giornata è una cosa confermata senza senso
un'inquieta evanescente lamentela
è quel senso di insoddisfazione in cui cadi come un bimbo in bicicletta
è una smorfia di bambina sulla faccia
un triciclo senza ruota
una macchina distrutta dietro a un muro di campagna
è un pastore ottocentesco che passeggia
lacrimando
per Time Square
una sfilza di parole senza senso
una pagina trascritta in nonsochè.....

Lo sapevo !

Lo sapevo !

Lo sapevo !

( si graffiava la mia voce allora
urlando )

E lui avrebbe continuato
nel girare sempre intorno a quel discorso già trascorso,

risentito
e sarebbe irrimediabilmente stato vano ogni intento e tentativo d'ordinarlo, quando d'amplesso m'avrebbe risposto ( parlando di ragione e del suo dire )

«non ho mai cercato un retro-occhio,
io

l'ho sempre posseduto...»

.....
...
.


 (20 / 12 /2004)


Sammer on a solitari Ailand


Mi son trovato rotto
prezzato a soldo come un prosciutto
trattenendo a lungo il retto
dal disgusto dopo pranzo.

Sai che bello a tetragosto
dopo il male che ti voglio a Luglio
metter piede dritto dritto nel rigetto
voler correre grigio umido ratto
lungo vasca idromassaggio
a Porto Cervo
sui sorrisi a cento denti imbriciolati
sotto l'oro romanaccio
occhi a goccia sguardo massiccio
rosicchiando
eccitato a nominarlo il pecorino
stramagnando
spolverando la villetta
tavolino più amichetta
da vacanxa sexy very imbastita
assoluta
organizzata
con la evvre avvrotolata americana
la pistola di diamanti

la borsetta

il panfilo
con la solita naturalezza da deserto intellettivo
lungo il corso d'una gita quasi selvaggia
con la smorfia seghettata di piacere già pagato

l'espressione da caletta

mentre bevo
come un sorso d'acqua raggia
glugglugglù
cuoricino a carta straccia
con il viso più scolpito d'una roccia
e tua moglie mi s'appoggia con la crema sulla faccia
con la cola sulle labbra e le scarpe gialle gialle
con la zeppa
con il piede che trabocca di sua trippa
sempre troppa
mentre inciampa:

«Te l'avevo detto cara cicci che la strada era sterrata e poi il giovane si sentirà obbligato Dio non voglia a  strapazzarti un boccabocca....»


«O davvero mio ragazzo mi dispero che sul serio
non capisca l'umorismo
e mio marito
lei non sa lui com'è fatto...»
«Si farebbe accarezzare quel bandito?…»

E' pioggia cieca imbastardita e fango
sul selciato dei locali
sulle barche tipo fungo
dove anch'io lunette de soleil mi fingo
alta sul tacco
nel concorso di bellezza da starnazzo
col marito surgelato ch'è  un segugio tutto vizio
rinomato proprietario preterintenzionale
d'un'industria rotonda sul mare
che è un tesoro di disgusto

ma io affitto in prima fila un tavolino
un fiore plastico
ospitando nella vasca il paparazzo col boccaglio
con la maschera
e la foto della dolce metà bischera
mentre ride tutt'ignara sullo sdraio.
Ah! Ti voglio!
cento volte in rima fiore
amore dolore odore d'incenso tutte le sere
con la maglia col bronzetto
per sentirsi conficcare  la  Sardegna fin'all'osso
tutta una cosa aromatizzata  di mirto e deodoranti per il cesso
come nemmeno seppe spiegare il capo animatore del villaggio
svolazzando angolo in angolo
abbronzato
incatenato croce al collo
gambe come un fenicottero
occhi  bianchi scintillanti come due cucchiai d'argento
mentre  belle ragazze spazzavano merda cantando nei bungalow
e  i  tedeschi s'eran persi ricercando l'avventura a su '' Su gorroppu''.
E del resto
le vespe sciamano i bimbi nudi si tuffano
le vespe pungono le vespe odorano di nero e di giallo
hanno colori degni d'un supereroe
E io batto solamente la mia testa contro un muro di ristagno
come un pendolo
gongolo come sul dondolo
cuore malcurato
aggrovigliato
una matassa masticata senza bandolo
nel fonetico cianciare che v'abbindolo

genufletto e mi confesso:

sono piccolo e rosa.


(02/ 08/ 2003)


Fabrizio Pittalis nasce a Sassari, il 25 Dicembre 1980 E' vissuto a Porto Torres dove ha frequentato le scuole primarie e il Liceo Scientifico. Poi la Facoltà di Lingue e Letterature straniere di Sassari e seguito appassionatamente i corsi del Critico Massimo Onofri. Il suo talento letterario (evidenziato fin dalla prima infanzia) lo porta, oltre che a scrivere di suo, a fondare insieme ad altri scrittori il sito Karpòs. Nel gennaio 2007 muore per un Sarcoma di Ewing.


Dove trovarmi? Alcuni appuntamenti tra settembre e dicembre

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20 settembre a PORDENONELEGGE

ore 17,30 a Palazzo Gregoris
La ricerca della saggezza 
Incontro con Stefano Dal Bianco e Alba Donati.
Modera Stefano Guglielmin

Loggia del Municipio

Letture di Stefano Dal Bianco, Alba Donati, Stefano Guglielmin, Andrej Hočevar, Erik Lindner, Daniele Mencarelli, Christian Sinicco, Giovanni Tuzet, Adam White, Willem M. Roggeman.
Presentano Roberto Cescon e Piero Simon Ostan 

Crossroad of European Literature Project, in collaborazione con Vilenica Literarni Festival e Cùirt Literary Festival



23 settembre Schio. ACCADEMIA POPOLARE DI STUDI STORICO-FILOSOFICI
(tutti i lunedì ore 17,30 –19,00) Istituto Salesiani [il corso prevede l'iscrizione presso la Libreria UBIK, di Schio)
Sei lezioni su Gli albori della poesia italiana contemporanea: 1956-1976
 programma

1)      “Officina” e “il verri”: la critica al neorealismo e all’ermetismo;
2)      I “Novissimi”: Pagliarani, Sanguineti, Giuliani, Balestrini, Porta;
3)      Altre esperienze: Rosselli, Zanzotto;
4)      La poesia e il Sessantotto;
5)      I nuovi poeti della deriva: Cucchi, De Angelis;
6)      Approfondimenti delle questioni emerse: che cos’è la poesia?


19 ottobre, ore 18,30 LIBRERIA MONDADORI (Vicenza, Ponte Pusterla)

 DUE POETI ALLO SPECCHIO. Mara Seveglievich presenta Luigi La Vecchia & Luigi La Vecchia presenta Mara Seveglievich. Introduce l’incontro Ivana Cenci, coordina l’incontro Stefano Guglielmin.


26 ottobre, ore 21,00 SPAZIO NADIR (Vicenza, contrà Santa Caterina)

Stefano Guglielmin Presenta il libro di Giusi Montali, Fotometria (Edizioni Prufrock spa, 2013)


8 novembre, ore 20,45 CROCETTA DEL MONTELLO, Villa Ancillotti
lettura poetica di Stefania Bortoli, Roberto Cogo e Stefano Guglielmin all'interno della mostra di pittura L'anima nel paesaggio nel paesaggio dell'anima, di Graziella da Gioz.


12 novembre, ore 20,45-22,15 LABORATORIO DI LETTURA E SCRITTURA POETICA ARTEMIS(Vicenza, libreria Mondadori, Ponte Pusterla) [il corso prevede l'iscrizione alla seguente mail moderato_cantabile2006@yahoo.it]

10 incontri ogni due settimane, il martedì, tre dei quali dedicati alla lettura e al commento dei testi dei partecipanti. Saranno inoltre studiati i seguenti poeti: Nanni Balestrini, Alessandra Carnaroli, Giulia Rusconi, Guy Gofette, Mia Lecomte, Alba Donati, Enrico Testa.  

17 dicembre, ACCADEMIA FILOSOFICA ITALIANA (sezione Altovicentino)
(Valdagno, sala Marzottini, ore 20.30)

Stefano Guglielmin legge e commenta alcuni passi di M. Heidegger, Sentieri interrotti




EUROPEAN POETRY TOURNAMENT: VINCITORE E SEGNALATI

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La casa editrice Dot.com Press, in collaborazione con la casa editrice Pivec di Maribor (Slovenia), per il terzo anno consecutivo ha organizzato le selezioni italiane per lo European Poetry Tournament, il cui bando era stato pubblicato anche presso questo sito. I vincitori delle selezioni nazionali dei paesi coinvolti (Austria, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Ungheria, Slovacchia, Italia) saranno invitati a partecipare, oltre alla serata finale di Maribor, anche agli eventi promozionali che si terranno a Zalaegerszeg, in Ungheria, ed a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina.

Al segretario del premio Francesco Tomada sono pervenuti 85 elaborati, nonostante i tempi per la diffusione del bando siano stati quest’anno più ristretti che in passato. I giurati (Gabriella Musetti, Stefano Guglielmin, Daniela Raimondi, quest’ultima vincitrice lo scorso anno) li hanno esaminati in forma rigorosamente anonima, essendo ciascuna poesia contraddistinta solo dal proprio titolo o da un motto scelto dall’autore. La giuria ha constatato che tutti i lavori proposti rispettavano le condizioni previste dal bando, e che i componimenti di elevato valore erano numerosi: infatti la scelta del vincitore, all’interno del gruppo dei testi selezionati, ha richiesto una attenta e complessa discussione.

Il vincitore della selezione 2013, 
che parteciperà quindi alla fase internazionale dello European Poetry Tournament, 
è 
Marco Bellini, con la poesia “Il panno”.



IL PANNO

Alla fine il respiro
era tutta una corsa, come il fieno
in cascina per i giorni chiusi
sotto la saldatura di stagno.

Il rumore della ghiaia traccia la mattina;
è un rituale al posto della colazione
le due tazzine composte
si stava vicini.

L’annaffiatoio appoggiato alla colonna dell’acqua
la scopa per i petali caduti sono gli accessori
con cui prepari l’appuntamento.
Il loculo è in alto (l’unico disponibile)

la fila verticale e poi l’estensione orizzontale
questo muro impastato d’ossa dove le preghiere
tengono su il cemento.
Arrivi davanti alzi lo sguardo.

Non pensavi che alla morte
si dovesse trovare un posto
e che ne occupasse tanto;
era più una questione di scomparsa.

Avvicini la scala, sali, pensi che sia
d’aiuto prendere confidenza, prepararsi.
Bisbigli della casa, del giardino
che ha messo i fiori, il cane che aspetta.

Oggi fare l’amore è strofinare un panno
sulle lettere del suo nome, la fotografia;
picchiettare piano con l’unghia
sul marmo, magari sente.

I vostri corpi
hanno già parlato lasciato della carne.
I figli ogni tanto passano e tu
non ti decidi a scendere.



A  vanno dunque i nostri meritati complimenti.
La giuria ritiene inoltre opportuno segnalare, senza ordine di preferenza, anche altri lavori che si contraddistinguono per il loro elevato valore e ribadire la stima per i loro autori: Nadia Agustoni,  Rita Pacilio, Maria Grazia Calandrone, Davide Castiglione, Giovanni Turra, Gregorio Tenti, Luisa Gastaldo, Davide Racca, Elena Salibra, Marco Marrone, Pierluigi Rossi, Roberto Dedenaro. Le loro poesie saranno pubblicate, con scansione mensile e raggruppate in nuclei di 3, in Blanc de ta nuque.

A tuttii partecipanti, indistintamente, e ai giurati indirizziamo il nostro più sentito ringraziamento per l’attenzione e la disponibilità dimostrata, augurandoci di incontrarci di nuovo il prossimo anno.


La segreteria

Annamaria Ferramosca legge "Le volpi gridano in giardino"

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in "Poesia", n.285 (settembre 2013), pp.56-57


Emergere è forse il verbo che meglio esprime la mia uscita da un magma vitalissimo, vale a dire da questa 'anomala' e ricomposta rac­colta di canti, in parte già editi. L'anomalia risiede nella volontà evi­dente di costruireun unicum accostando esperienze di pen­siero e linguaggio che abbiano l'impronta dell'accoglienza indiscriminata e per que­sto fertilissima. Questo crossover di gene­ri e registri, come rileva con acutezza an­che Paolo Donini nella prefazione, è il su­peramento del cliché della compattezza di una raccolta poetica, significa la necessità di guardare oggi verso un più largo oriz­zonte cognitivo-visionario, in un costante e dilatato incontro-scambio di poetiche. Così questa scrittura si fa materia can­giante, poliedrica, ribelle, civile. Capace di trasmettere, per esempio, da un ver­sante, lo stupore di fronte all'imprendibilità del femminile, dall'altro la presa d'at­to - amara - delle infinite macerie etiche del nostro mondo, con tutta la ribellione e il carico di un cambiamento necessario, a partire da sé. Nei Canti dell'amore co­niugale Guglielmin ha saputo trasporre in poesia una percezione nuova del femmi­nile di oggi: un'essenza di donna quieta e sapiente e insieme una specie di folle na­turalezza, quella misteriosa mobilità che assimila il femminile a una creaturalità incontaminata, pur nello scambio di carna­lità e pensiero ("animale che stagiona e ri­parte e ancora plana / riposa e di nuovo s'invola, mai solo"). L'autore capta, nel­l'essenza di donna, note mai prima evi­denziate nella poesia al maschile, note che esprimono quella capacità del genere di saper scomparire facendo spazio al "volo largo della specie", di attraversare con naturalezza la dimensione dell'uno per fondersi in quella corale - oggi più che mai necessaria -, quel suo offrirsi guardingo e insieme generosamente aper­to al destino. Tutto questo si trasmette lungo i tredici primi Canti e si concentra mirabilmente nei versi in cui si dice del gesto della compagna nel suo voler com­piacere il consorte chiamandolo poeta. Riconoscendo così di vivere, lui, la Gran­de Illusione della poesia con quella mas­sima autoironia che lo eleva e dunque lo elegge poeta. Nei Canti partigiani, la len­te visionaria-razionale si sposta sul male di vivere, quella incomprensibile nostra contraddizione dell'essere sociali e insie­me irreparabilmente a-sociali, la dimen­sione grassa dell'Occidente (per quanto ancora?),  la  sozzura  della politica  dei compromessi e della corruzione, l'incapa­cità del balzo etico globale, quello di ve­dere oltre e lontano, per il bene di tutti. E, nell'ultimo brano della sezione C'è bu­fera dentro la madre, Guglielmin trova un finale di grande impatto, nel rivolgersi con ironia anche a colui che lo sta leggen­do, nel rimprovero rivoltogli di essere su­perficiale, dunque non dissimile da colui che mette alla berlina. Sebbene, subito dopo, in "Voglio dire", l'onestà di pensie­ro fa includere anche se stesso nella folla di coloro che confondono "patto con inciucio"e parlano per luoghi comuni. Leg­gendo si è attraversati da una lingua che mescola note gergali vivide a un lessico pieno, naturalmente raffinato, da un rit­mo chiaro, a volte incalzante - personalissima cifra - che risuona in profondità, rendendo memorabile la scrittura. E, come l'autore spiega nelle note, lungi dal creare simboli-stereotipi, egli lavora nell'addensare metafore, che a noi appaiono incisive come colpi di scalpello sulla sta­tua-testo. La poesia ne emerge in un pro­filo nitido, vero, sulla scena di frammenti sparsi che non sono altro che il nostro quotidiano di pena e di vuoto. E su que­sta frammentazione della realtà e dell'u­mano appare fulminante, nel testo "In­canto", l'incipit: "Vendo monade con vi­sta", che sarebbe stato anch'esso un tito­lo significativo del libro, comprensivo del sarcasmo e - diciamo pure - del diverti­mento del poeta, che lo salva, e insieme salva anche noi, dall'annegare nel disin­canto. "Eppure la luce tiene in quella melma", dice Guglielmin, ritornando alla donna, figura che continuamente spiazza, dunque ricuce speranza, senza retorica, mentre il poeta la insegue spiazzando an­che lui chi legge, nell'offrirgli quella sua - di lei - parola che distrae, fruga, capovol­ge, addita. E, ancora e sempre, crea. Una scrittura che è specchio spietato, totale, della nostra inquietudine del vivere-pensare-comunicare, che appare come un manifesto del possibile canto dell'oggi.

Alba Donati

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Il bel libro di Alba Donati, idillio con cagnolino (Fazi, 2013), mette in primo piano il cerchio matriarcale plurigenerazionale, la casa del fare quotidiano e la natura-chora – attraversata dal dolore che le pieghe stesse dei luoghi e dei corpi custodiscono per creaturale disposizione – e intorno, in stato d'assedio, stanno il lupo e la storia, con le loro bocche bugiarde e affamate. Nella poesia tre porcellini le due figure si mescolano attraverso l'orrore nazista, che nemesi dovrebbe infine punire secondo giustizia. Un lieto fine che appartiene alle favole, al sogno, all'utopia e a questa poesia (che è, come tante altre, racconto offerto anzitutto alla figlia, un modo per tradurre l'orrore in canto e farle così amare la vita); un lieto fine tuttavia estraneo, nel complesso, a questo emozionante libro, che si chiude con la strage di Beslan, in un intreccio di cronaca e autobiografia: "Mentre entravo nella sala operatoria con una dose / leggera di anestesia totale, i terroristi ceceni e i militari / russi facevano saltare la palestra della scuola di Beslan". E' detto così, schiettamente, senza ipocrita pietismo e mettendo al muro tanto l'esercito russo quanto i terroristi ceceni, che hanno distrutto non soltanto, in astratto, l'innocenza – uno dei  fondamentali modi in cui Alba Donati guarda il mondo – ma anche le vite reali di chi ha perduto "il proprio volto, il proprio nome". Uno sguardo doppio, incantato e disincantato, regola infatti la voce qui dentro, similmente all'idillio leopardiano, come scrive giustamente Claudio Damiani nel risvolto di copertina. Il naufragio, per quanto dolce, non accade, ma tutto tiene perché il recinto è ben organizzato nel fare domestico e negli affetti: "non volevamo che sostare e chiedere conforto" recita la poesia incipitaria, "pomario" montaliano in cui "vi rimena l'ondata della vita". Altro non c'è, ma è già molto: "traccio una linea intorno al nostro letto: / questo è il confine! Faccio ordine, notte!". E' un cerchio sacro, caro probabilmente alla Dickinson, dove persino gli elettrodomestici e le merci del capitale-mondo rilucono diversamente. Nemmeno la TV, in questo idillio, è nemica, perché, se gestita con intelligenza, accende le speranze ("sul tuo viso scorre svelta / la luce dell'amicizia di Pooh e Pimpi / nei tuoi occhi fiammeggia il loro picnic"), e il consumismo è un rito di passaggio, come ci dice in La magia di Pegaso.

Gli uomini magni ci sono, padri scelti dai nomi noti: Cesare Garboli, Enzo Siciliano, Jean-Michel Folon e altri, morti più meno sereni e subito vissuti come "maestri"; uomini del sentire, non del calcolare, del dare anziché del ricevere, generosi e fragili: così ce li racconta Alba Donati nel capitolo intitolato appunto I maestri. E infine c'è Petrarca innamorato, l'archetipo, che in Scic moni (Laura, Petrarca e un cagnolino) apre le porte ai "capei d'oro" e all'andare immortale di tutte le donne del mondo, bambine, giovani, adulte, anziane, belle, brutte, tutte perfette agli occhi di chi ama.

Due parole anche sulla fattura dell'edizione Fazi: una sovracopertina patinata opaca, che ricorda i libri usati, leggermente ingiallita ai bordi, che emozionerà chiunque adori frequentare le vecchie edizioni; la carta usata per gli interni è invece una "usomano gr. 80" mentre il carattere di stampa è un "simoncini garamond" che si lascia leggere con facilità.


da Alba Donati,  Idillio con cagnolino (Fazi, 2013)


Notte di San Lorenzo 



Dormite insieme nello stesso letto
con i vostri ottant'anni di differenza,
del mondo non sappiamo più niente;
non ascoltiamo i telegiornali
né tantomeno compriamo un giornale,
abbiamo scelto il silenzio, l'accadere del giorno,
lo spazio intorno alla nostra casa.

Se c'è da andare in farmacia, andiamo
se c'è da andare alla posta, anche
ma per il resto abbiamo deciso
di coprire a grandi passi il selciato
davanti alla porta e di salire e scendere
le scale tante volte per prendere e portare.

Poi quando vengo a dormire vi separo:
ti metto nel letto piccolino e io prendo
il tuo posto nel letto matrimoniale.
Salgono gli spiriti nella stanza
attratti dalla mancanza di rumori,
anche un'aria stellata avvolge le mura
e noi veleggiamo tutta la notte,
tu alla ricerca della Strega Malefica,
io di te, e tua nonna di te, di me, e del suo primo amore.


La magia di Pegaso

Avevo letto che Sacrate, camminando per i mercati di Atene, si guardava intorno dicendo: di quante cose non ho bisogno!


Mamma, mi servirebbe - dici guardando la pubblicità
su Italia Uno - la magia di Pegaso, e proprio
mi servirebbe, perché non ce l'ho, il castello di Cenerentola
la Principessa e la Povera e il carrello di Barbie.

E a me serviresti, invece, solo tu
Pensa come si va a stringere la vita, il desiderio,
intorno a un unico punto, come una chiave a stella.   

E da lì, lento, quel desiderio scende
si trasmette a Pegaso, a Cenerentola, a Barbie,
alle Winx - Tecna, Aishia, Bloom, Stella, Musa, Flora –

a Fairytopia, Icy, Aurora, Polly e Bianca e Bernie
(Bernie! L'unico maschio, il topo-proletario,
il malvisto dalla società delle nazioni unite... ).
E così l'amore che ci serve ce lo siamo comprato tutto.



Idillio con cagnolino


La sera ci trova allineate nel lettone.
La luce del viale, dalla finestra,
disegna sul piumone una trama imperfetta
di alberi e foglie.
La gioia invece spinge la luce da dentro
i nostri corpi a uscire fino sopra i nostri visi.
Tu con il tuo libro "da grande", io con il mio libro dagrande.
Tu con la tua risatina da bambina, io con la gioia.
E tra noi, in fondo al letto, disteso a zampe in su
come chi guardasse il paradiso, il nostro cagnolino.
Mai Courbet avrebbe potuto fare di meglio
nel celebrare l'idillio di una sera cittadina.



Memoria


Chissà se i miei gesti nella casa
- aprire la porta del bagno per buttare
i tuoi vestiti nella cesta, riaccendere la luce
della cucina e poi spegnerla di nuovo
dopo aver innaffiato i fiori sul balcone -

chissà se questo che tu ascolti prima di dormire
sarà un giorno la tua memoria favolosa
come lo è per me lo scorrere dell'acqua
nella cucina fredda all'alba - quando mio padre
si alzava per andare a lavorare e quelle voci
che pianissimo si articolavano nel silenzio.



Cesare Garboli


Caro Cesare, per me non sei morto
ho tenuto i giornali del 13 aprile
sul comodino ma non li ho letti,
volevo scrivere di te ma altre persone
prendono il tuo posto nel morire,
volevo dire «se sei morto la morte non esiste»
ma niente, quando nella rubrica
digito la lettera G si accende su di te
tutta la luce del display ma vado avanti,
e ti tengo. Così senza una soluzione
continuo a vederti a Viareggio
come ti vidi nel giugno del 2000
bello come Marlon Brando in Apocalypse Now
finito e invincibile, a un passo dall'Aurelia
a un passo dal grande disordine
mentre come un proprietario terriero
di fine Ottocento mi aprivi la porta.



3settembre 2004, ore 11 - Beslan


Mentre entravo nella sala operatoria con una dose
leggera di anestesia totale, i terroristi ceceni e i militari
russi facevano saltare la palestra della scuola di Beslan.

Mentre dormivo senza sentire male nelle mani deimedici
sui piccoli nessun angelo scendeva, l'orrore camminava
a braccetto con la gioia. E tutto intorno rimaneva mattina.

Dopo piangevo un po', infastidita dalle fasce
e cominciavo a pensare quanto era duro in quelle
condizioni tornare a casa, alzarsi, raggiungere la macchina,
prendere l'ascensore, tornare a letto, nel mio letto.

Dopo vidi la tv senza capire, poi dormii.
C'erano rumori lontani, appena udibili, voci basse,
proverbi detti all'orecchio, in una lingua che non capivo.

Dio, quella notte, troneggiava nei miei sogni, urlava,
inveiva contro tutti, tutti, diceva, nessuno escluso.
Sembrava uno scrittore russo, uno di un altro tempo.




Alba Donatiè nata a Lucca e vive tra Firenze e Lucignana. Scrive di poesia su quotidiani e riviste. Ha pubblicato “La repubblica contadina” (City Lights Italia 1997, Premio Mondello Opera Prima 1998) e “Non in mio nome” (Marietti, 2004). Ha curato “Costellazioni italiane 1945-1999. Libri e autori del secondo Novecento” (Le Lettere, 1999), “Poeti e scrittori contro la pena di morte” (Le Lettere, 2001) e, insieme a Paolo Fabrizio Iacuzzi, il “Dizionario della libertà” (Passigli, 2002). Sua la cura anche all'edizione degli Oscar Mondadori delle "Poesie 1965-2000" di Maurizio Cucchi. Recentemente ha messo in scena con l’Orchestra Regionale della Toscana il poema “Pianto sulla distruzione di Beslan”.

Rita Pacilio legge Stefano Guglielmin

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Rita Pacilio, poetessa e cantante jazz, interpreta Se la voce, sola, di Stefano Guglielmin.

Musica di Dzijan Emin, Georgi Sareski, Luca Aquino dall’album The skopje connection – AmAm
Fotografiedi Salvatore Contessini.

Stefano Dal Bianco

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La prima sorpresa, per chi non conoscesse Ritorno da Planaval (2001), nel leggere Prove di libertà (Mondadori, 2012) di Stefano Dal Bianco, è la vicinanza al parlato, la prosaicità del dire, in contrasto con la raffinatezza del suo filologare sul metro zanzottiano e ariostesco. Distanza reale e apparente, nel contempo. Reale e voluta perché, in effetti, non c'è niente di più insopportabilmente difficile, per un poeta esperto in retorica e stilistica, di sottrarsi alla trappola del mestiere, di mettere in atto strategie immunitarie dalle soluzioni formali assimilate studiando gli autori del grande canone. Operazione inevitabile, tuttavia, se si vuol essere poeti, e che Dal Bianco vaccina, per quanto possibile, lasciandosi parlare da dentro, da quelle voci che vengono prima di ogni rigorizzazione, provandosi nella libertà dallaparola che conta, nella leggerezza del discorso monologante tradotto nella sua fase emersiva. Tuttavia si nasce naif, non si diventa e Dal Bianco lo sa bene: per questa ragione lascia entrare sottotraccia la sua maestria formale, la mette in gioco in modo quasi invisibile oppure, per contrappasso, la esalta sino farsene dominare, forse con una piccola dose di masochismo, in linea con l'inettitudine di chi dice io nel testo.
L'invisibilità, per esempio, la si trova in Diverse guerre: la parola in enjambement che apre il secondo verso, "risoluto", pur riferibile semanticamente al primo, completa metricamente il settenario del terzo, dando così ai tre versi incipitari la misura dell'endecasillabo: "Dal finestrino si vede un gabbiano / risoluto contro fronti di nuvole veloci. / Ma queste facce umane"; verso settenario, quest'ultimo, che, chiedendo concettualmente la prima parola del quinto, "lottano", diventa un novenario sdrucciolo, in falsa rima interna con "gabbiano" del primo verso.

L'evidenza si dà sin dalla lirica incipitaria della sezione "Lontano dagli occhi" (titolo che ricorda la saggezza popolare ma anche – ecco un altro esempio di cultura alta sottotraccia – un notissimo sonetto del poeta cortese Jacopo da Lentini Amor è un desio che ven da core): "Ho toccato la felicità stasera" del primo verso rima baciando "intera" e, poco dopo, va in consonanza con "pensieri" e "lavoro", non prima tuttavia di aver allitterato in "t" nel secondo emistichio del terzo lunghissimo verso: "senza pensare, lo confesso, più di tanto a voi per tutto il tempo" (altro calco del parlar fino della tradizione alta). Per non dire delle citazioni più o meno perfette, dal dantesco "Donne che avete intelletto d'amore" alla zanzottiana "perfezione della neve".
Questo punto va perciò ribadito: Prove di libertà, malgrado l'apparenza, non adotta una scrittura sciatta; se è povera lo è quasi sempre per scelta; ma, visto quanto appena affermato, non si tratta nemmeno soltanto di questo; è semmai povera per via sperimentale, coltamente povera sia per le evidenze già sottolineate e sia  – ideologicamente – per contrapporsi a una tradizione che è stata elitariamente ricca, snobatamente difficile e, soprattutto, scritta. E' nota la forbice tra oralità e scrittura nella trazione italiana, con grave danno, sotto il profilo culturale, per l'unità tra intellettuali e popolo. E questo tema, per quanto assente in quest'ultimo libro, era ben presente in Ritorno a Planaval: penso a Poesia che ha bisogno di un gesto, al suo mettere al centro la relazione tra poeta e pubblico. "Vorrei essere sicuro di non essere frainteso" scrive Dal Bianco in Plavanal; e questa preoccupazione la troviamo fortissima anche in Prove di libertà. E ciò perché la posta è altissima, riguardando la problematicità essenzialmente pubblica, civile nelle conseguenze, del viaggio verso se stessi, che la controfigura poetica di Dal Bianco mette in atto a partire dall'accidia che la pervade interamente, similmente al Francesco del Secretum: come Petrarca essa s'interroga sulle ragioni del vivere e del morire, dell'operare, dello stare in mezzo alla gente, sulla sua lontananza dalla verità, che qui si chiama "luce del creatore". Non si tratta dunque, per Dal Bianco, soltanto di scrivere un libro di poesie, ma di misurarsi con la lingua e il senso delle cose usando proprio quella lingua così inadeguata a indagarle. Essere nel vortice della "nullità paurosa" e da lì chiedersi ragione del proprio esistere, prima di qualsiasi sovrastruttura, "prima che torni ad essere dal bianco" come recita la chiusa ironica di Come ti chiami. Evidente la radice sapienziale del libro, con l'interrogare che fonda la scrittura, che la fa essere domanda su quell'ente capace di APERTURA, AUTOCOSCIENZA e VERITÀ, scritti stampatello maiuscolo così come maiuscolo è irrimediabilmente, avverbio che dice l'impossibilità del ritorno: non c'è rimedio, afferma Dal Bianco, alla vita e al dolore. Nemmeno la poesia salva, essendo "schifosa scappatoia". Semmai "sola medicazione alle offese del mondo"è il tremore di una "piuma di tortora", un dolce naufragare dallo stormir di fronde leopardiano, un frullo leggero come il sonno del figlio Arturo, nella sezione "Lontano dagli occhi", a cui Dal Bianco dedica alcune liriche dal sentire sabiano. Qui la controfigura si ritrae, l'autobiografia si mostra, chiedendo un metro, una misura che faccia da rete di salvataggio, che tenga il dolore entro le scansioni della forma. Ancora Petrarca, ancora la poesia che risorge, malgrado il poeta.


Lungo questa disanima ho lasciato anch'io qualcosa sotto traccia o non bene in vista: la possibilità che qualche volta la materia sia fuggita di mano, quasi che l'ispirazione si sia piegata alla necessità di buttar fuori scorie autobiografiche o pensieri ancora in bozzolo, e l'urgenza delle domande e lo stato emotivo "di debolezza estrema", ma anche l'intenzione gnomica, avessero appesantito il dettato, soltanto un poco, sia chiaro, ma sufficiente a rendere talvolta grigia la lettura, senza quei guizzi che invece tenevano aperta la comunicazione in Ritorno a Planaval. E' per altro difficile citare i versi incriminati perché il loro effetto in minore si produce spesso per accumulazione di piccole stringhe piane, modulate sulla funzione comunicativa e su strategie retoriche non sufficienti a mantenere accesa l'empatia. Il poeta stesso, invero, sembra consapevole di questo;  in Alchimia dei poteri, infatti, ci suggerisce la possibilità che alcune poesie risaltino, per difetto, sulle altre: "mi son trovato / a vomitare una poesia, non certo la presente, / che racconta solamente, / ma un'altra molto più importante, / che parla di vita e di morte e che mi piace / disperdere in un libro di facezie / per lusingare i cercatori d'oro". Sembra un gioco, ma svela molto della posizione del poeta nei confronti della propria scrittura e dice anche la sua distanza ironica dal dibattito sulla poesia italiana contemporanea, che sembra vivo soltanto in rete, pur risultando spesso fanfarone e inconcludente, più legato alla spartizione del potere piuttosto che all'onestà intellettuale.

Qui alcune sue poesie.

Premio Tournament: Giovanni Turra Zan, Nadia Agustoni, Davide Castiglione

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Come indicato sul bando dell'European poetry Tournament, escono su Blanc le poesie di 3 finalisti. Il prossimo mese, altri 3.


Giovanni Turra Zan in Generazionerievoca, fra l'altro, l'eccidio di Granezza (6 settembre 1944), l'incertezza assoluta della Storia, quando incontra l'incertezza delle sue creature. Eppure le donne qui raccontate sono capaci di resistere allo sfaldamento delle cose. Sono le femmine della casa, cerchio del riconoscimento, dell'identità condivisa. Nella prima strofa una di queste, forse staffetta partigiana, prende la parola. Turra Zan ci vieta di familiarizzare con i personaggi di questa storia dolorosa, ci lascia entrare appena, con pudore, in quella soglia contadina. Nella seconda strofa, la voce cambia; il lettore forse ritrova questa donna, ora anziana. L'atmosfera, tuttavia, non è molto cambiata: ancora la fatica e le vecchie abitudini, anche culinarie, danno il ritmo all'esistenza. Giovanni è bravissimo a non cadere nelle retorica, a focalizzare l'attenzione sui dettagli, a tenere accesa l'attenzione con metafore efficaci, con una toponomastica ben riconoscibile per chi vive dalle mie parti. Lo straniamento viene dall'uso di nomi propri anglosassoni, dalle "lettere albanesi", ma non è un mistero che sull'Altopiano di Asiago ci siano cimiteri inglesi e anche del popolo balcanico. L'attrito con quei nomi è prodotto dal dialetto vicentino, in un plurilinguismo misurato, mai dominante.



UNA GENERAZIONE.


Perduravano le incertezze mentre l’ombra scendeva
sui morti e l’isola e la casa venivano occupate.
Avresti preferito nasconderti a Granezza, ma le donne in famiglia
cadevano dal sangue delle generazioni e la madre voleva le figlie
nella cucina con la stufa e la porta sul letamaio.
La poltrona rossa reliquia al focolare, la ricordi nel giorno
del sussurro che vi ammutolì, con tutte le femmine impegnate
al tavolo nel gioco solitario. A Bosco Nero, Loris era caduto tra i germogli
dei carpini; il suo corpo nascondeva le larve della prosperità,
ma non fu più per noi il perdono dell’aria che irritava le porte di casa.
Fu per tutte e sette noi donne quel dissimulare di granito
 che ci ammalò il pianto, salvo che per Mary, che rese vasta.
Quando anche Tom lasciò tutta la prigionia di una vita,
e non più solanacee a ricordargli la nausea del mondo,
come in Germania nel ’43, piangeste di lui i completi di lana
sul cancello di casa, come ultima consegna della cura, della storia
amata come l’erba intorno all’acqua, che riempiva la brocca
en tel làbio ogni santissimo giorno dell’anno.

Siamo a maggio; il colore del pane biscotto uscito dal forno
vi invita alla festa della discendenza,  e la preparazione del rito
avviene come nel romanzo dell’orgoglio. Rivediamo i volti
dei giochi, e la compagine australiana sorta con addosso tutta la salvezza.
Disperavano di ritrovarti ancora viva e tu, gigante odor di mughetto,
ti stagliavi a simbolo della linea di difesa d’ogni onesto racconto di  [resistenza.
Veniamo a testimoniarti gratitudine per il dispiegarsi del libero discorso,
tra la linea del canto, che avviene a salti e ad accenti, e quella di un dire
stanco, forestiero. Sorella delle lungaggini, sapevi i trucchi dei non detti,
delle camicie inamidate nel cesto, di po’enta e fasòi, col brutto naso
che i tedeschi ridevano, lasciandoti portare i foglietti sui monti.
A piedi, spingendo la bici, aprivi il varco a quelli tra noi più liberi, 
e lasciavi che corni di metallo spuntassero dai muri di cinta, a ricordo
dell’esproprio del ferro assassino, sotto cui cadevano
i nomi dei maschi nei boschi (tutti belli, forti, affamati di donne
e di fabbriche). Dov’è nascosto questo futuro chiedi, dove siete amici
sepolti e con voi il passo dopo passo, con le stalattiti di ghiaccio ed il grano?
Restano sole le cose da incartare: due fotografie dell’amata maestra
della scuola elementare, anche della madre, le lettere albanesi di Tom,
due vasi, i cerchi di marmo da cui spuntava una goccia
di roggia, come un pianto vecchio cent’anni e uno; i libri di Mimma e
ancora quella rossa poltrona. Fa freddo. L’inverno mangia i cigli
alle strade, e ora che la casa è stata ritrovata, posso essere
sepolta con le cose declamate alla festa dei cent’anni.


***

Nadia Agustoni, come Turra Zan, ci proietta nella grande storia, per un lungo tratto mostrata per emblemi e a una velocità furtiva, vista da carri trasportatori di corpi, da occhi che vedono frecciare il paesaggio e non capiscono la meta. L'anaforico "Erano già alberi" dà il ritmo al viaggio di avvicinamento ad Auschwitz e a tutti luoghi della disaccoglienza, del rifiuto. Anziché alzare la voce contro il negazionismo, Agustoni mette di fronte l'evidenza degli oggetti, dei corpi raccontati nella loro disarticolazione (mani, denti, capelli, piedi, testa, braccia). Ancora più che in Turra Zan, Agostoni, qui, fa poesia in-re, da dentro la situazione, stando in posizione fenomenologica, così che il suo commento si dipani quale messa in scena di una possibilità costantemente in agguato, fattasi carne nei campi di sterminio e nelle parole ideologicamente sporche di Faurisson, ma ripetibile ancora, all'infinito. 


Commento a Robert Faurisson
                                                                           
                                             a chi è partito  
                                                                           
                                                        “Bisognerà progressivamente ammettere                               
                                                          che nonè esistita ad Auschwitz la minima
                                                          camera agas omicida... “  Robert Faurisson
                                                          19 gennaio 1995 a Radio Islam


Erano già alberi
crescevano fumo e traversine
a lungo sognarono i binari
le case lasciate indietro
erano grandi come mani
a volte facevano con le mani aperte
un silenzio che non credevi:

coi capelli e coi denti
battevano il tempo fermo
e sementi di uomini
vedevano rondini
cercare un campo
credevano che il campo nella neve
li avrebbe raccolti:

erano già alberi  
i fiori li guardavano
come un ciliegio che dal bianco stilli il rosso:
“tu imparami il vento,
con una preghiera chiama
gli uccelli, ascolteranno
la nostra voce, le parole
non siamo più noi”:

la guerra era sul grano
sparavano sopra
come a un cielo
andavano via guardando i paesi
là erano giovani erano il tetto e fondamenta
qui le foglie come gli occhi
la polvere come polvere
il pensiero della lepre:

erano già alberi
li abbattevano, c’erano
nei tronchi i loro petti
sui rami facevano un tavolo
la casa era un quaderno
scrivevano: “noi il buio sappiamo
che esiste”:

era un celeste essere vivi
una notte due notti
un giorno davanti...
pensarono uno alla volta
il figlio il padre
la sorella il bambino
dei vicini che giocava:

erano già alberi
aprile un’aria d’ortiche
sul mondo
erano nei piedi nella testa
nelle braccia
a capire piangevano
come il cuore di un altro:

a dicembre il fumo
coi cavalli, pensavano
dentro le scarpe
a come dovrà piovere tanto
per non soffrire più
verranno coi boschi
le piante col legno
della terra, verranno
carbone.


***

Come i due autori precedenti, Davide Castiglione ci porta dentro la scena, in una zumata d'avvicinamento macroscopica; leggendo, viene subito da chiederci: chi annera i vetrini, in quale spiazzo? E le voci si moltiplicano, e lo spesamento del lettore è sempre più grande. Chi entra, chi si alza? Castiglione procede nella sua descrizione minuziosa, non apre allo sfondo. Però parla di "fuoriusciti", ma da dove? Dall'immagine, dallo Stato tiranno? Quello che sappiamo è che c'è luce e c'è ombra, e c'è un interno e un esterno. Siamo nella vita, forse, o nel viaggio post mortem? Di sicuro non siamo soli. E qualcuno ci guarda, li guarda. Castiglione ha la capacità di sprofondarci dentro l'imbuto, di farci sentire sul collo il fiato dei carnefici, se non fosse che il titolo, Eclissi, ci riporta al quotidiano, alla curiosità testimoniale di chi vuole fissare con gli occhi l'impossibile: quel sole-bene-di-Dio che oramai è soltanto un astro bollente, un fuoco senza teologia. E il nostro viaggio non può che fermarsi all'inferno. 

Eclissi

I

Stanno in uno spiazzo, annerano vetrini. Seguirli
li seguirebbe prepararsi al passaggio, nell’aria educata
a ritornare dalle pale della ventola
entra uno e gli afferma sopra, forza
guardala da fuori: ti do il cambio. Fa per alzarsi,

esita – l’altro
riprende, come si è un secolo in vantaggio, hai tarpato
le tue possibilità non appena lasciavano le tabelle
per la luce, non intuendovi cifre a sostenerla. Quindi

i fuoriusciti si invetrano nel fenomeno,
riparano in estasi per minuti sette.

II

Ha esordito in pieno oscurarsi, con una presunzione
di filigrana – per avere approfondito
il suo stesso corridoio, assottigliandosi all’uscita sino
a una qualche
chiarezza. Gli è simile,
a suo tempo soppesò il nocciolo al bilancino
e così le circostanze, si inscrisse in corsia
per definirsi, capire dove finisse.

Gli tocca la spalla, sovrappone
a quelle schierate sul banco le sue schedature  (l’essere
simili fa proseguire o meno l’ombra
prima ripiegata e sola?).

Tra monitor e porta aperta,
tra sfiorarsi e fare ridondanza.




EQUIPèCO, Ermini, Siracusa e le Volpi

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EQUIPèCO è un “trimestrale di ricerca e documentazione artistica e culturale” edito da Carmine Mario Muliere. Esce bilingue, italiano e inglese (qui il link). Nel numero 37 uscito di recente, si parla, fra gli altri, di Maurizio Cattelan, di Emilio Isgrò, di Prampolini e di futurismo. E di architettura, teatro e di poesia. Ci sono anche alcune mie poesie tratte da Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni, 2013) tradotte da Dominic Siracusa e prefate da Flavio Ermini. Ringrazio entrambi e l’editore per avermi ospitato.


La libertà dell’essere umano
(di F. Errmini)

Nell’ultimo libro di Stefano Guglielmin, Le volpi gridano in giardino, una poesia dice così: «Non c’è canto, lo so. Però il corpo / talvolta parla da solo, ama il fango / più della luce e cancellare tracce / darsi malato…». Dobbiamo considerare con attenzione questi quattro versi per comprendere il resto.
Guglielmin registra che viviamo immersi nella nebbia. Non vediamo il cielo, né la strada sulla quale stiamo camminando. L’opera è agitata da uno «stato di allerta», come spiega Paolo Donini nella prefazione; tanto da essere costantemente «dominata dall’emergenza».
L’esistenza è ricerca e indagine dell’essere, anche se l’essere non fa parte dell’orizzonte dell’esistenza. Quei frammenti di essere che la nostra esistenza giunge anche solo a sfiorare (l’amore coniugale, i conflitti sociali, la crisi economica…) non sono più l’essere. Accade per l’essere quel che accade al periécon, il confine conglobante nominato da Anassimandro: un confine che si estende nella misura in cui si estende la nostra conoscenza; un confine lontano che, ulteriormente allontanandosi, resta irraggiungibile all’umana conoscenza.
Le parole vanno sempre più usurandosi, a cominciare dalla parola stessa “canto”. La battaglia va condotta contro la barbarie del pensiero, ovvero contro la malattia di quel totalitarismo della mente che è pur sempre capace di impedire lo svelamento dell’essere.
Guglielmin lo sa e si riporta in vista dell’essere unicamente mettendosi in cammino, senza altro fine che un cammino esposto a tutti i contatti, formando con ogni aspetto dell’esistenza degli accordi, seppure fuggitivi e incerti. Nel farlo si affida al coraggio della parola, un coraggio che si rivela sempre conflittuale – muovendosi come fa la parola dall’alto verso il basso –, talvolta «senza canto», come annota l’autore stesso.
Siamo chiamati a muoverci secondo imperativi morali dei quali le leggi degli Stati sono solo una pallida eco. Sono imperativi che hanno a che fare con il nostro stato originario, quando le stelle erano ancora visibili e ci guidavano. Ora ci muoviamo nella nebbia e le stelle, quando ci è consentito di vederle, sembrano un puro ornamento.
Il coraggio della parola, sostiene Guglielmin, comporta la frizione e la sovversione. È difficile che il coraggio si manifesti là dove non si è disposti a pagarne le conseguenze. Restituire alle stelle la loro natura di guida, ecco il nostro compito. Acquisire una nuova consapevolezza poetica significa anche liberarsi delle decorazioni.
Le volpi gridano in giardinoè una critica radicale, svolta «con tutto il corpo», contro un sistema sociale che non mette in conto la libertà dell’essere umano e contro un sistema linguistico che riduce ogni attività al godimento o alla contemplazione estetica.


Stefano Guglielmin
Translated by Dominic Siracusa

From The Foxes Scream in the Garden

Perfect Figure

You say oak and kiss, expect
a fasting sky that clears.

Tongue sprawled on the stone
open you slide into the sleeping
animal: the circle looks like
a figure of love, perfect if
it doesn’t devour its offspring.



Everything Frays at Your Clamor

Suddenly, you keep the people
on their feet, you wed them
to the space of doing, like a seed
that dissolves the moan
in song, or in salute to the industrious city.

Everything frays, in fact,
at your clamor, laying on the summit
meant for us, if you translate
love into ring or chorus, yet
it has no name, often, the shade
where you hide bread and knife
and so the walnut, the only place
you hang the dead man’s suit.



Sometimes the Body

It seems the body consists
of many little potholes, empty nearby,
funnels, whereby life turns
and disappears. Instead the vast flight
of the species roars through that
gorge, the thorn that turns
grief into sage, and makes us clear.   

Gianni Toti (su floema)

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E' uscito in floema un e-book su Gianni Toti, con numerosi interventi critici e creativi. Questo che segue è il mio breve saggio sul poeta.



L'attenzione della critica recente si sofferma spesso sulle installazioni verbo-visive di Gianni Toti, sulla sua ricerca multimediale, su quella che egli stesso definì la poetronica: miscela esplosiva ad alto contenuto tecnologico con la qualeegli mette in attrito il desiderio di chi vorrebbe la poesia sul "poetistallo" e il pericolo obliante di chi la porterebbe sul "poetibolo". In verità questo è il punto d'arrivo di un percorso che vede il partigiano Toti da sempre attento alla polis, in una militanza che pone l'accento sulle giunture del segno, tanto che si potrebbe parlare di realismo intraverbale finalizzato a disvelare la rete delle apparenze, le miriadi di circuitazioni da cui il velo di Maya è pervaso. Dietro il paesaggio, tuttavia, c'è ancora il linguaggio, che tiene le forme di superficie e le segrete connessioni, quell'unità profonda e tenebrosa che in Baudelaire ci parla per balbettii sinestetici e che in Gianni Toti altro non è che continua proliferazione di senso, contrazione e distensione dello spaziotempo, rese fattive dalla poliedricità della lingua. 

Questa consapevolezza giunge a maturazione in chiamiamola Poemetànoia (Carte Segrete 1974). Metànoia è termine greco che rinvia al cambio di mentalità, al crescere di consapevolezza, alla stregua dei viaggiatori platonici usciti dalla caverna. Dopo quel viaggio, nulla è più come prima: la visione ora è sicura e l'apparenza non può più ingannare. Ma per "l'uomo post-serpentico"– prodotto sia dell'inciviltà telecatatonica e sia del mondo diventato favola così come ce lo racconta Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli– la semplificazione platonica non basta: profondità e superficie stanno ora tutte dentro la narrazione del reale e dell'irreale che il moltiplicarsi delle agenzie educative, informative e d'intrattenimento hanno messo babelicamente in gioco. Gianni Toti agisce su questo tessuto plurale, lo dilata, lo complica ulteriormente sino a farci sprofondare in un divertissement, che non solo anarchicamente ci libera al principio del piacere freudiano, ma assume, più profondamente, una connotazione ontologica: l'essere totiano si dà nella vertigine degli "elettrologismi", chiedendo a noi di raggomotolarcisi dentro, per nuotare come embrioni poeliberi di passare da un labirinto all'altro, senza soluzione di continuità. In questo pluriutero-semico borgesiano e, per itala sponda, calviniano, non esiste contesto, per cui Croce e Gramsci, la storia, l'autonomia e l'eteronomia dell'arte, l'egemonia del proletariato, ora "paroletariato", vengono risucchiati, metabolizzati dentro gli spazi cronici e ucronici del linguaggio, la cui salute e la cui malattia, la fisiologia e la patologia della langue e della parolesaussureani stanno in perpetuo e dinamico conflitto ma anche in reciproco interscambio. 

A tale lucidità, Gianni Toti ci arriva per gradi. Ne L'uomo scritto(Sciascia, 1965), il mondo sta ancora fuori, per quanto appaia "strano", tutto esposto, piatto perché reo d'avere "cancellato l'invisibile". È la morte del simbolismo, ma soprattutto, in quell'incipiente neocapitalismo martirizzato da Pasolini, è la morte dell'intimità, dello spazio in cui è possibile un sincero dialogo interiore. Sanguineti l'ha capito prima di tutti: il suo monologo esteriore renderà infatti obsoleti il neorealismo, il postermetismo ma anche lo storicismo pieno di sensi di colpa di "Officina". Toti cammina sul ciglio della Neoavanguardia, ma diffida dell'utopia comunitaria, quando questa è fatta da mandarini verboequilibristi sempre più ammanicati con l'establishment; egli, come altri poeti schierati più a sinistra del Gruppo 63, segue una via personale, fondamentalmente apolide; inoltre, in quegli anni, è impegnatissimo a testimoniare, da inviato, dei grandi conflitti terzomondisti, da Cuba al Vietnam alla Primavera di Praga. Lui la storia la attraversa, ci suda dentro; eppure, che tutto stia diventando favola è una consapevolezza già presente in questo libro. Ce lo dice nella "necrologia per la metafora", morta per insufficienza di risorse entro una società in cui non è più possibile "distinguere / tra il volto e lo specchio". Immagine barocca, di quel barocco tanto amato da Luciano Anceschi, che pervade sempre più anche la poetica del Nostro, non ultimo per il rilievo che quell'età diede alla tecnica, al virtuosismo capace di creare una bellezza nuova, meravigliosa. E la meraviglia scatta ogni volta che attraversiamo i sentieri rigogliosi del poeta romano, una meraviglia spaesata ed eccitata al tempo stesso, alla sua massima potenza a partire appunto da chiamiamola Poemetànoia, ma già quasi perfetta in  Tre ucronie della coscienza infelice (I Centuauri, 1970) e costante  sino alle tre raccolte successive: Per il paroletariato o della poesicipazione (Umbria editrice, 1977), Il poesimista (Rebellato, 1978) e Compoetibilmente infungibile (Lacaita, 1979).

Dopo qualcosa cambia. La resistenza, almeno simbolica, del fortiniano "nulla è sicuro, ma scrivi", diventa ora, nel pieno della restaurazione culturale degli anni ottanta, "Narrare humanum est. Inenarrare diabolicum", massima biforcuta, che addita la via luciferina dell'inenarrazione, la scelta del buio proprio ai "Poetenebriòidi", un allontanamento, dal sapore kafkiano, dai miti della civiltà del tramonto. A partire dai Racconti da palpebra (Empiria, 1989), il pessimismo prende infatti la parola, la sperimenta da dentro il ventre dello scarafaggio ("Troppo vasto, lo scarabaggio, ormai. Ha divorato non soltanto lo mio autore, ma anche me, come vedete, che lo sto riscrivendo dal di dentro della sua pelle chitinosa"). Forse per questo, Toti cerca la luce artificiale nella videoarte, ripartendo dalle vocali di Rimbaud, dai suoni sospesi di Mallarmé, dagli "zaum" futuristi e chlebnikoviani, nella superficie della finzione proiettiva, che s'imbozzola nel paramount della visione, anche violenta, nel tentativo di riprendere possesso del non senso della polis, di rifondarlo a partire da una lingua utotica, che dica "l'indicibile del "postmodernariato" (come scrive nel 1987 a Giorgio Di Costanzo), e dalla leggerezza del montaggio. Montaggio che agisce per microsequenze sia in Racconti da palpebra e sia in Poco dopo gli ultimi tre femtosecondi (racconti coSmunisti dal poetàceo) (El Bagatt, 1995). Quest'ultimo lacerto, organizzato in un linguaggio borborigmico, singultico, tra permutazioni paronomasiche e un plurilinguismo caosmico, ci sprofonda in uno spazio in cui tutto tace, compreso il pensiero per eccesso di contraddizione. Il principio del piacere, abbandonata la giovinezza masturbatoria del ribelle, respira ora i miasmi sulfurei della morte, in uno spaesamento totale, anzi totiano, e l'io franto si muove fra mura "erte e dure, senza porosità", specchio perfetto del presente dal quale vorremmo soltanto uscire.



 da “L’uomo scritto” - Sciascia, 1965

(Necrologio per la metafora)

non paragonava più niente a nessuno
non diceva più alla sua donna
che era come una rosa che era una rosa
non ripeteva neppure più alla sua rosa
che era come la sua donna che era la sua donna
ma quando lei arrivava sei come te ripeteva
e quando aspirava una rosa sei come una rosa constatava
e gli veniva quasi da piangere perché
la sua donna era solo la sua donna
le rose erano le rose
e tutte le donne del mondo tutte le rose
il come era abolito nessuno lo sapeva più distinguere
tra il volto e lo specchio finalmente …



(Homo videns)
coltelli fra le palpebre, non occhi
ha sfogliato il giornale: fra due pagine
incartati ha trovato mille morti
ogni giorno così, a colazione
imburra il pane con sangue e notizie
poi si scrolla e cammina fra la gente
che maneggia morti di carta, tutta viva
guarda il mondo con occhi affilati
coltelli fra le palpebre, e taglia, e recide. …



da “Tre ucronie della coscienza infelice” - I Centauri, 1970

arma-menti
incapacitaria
un’arma
compossibile psico-displeptica
la specie che si altera
metamorfosi futura attuale
dio già incapacitario
l’uomo adesso figuràtevelo
euforia ansiosa volontà di non
volere nolontà ìlare angoscia
dirottàti camminanti all’indietro soldati
gamberi umani cromosomi leucocitari
in rivolta a spasso per il sangue
malformando congenitali eccetera
l’arma incapacitaria chi
l’userà ne sarà usato nessuno
sparerà ai nessun i
nolontari tutti



 da “chiamiamola Poemetànoia” - Carte Segrete, 1974

l’uomo post-serpentico
(dieci punti e finisce la fine)

1
guarda il glomerulo umano
la membranella il lume capillare
l’endotelio il mesangio lo pseudòpodo
e raggomitolati se ripuoi

2
e lassa i laserpìci o sarai anòmane
spasmofilo estetìpsico
statisti-estetistìco
uscendo troppo non rientrerai

3
il respiro tascabile i rotametri
il palloncino tende a collabire
ipovèntila il flusso della curva
e l’agonia tascata l’insufflabile

4
telefonano al cuore (al cardio): è pronto
il check ricevitore al petto batte ancora
all’àncora ma già sta scaricandosi e
fonocontrollo e morte in anticamera

5
una torcia ultrafonica ultraottica
occhiali ciechi ascoltanti silenzi
divisioni eco-radar del buio
forse il cieco vedrà anche più lontano

[…]

da “Per il paroletariato o della poesicipazione” - Umbria editrice, 1977

le cento e una lotte
(con la lingua e la notte)

1

il bell’orrore l’orrida bellezza
l’infelicità ormai felice
è avvenuto il poetifragio
perfetta è l’imperfezione
ottusacuto l’ossimoro
in ordine il disordine
del giorno feral feriale
moriremo e saremo felici
la rivoluzione già tutta scritta
letta riveduta e corretta


75

« corre nel mondo una parola vaga
questa parola è partecipazione »

(così disse un sindaco con la sua prosa
di coscienza ma erano due endecasillabari)

e io credo sia sbagliata e che divaga
questa parola è poesicipazione


da “Il poesimista” - Rebellato, 1978

Glossocomio?

ti hanno timbrato fino dalla nascita
con razza d’uomo prima identità e
poi con nome connominato
trasforandoti egoibile con le pinze
ma non eri ancora svanito nella lusione
bardato con tutti gli infinimenti e le cinture
e le croate e i fili che pendono dai bottoni
e viceversa le teste che ciondolano dai capelli
vattene adesso rondinotto da briglia
il prima non c’è stato ancora per te
prima che ti insegnino a ricordarlo
non ci sarà il dopo prima che ti postarghino
ascòltati corri ma di fianco
(dalla rosa la zolla - dalla zolla il pianeta)
così potrai mostrarci l’adcanto l’ala sola
che ha una parola sopra a surlinearlo e perché
lo pronunciamo parolato grave o acuto in-ad-cantabile

lallazione lalìa glossopea glossalgia
tacere più forte


Abracadavere

fa segno ancora abreg ad hâbra e dice:
fino alla morte spedisci la folgore ―
il filattero è questo ma non è ancora arrivata

noun è il caos e non c’è differenza
nel tohu-bohu del deserto e del vuoto

era disorientato l’essere forse lo è ancora


 da “Compoetibilmente infungibile” - Lacaita, 1979

Illetteraria disiscrittura

con la phosphorea pennatula scriverei
leioptilofimbriato proponendomi nomens
ma velella velella nautiloide me ne vado
nudibranco sipuncùlide thalassema gogohimense
e temo che lineus longifissus torquatus
variopedatus anche resterò infundibolo
nella conchìlega nei fanghi sabbiosi
dove i tubicoli scriptori nascono
pagine di arena letteratura di istanti


da “Racconti da palpebra” - Empirìa, 1989

Errori erranti

― Narrare humanum est. Inenarrare diabolicum ― sospirò l’inenarratore, trasformatosi immediatamente in inenarratore, per l’errore vocale appena commesso prima di riprendere, ma a inanerrare non a inenarrare l’inanerranza, inenanerraticamente…


Chi tenebrar li lascia e chi li spegne

Hanno vita immaginale breve, costumi notturni, endoparassìti, amano le tenebre, attaccano i poeti, gli sfarìnano dentro le parole. Li chiamano ― ma non rispondono― Poetenebriòidi. Ne ho uno qui, lucìfugo, nello scazònte. Breve, la loro vita immaginale ― ma quanto, breve?


Capo Bovino

Pensa tanto allo scarafaggio nero. Perché? si chiedono gli amici cui l’ha confessato. Ma per fabbricarselo! Non solo concepirlo ma darlo alla luce; o al buio, che è meglio; insomma darlo, darselo, non come un essere creaturo ma come questa sua ossessione ontentonologica, che rientra sicuramente, come tante altre, in un processo o metodo di produzione. Lasciarsi frequentare dall’immagine scaravaggesca (ah, qui la effe è diventata vu: bene!).
E nei fatti così è stato: lo scarafaggio nero è venuto al buio come alla luce. Non letterariamente, ma veramente, sia detto frettolosamente proprio così: veramente. E adesso lui se lo studia perché è uscito dal suo cervello e ne cerca ancora il foro d’uscita, non lo trova solo perché dev’essersi richiuso quasi subito. Così escono gli scarafaggi. Per essere letteraturizzati? No, per crescere e divorarsi lo mio autore. Testa-di-bue, si descrive così, il carabo. E infatti è già cresciuto tanto, nella cantina letteraria, che non ci sta più nelle migliaia di pagine metagrafate su di lui. Troppo vasto, lo scarabaggio, ormai. Ha divorato non soltanto lo mio autore, ma anche me, come vedete, che lo sto riscrivendo dal di dentro della sua pelle chitinosa. Su cui non si scrive male dopotutto la storia terrificante dello scarafaggio che, una mattina, si ritrova uomo, raccontatevela da soli.


da “Poco dopo gli ultimi tre femtosecondi (racconti coSmunisti dal poetàceo)” - El Bagatt, 1995

Cliopeopea

Eraclito ride. Era Clito che non. Kleitorìs chiusa, la trovò. Serraturina. Perché chiudeva. A Kleitor per esempio, città dell’Arcadia per una sua sorgente, un tempo famosa, rovina illustre adesso, presso Clituras. Chiavistellino, dunque, clavis da kléisis. Chiavi di Clito aprivano, ridendo. E Cléio spalancava la Musepòpea, Clio che annuncitric’è perch’apr’e chiude, màgnifa e festeggiando esalta e salta e sulta. Per questo Klito è inclito, udire si fa e laudare, claudo et laudo, Klùo anch’io quando kleo anzi kleio. Ma allora claustro e clathra e clethra e kléistron e claustro è il catenaccio della sua dolcezza chiusa. Sbarra o ardiglione di fibbia, come la chiamavi tu, Eraclitoridente? La chiave sulla bocca. La bocca degli iniziati, Gli iniziati alla serratura. La serratura dell’essere. L’esserratura, dici? Sui banchi dei rematori incorregge come una chiave giransi, i remi. Nello stretto, la chiave del mare.
Tà splankna apò tìnos, io chiudo il cuore a una, declamò Clito che era inclito e rideva splenético, dolendosi per le viscere, il cuore, la milza, lo spleen. Sì, lo spleen, lo spleend’ore.
Clide rideva, promontorio alto e ciprigno. E il clitofilàce anche, rideva ficcando lo sguardo nella klithria, buchiavistellante, nel forame clavicolare, per Clito e Clitone, generale al Granìco e scultore ad Atene, ambedue ridenti nel Clitoro e nel Clitorio, per klemme e klemmìdie, le chiuse ormai forzate spalanchiuse, apriende ancora, apriche.
Clitotéchne inclit’arte! Clitorismi, e clitoroflogòsi, e clitorotomìe poi. Non più ridenti e clite. Era Clito che non, che non più rideva, troppo facile aprichiudere. Perciò adesso svolitar qui lasciansi le callìdie incluse da Fabricino nella terza sezione dell’ordine degli Inclitoleotteri, Inclitoridentotteri, sulle clitorie aperte in polipetali, diadelfie decandrie leguminose, chiare di colori, a trasversarli fasce giall’e bianche, alipétali.
E voi puellititillate pur, in fin di pagine il piccolo glande imperforato, il tubercolo rossastro, il penis muliebris, l’oestrum veneris, lamentula amoris dulcedo, clitride e cenàngio. Con voi riderà Clizia, Clitiàride, oceanitide, sertularia flexibilis. Era Clito che Eraclito ridente voleva; e noi? Noi anche clitorideremeremo, con remi labiali, gli ardiglioni delle fibbie, la femminile glandezza, sì!

GRUPPO 63: un bel filmato della RAI

BUON NATALE da Silvia Comoglio e Gianmario Lucini

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Natale 2013
 

E quanto, quanto qui rimane
di un istante più profondo
è la stella venuta a ponte
tra il cielo e queste orme,
báttito che schiude - il dorso
del tempo illimitato
in forma, álta, della luce ―
dell’única parola che - sigilla,
librándosi nell’aria,
il non visto - e la coscienza,
la coscienza successiva,
di quánto allora è stato,
allora - è stato ―
 

____________

                           Silvia Comoglio

***


Cari amici
Ho appena terminato un giro per l'Italia, presentando la bellissima raccolta di Saragei Antonini (Egregio sig. Tanto), i saggi di Marco Scalabrino, la dotta e corrosiva poesia di Nino Contiliano e il nostro (con il pittore marsalese Giacomo Cuttone) "Canto dei bambini perduti".
Ho conosciuto poeti e intellettuali splendidi, un giovane (23 anni!) straordinario pittore di Bagheria, altri ragazzi, belli, veri. Ho riabbracciato Nino De Vita, Lucio Zinna, due poeti che ai "continentali" sono poco conosciuti, ma che hanno lo straordinario spessore dei maestri veri. Ci siamo fatti risate gennendo poesia satirica fino alle lacrime con Saragei, Anna Bonanno e altri e scambiati pensieri, dubbi, perplessità.
Ho avuto un pensiero ricorrente, quasi un tormentone: questo è un Paese bellissimo, tutto l'anno. Non lo cambierei con nessun altro e voglio che si mantenga, anzi, che migliori laddove è stato ferito. Un paese vario, dai colori accesi e tenui, dai paesaggi che cambiano continuamente, di giorno, di notte. Salendo ho anche fotografato i fenicotteri nelle saline di Marsala, con l'isola di Favignana alle spalle. Ho gli occhi pieni di meraviglie e il cuore pesante per tutto ciò che si avverte nell'aria: questa smania di "ripresa" che si basa su indici, numeri, trend e quant'altro senza tener conto delle persone, degli animali, dell'ambiente. L'importante è guadagnare e non importa a che prezzo si ottenga il guadagno e come esso venga distribuito. Non importa se i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e che il prezzo di tutto questo sia l'imbarbarimento dei costumi, il degrado dell'ambiente, l'aria sempre più inquinata, il mare e la battigia sempre più sporchi.
E ho pensato che questo sistema è pericoloso, nocivo e inemendabile, che è marcio fino all'osso, che è tanto più forte e più appetibile quanto più è marcio. Ho il cuore pesante perché questo è l'unico modello di vita che l'uomo sa attualmente pensare e che ora ci stanno copiando tutti, nei difetti e non nei pregi: cinesi, indiani, brasiliani, tutti gli stati "emergenti" (ma emergono da che cosa? e che cosa sta sopra e che cosa sotto, se qualcosa "emerge"?).
E' una inciviltà che sta aggredendo anche la cultura contadina della solidarietà, quando nessuno moriva per bisogno, almeno qui in campagna: c'era sempre una stalla tiepida per dormire, qualcuno che dava un pezzo di polenta, qualche lavoretto da fare. Ci si faceva carico dei poveri, per quel che si poteva, i più magri fra i magri, i malnutriti fra i malnutriti.
Qui a Sondrio ancora non c'è la neve. Ieri notte fumavo sulla terrazza senza un maglione e non avevo freddo. La stessa temperatura di Marsala o di Mazara. La natura ci maledice e avremo un'estate secca, dopo quella scorsa, malaticcia e gonfia (qui al Nord).
Ci sono segnali nell'aria, nel vento delle parole, nelle eco delle notizie, segni maligni e sinistri che non hanno nulla a che fare con la Pace, che è figlia della Giustizia prima ancora che dell'Agàpe.
Perciò il mio BUON NATALE non può venire soltanto dal cuore, ma anche dalla mente, dalla riflessione, che deve essere guardinga in questi tempi, disillusa e non consolatoria, con gli occhi bene aperti. Tutto non può ridursi a un annuale "volémose ben", come dicono in Veneto, o a tarallucci e vino, come dicono i pugliesi o, se vogliamo, a cantuccini e vin santo.
Perciò il mio augurio è che la nostra poesia, la nostra narrativa, la nostra saggistica, le nostre letture, il nostro agire, siano dardi nelle costole di questo sistema corrotto e cinico, e nello stesso tempo medicamenti, come l'amore vero, che non cerca diversivi consolatori ma che graffia e fruga la ferita infetta per farla sanguinare per purificarla e disinfettarla, un amore che prende a schiaffi chi dorme, perché chi dorme non ama. Questo, credo, sia il nostro dovere, il nostro ruolo insostituibile, la ragione che fonda la natura stessa dell'arte, della poesia, della filosofia, del pensiero critico. Il compito di sollevare dubbi e conflitti, per affrontarli e comporli nella Pace e per quanrto possibile nella verità, come facevano Eschilo e Omero.
Buon Natale a tutti e Buona Pace. E "L'innocenza al potere!", come diceva un poeta.


Gianmario

Stefania Bortoli

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Il titolo di quest’opera prima, fermamente voluta da Stefania Bortoli, rinvia alla matrice simbolista e ungarettiana della sua ispirazione. Voci d’assenza(Editrice Artistica Bassano, 2012), infatti, c’introduce in una dimensione in cui il dialogo tra visibile e invisibile, tra mondo sensibile (la voce) e metafisica (l’assenza), riguarda la possibilità di partecipare all’assoluto, ma nella sua declinazione terrestre, biografica, ungarettiana, appunto. Sia la poesia d’esordio, oscillando tra “intermittenze” e “interminabile” quali condizioni del vivere e del conoscere, e sia la citazione dantesca, rinforzano tale ipotesi, sino a costituire le chiavi con le quali leggere quanto viene dopo: un sacro cipresso che non protegge più il nido, una ferita nel mese più crudele, una lama che lacera in cuore. Ora il naufragio s’è risolto, pare suggerirci l’autrice, sentendo la necessità di ripercorrerne la rotta, il “viaggio di ritorno”, trasfigurandolo, complicandolo di memorie più antiche, di letture che nel frattempo hanno arricchito la portata universale di quell’esperienza lasciata non detta nella  sua piaga, ma straordinariamente ricomposta nelle due poesie che chiudono la sezione, A rossa apertura sangue della vita e Vera neve annoda nidi, belle per la loro capacità di uscire dalla cronaca e fissare, quasi in astratto, l’attimo in cui l’assenza diventa risorsa, anche se, non necessariamente, felicità. Il viaggio ha reso possibile la metamorfosi alla viaggiatrice, l’ha iniziata alla conoscenza. Ecco allora che essa si cimenta nell’haiku, la difficile arte del sapiente, nella quale rapidità del gesto e grandezza della visione coincidono. Troviamo ancora malinconia ed inquietudine in questi lampi, ma vissuti in una dimensione non più passiva, bensì fatti rientrare in un ordine superiore, che li giustifica perché in armonico contrasto con la bellezza della natura, con la pazienza del ciliegio, con la vastità della primavera. Se in principio la natura faceva solo da sfondo al dolore personale, ora l’io canta nella penombra di un grande albero amico, che fa sentire tutti partecipi della medesima energia vitale.

La seconda sezione, Altrove, si apre con alcune poesie di viaggio, una memoria che si ricongiunge con le poesie iniziali, che ci riporta in una dimensione di sofferenza: è “uno sguardo indietro”, per recuperare i fili lasciati sospesi e ricomporli infine negli haiku che chiudono, e sintetizzano, quelle uscite in terre nuove, laggiù, compiute per rifondare l’ordinario, ma prezioso, quaggiù. Che è ricco di presenze, come ci ricorda la sezione successiva, tutte familiari, umane ma anche animali, come Lou, la gatta viaggiatrice, attraverso la quale Stefania ha modo di citare la grande poesia provenzale e Dante (con la sua “lingua del sì”), ma anche la sorella Chiara, le cui parole danzano nel testo, trasmettendo gaiezza e voglia di lottare, di muovere serenamente “verso il mare”, approdo di un libro nel quale l’invisibile sfuma via via in uno spazio concreto, finalmente abitabile, dove ricucire l’origine d’ogni esilio, il legame con la propria madre, fedeli entrambi alla vita e alla Terra, genitrice d’ogni possibilità e destino.




Dalla prima sezione   Viaggio di ritorno

                                           Nascere è cadere nel corpo. 
                                           Marina Cvetaeva



Intermittenze del tempo

sospensioni in ascolto

nel silenzio bianco

diventano percorso
singolare nella prossimità

dell’interminabile



**

A rossa apertura sangue della vita
vocale porpora scarlatta
balbettio di suoni che fecondi l’esistenza
se la prosodia materna è aperta morbida.

Trasformi l’assenza se i tuoi ciottoli di fiume
giocano con le tue piccole mani
risuona la parola nuda
né troppo vicina né troppo lontana l’amata presenza.

Singolare e plurale la mancanza
a mano a mano libera la paura dell’assenza
scoprendo l’invenzione e l’incontro con/diviso.



**

Vera neve annoda nidi
se la terra scura veste l’inverno.
Solo i merli cantano i crepuscoli
se i sentieri seminano sogni
avranno ritorno.
Eccomi oltre i giorni
più non sono.
E tu forse sapevi che l’attesa dell’angelo
scavando l’ombra liscia la pietra.



Dalla terza sezione   Presenze

Percorrono l’altro sentiero
radici fuori dal tempo
la morte annunciata
è presente nell’addio
nell’abbraccio agli alberi.
Eravate natura
legati come l’albero alla terra
          noce, pioppo,tiglio, quercia,
deserta sconfinata sola sulla collina
          morèr mare
maredèmaredè
Nello specchio vedo solo
il mio ultimo volto
morèr mare…
                   maredèmaredè.




Notte di capodanno

Nell’intervallo tra memoria e desiderio
camminiamo senza indugio
tra la neve gli alberi
fino al giardino la prima neve
annuncia l’infanzia
le bianche rose senza perché.
Carezza le mani la gioia intera
piumaggio di magnolia
questa notte di poesia.




Chanson de Lou

Il tuo corpo nero aveva odore di campagna
ma gli umani ti vollero viaggiatrice.
Dai Pirenei alle azzurre stanze
dove si parlava a passo di danza
lingua d’oc d’oil
non mancava la lingua del sì.
Uno deux trois, natura felina
sognavi balzi parigini
cieli audaci occhi profondi
sui tetti era la notte pupille d’agata.

Una notte di settembre
Chiara disse - andiamo -
porta con te il filo d’allegria
l’elastico dorso vibra
          anche nel sonno
ordisce la trama
dipanando la matassa.

La storia nel verso appare
cercando falene
falce di luna rossa
il tuo ultimo autunno fedele alle foglie
          e alle stagioni.
Quieta osservi il fruscio del merlo,
mutano i fili d’erba, sei vivo prato
insieme ai petali rosa del primo ciliegio.



Haiku


Luna d’inverno.
Il silenzio lima le betulle
la volpe attraversa la neve



Qualcuno ha bussato?
Il battito del tuo cuore
in cerca della mia poesia



Fiume carsico
l’acqua scorre sotto
nella profondità la mia inquietudine



Nel tempio di Borobudur
gli anni vanno errando
cammino nel mio mandala



La metamorfosi della vista...
al mattino il mio sguardo scrive
sui volti di pietra di Bayon



Tempio di Angkor Wat –
ascolta, mi perdo nel tempo
sento la presenza del mistero



Immagine orientale:
canta il pescatore di fiori di loto
immerso nel fango nel lago rosa



Lapsus...un raggio di sole
come un arcobaleno
in un labirinto



Nella memoria del corpo
la scrittura interiore
decifra la profondità del mare





Stefania Bortoli è nata a Thiene (VI). Si è laureata in Pedagogia con una tesi di Estetica e Psicoanalisi.
È stata segnalata alla Premio Lorenzo Montano, edizioni XXI, XXIV, per la sezione “Una poesia inedita” e nell’edizione XXV, per la sezione “Una raccolta inedita”.
Sue poesie sono presenti sul giornale on-line Tellusfolio e nel libro Orizzonte terraqueo, a cura del Laboratorio di Lettura e Scrittura poetica di Artemis.
Il libro Voci d’assenza (ed. Editrice Artistica Bassano, 2012,) è stato segnalato con Menzione di merito alla XVII edizione del Premio Nazionale di Poesia Achille Marazza - Opera prima.
Insegna lettere al Liceo Artistico di Nove e vive a Pove del Grappa.


Sintesi annuale Blanc (con classifica dei 10 poeti più letti)

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Post totali 77

Poeti italiani 44

Gianni Toti, Franco Loi, Beppe Ratti, Maria Grazia Calandrone, Rita Pacilio, Davide Racca, Cristina Annino, Raffaele Marone, Silvia Comoglio, Stefania Bortoli, Alessandro Polcrì, Giusi Montale, Bernardo Pacini, Franca Mancinelli, Giovanni Turra Zan, Nadia Agustoni, Davide Castiglione, Stefano Dal Bianco, Alba Donati, Fabrizio Pittalis, Matteo Bonsante, William Stabile, Giulia Rusconi, Francesco Terzago, Francesca Matteoni, Andrea Lorenzoni, Matilde Tobia, Sergio Marinelli, Cristina Bove, Alessandra Carnaroli, Giorgio Bonacini, Corrado Bagnoli, Alessandro Assiri, Alfredo De Palchi, Leopoldo Attolico, Augusto Blotto, Cristina Alziati, Luca Rizzatello, Andrea Donaera, Rosa Salvia, Daniele Santoro, Giacomo Vit, Beppe Salvia, Roberto Bertoldo

Poeti stranieri 1

Mario Meléndez

Poeti più letti (n. di letture):

Andrea Donaera 1153
Leopoldo Attolico 828
Alfredo De Palchi 702
Alessandra Carnaroli 661
Giulia Rusconi 635
Fabrizio Pittalis 599
Andrea Lorenzoni 581
Giorgio Bonacini 549
Rosa Salvia 538
Beppe Salvia 490

Media giornaliera visite 130
Media giornaliera pagine lette 225


Gian Ruggero Manzoni

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Tutto il calore del mondo (Skira, 2013) di Gian Ruggero Manzoni mette in scena la vita quale luogo del perpetuo conflitto e del martirio. Assumendo il punto di vista del testimone-superstite –  ossia di colui che ha visto dall’interno l’orrore che c’è in ogni guerra, uscendone segnato, unto come un cristo, ma capovolto, un benedetto dalla miseria e dalla violenza – Manzoni sceglie due momenti emblematici (un episodio sul fiume Dnepr, tra russi e tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, e la battaglia di Alesia, dove Cesare vince Vercingetorige) e ce li racconta attraverso gli occhi di due ragazzi, tanto più veri quanto più il loro profilo si perdere nella finzione. Il primo, infatti, è il protagonista de L’infanzia di Ivan, film del maestro Andrej Tarkovskij, uscito nel 1962; l’altro si chiamava Lucinio Curione: inviato ad annunciare la vittoria romana sui Galli, non giunse mai in capitale e di lui non si seppe più nulla.

L’interessante sta dunque anzitutto nella scelta di raccontare la realtà più cruda che conosciamo –  la guerra – attraverso l’arte cinematografica oppure, nel secondo caso, tramite una memoria non  documentabile, così tanto da mescolarsi con l’immaginazione e la biografia del poeta romagnolo, anch’esso testimone-superstite di una guerra, quella serbo bosniaca, nella quale rimase ferito da una scheggia di mortaio, a Zenica, nel 1994.
L’arte, sembra dirci il poeta-guerriero, è l’unico racconto credibile sulla realtà, l’unico in grado di entrare nelle piaghe e nelle gioie più profonde degli esseri e delle cose. Una posizione non lontana da Heidegger quando scrive che l’arte, e la parola in particolare, mette in opera la verità dell’ente, lascia essere gli enti nella quiete del loro non-nascondimento, nel loro temporaneo incontrarci (L’origine dell’opera d’arte). E se questo incontro non è mai pacifico, nella misura in cui ci scardina dal consueto stare presso agli enti, che cosa meglio della guerra ci risucchia nella sua apertura, chiedendoci ragione del nostro esistere? Arte, sia ben chiaro, non in quanto fenomeno estetico, bensì quale fatto in cui la verità si lascia incontrare. La guerra, in questo senso, è un’apertura essenziale al pari dell’opera d’arte, che ci scuote, ricollocandoci nel precario che spetta ontologicamente ai mortali interroganti. Tutto il calore del mondoè infatti anche un libro sull’interrogare, sul senso del nostro abitare la terra, feroci e dolcissimi, ignoranti e prossimi al verbo divino. Alla domanda hoelderliniana, “perché la poesia nel tempo della povertà?”, Manzoni risponde, ancora con Heidegger, che bisogna riconoscere questa miseria fino in fondo perché essa, in quanto abissale, conserva “le tracce degli Dei fuggiti”. 

Questo è lo spazio del Sacro che Manzoni ci addita spesso nel libro, con la sua voce a volte blasfema (“È quindi Dio che sgozza il porco o è la consapevolezza dell’umano?”), sempre materica, se non carnale (“Lenta la stagnazione che carezza i fianchi, dove ti trascini, sempre conscio della buca o dell’inciampo”), un “sacro” pronunciato minuscolo, “divenuto casa del tutto e del niente”, labirinto prima che spazio del senso, maceria piuttosto che tempio. Egli – come tutti noi, del resto – scrive infatti dopo Auschwitz e Treblinka, linea tragica che unisce l’Europa di oggi molto più della radice cristiana e dello spirito illuminista. Eppure, proprio perché Manzoni pianta i piedi in un profondo che trapassa il moderno, non si accontenta di risolvere l’umano nella sua storicità, per quanto radicalmente violenta. La poesia manzoniana, come detto, svolge appunto una funzione ontologica, quella di dare voce al sacro abissale, talvolta infettandolo con la bestemmia – che è preghiera del mistico, quando nasce dalla domanda radicale sul perché il dolore – e articolando il discorso in una poesia spesso antilirica, che è voce del canto consapevole della miseria spirituale tardo moderna (ma non mancano momenti di alta classicità: “Del biondo di quei capelli fecero corona di spine, mentre, del suo collo, ciondolante ossequio a un cardellino impagliato”).
Per questa ragione credo sia corretto parlare di poesia religiosa a proposito di Gian Ruggero Manzoni, vicina in particolare al Libro dei Salmi: anche in essi, l’umano si mostra nella sua plurale fatica, nella pratica colpevole quale via per la redenzione, nell’esperienza del peccato come incontro con la Verità. “Prega per noi – recita il coro nell’infanzia di Ivan– che il suo fragile corpo divenga l’affanno e la condanna di quel boia alto e spietato”.

Tutto il calore del mondo  contiene più di venti disegni (acquerelli e chine) di Mimmo Paladino, essenziali figure in cui la storia sfuma nel mito, a volte dominate dalla gioia coloristica propria della transavanguardia, altre volte governate da un segno nitido, simbolico o evocativo a seconda del passo testuale di riferimento.



Dalla sezioneIl fiume di betulle 


2

L'acqua è uscita dalle sponde e fa da letto alle radici di betulla.

Il gibbo che ti gonfia le spalle scivola da spia nel mondo degli adulti. Non comprendo la disumana volontà di sopraffarsi, ma quella mi abita con voce che non mi appartiene, perché esce tronfia e plasmata.

Forse che sia innata l'arroganza degli uomini? Forse che sia anch'essa santa?



3

Mi portarono davanti a una rastrelliera d'attaccapanni e m'imposero
di scegliere
quello a cui impiccarmi.
Furono un cappio di ferro le dita della levatrice, e in quel momento
mi ritrovai a carezzarle le ginocchia da lavandaia, che aveva da secoli
quale inciampo del mestiere di lavorare e lavorare.

Disse il boia: "Mein junge verbringen sie unvergessliche Momente... "1
in un tedesco storpiato dall'ucraino.

Feci il passo e mi consolai, avendo informato i miei compagni.


1 “I miei giovani trascorrono momenti indimenticabili…”



17

Per prime gocce sparse in ferma di vento, poi più fitte, quindi il sempre più lento
battere dell'acqua. Uno squarcio, poi altri, da dove filtrano i raggi
di un sole invernale. Imporsi sotto la pioggia, accettarla, farsi battezzare.
Ora il cielo si è richiuso in un grigio sacco, ma, all'orizzonte, la bassa linea verde,
oro e rosa, di un tramonto annunciato.
Spere di luce tagliano la natura in un obliquo ormai orizzontale.
Le ombre si allungano. Le forme di esse non sono più umane, ma torbidi casi.
La verticalità si fa desiderare, in questi giorni di trapasso.
Quel tuo fiume, fanciullo dell'Ucraina, ti dava pesci e suggestioni per masturbarti.
Non necessita il pensiero ai genitali di una femmina o di un maschio
per raggiungere l'orgasmo. Già tutto è dato, se scorri i mutamenti delle nuvole,
l'inseguirsi dei venti, il turbine gelido che ti carezza l'impermeabile.
E tu stai, con la mano sprofondata fra le gambe, in piedi, in fronte
all'acqua, mungendoti o sfregandoti... maschio e femmina... in quell'apice che fa compagnia
alla solitudine di una carne esposta allo scorrere rapido, indifferente, dinamico
della cupola che ci sovrasta.
Toccarsi, partorire umori e lacrime, ridare acqua all'acqua che scende , indisturbata.
Bere acqua, compensare l'ammanco, nella continua trasfusione tra nubi, carne, lago,
cellule, sangue, tramontana, neve, ghiaccio, denti nell'altrui pancia,
liquidi, che si prestano al guado. Un pianeta al carbonio quale base
della nostra chimica organica. Allotropiche formazioni intermedie.
Acidi grassi. Diamante e frattaglie, ovunque acqua e carbonio, prodotto all'interno di stelle
che trasformano i nuclei di elio in quella C assoluta, gravida, obesa, smagliata
tramite un processo Triplo Alfa. La Trinità dell'Origine, nell'omega del perenne frammentarsi. .



dalla sezione Dagli scavi di Alesia


IV

La domanda può avere risposta?

Se dall'assoluto ti fai invadere è inevitabile, perché ogni quesito
viene immediatamente risolto. Non potrai dire a parole. Il tacere ti sarà
compagno. Ma saprai che tutte le domande hanno un esito, e ancor di più
se sei nell'ignoranza
o nella semplicità del fanciullo, nel digiuno, o nell'urina dell'impiccato.

Gli assedianti di Alesia divennero a loro volta assediati.
Questa la condizione umana. I ruoli sempre mutano, così che da fedeli
si diventa dèi, così che dio, in te avulso, incombe su chi ha eretto gli steccati,
in un ribaltamento continuo di ansimi, in un mutare perenne di abiti, di allievi, d
'insegnamenti e di parti.



V

E ancora... nell'unità dell'infinita posizione con cui la natura conferma sestessa
(e dona), ritrovo la piega madre, cucita nell'ovest.
Al crepuscolo, il mondo schiaccia le ombre annegate (per differenze)
inuna brocca di carbone. Infinita posizione delle posizioni, colui che è fuggeda codardo
e il nulla, padrone dei lombi e del perdono, infligge il colpo, che rende
immortali ma non armonici... pur sempre nel dirsi comete o predoni.

Che duellare magmatico e solenne! Sole e luna, schermati dalle nubi,
in quel grigio, che sempre più induce a settentrione.



VI

Le tortore entrarono dal cielo in quel tempio del ricordo
e lo abitarono per millenni.
Una chiesa senza tetto diviene altare che si coniuga col nome dell'intero.
Il racconto (di ciò che sembra vita) scorre sulle pareti muschiate
come fosse una via crucis, un andare della croce, un procedere di alleanze
o di tormenti... di parole, ma anche di silenzi.



XXIII

E così urla il porco, quando lo inseguono per scannarlo. Urla come uncristiano
prima della decapitazione.
Lui se ne accorge che lo vogliono sgozzare, ancor prima che aprano laporta
della piccola stalla dove vive discreto e gioioso, tra i suoi liquami e lalussuria.

Urla il porco... in sanscrito e in aramaico.

I palmi degli esecutori sono di cuoio. Gonfi, ruvidi, incisi da rughe, da
setole, da linee marchiate di nero, anche dopo il catino o dopo le pomate
che ti passa il farmacista, per ammorbidire il danno e i calli, la pena el'ustione.
Ma gli esecutori non riescono a chiudere del tutto il pugno, perché lo
spessore del cuoio è tale, che al massimo possono stringere con forza l'astadi una vanga,
il grosso manico di una mannaia o il coltello da beccaio, puntato alla gola.

Quei palmi sono di chi ha sempre lavorato di fatica, dei contadini, degli
operai, dei meccanici, dei veri poeti, degli asini umani. E il porco
liconosce bene, e sa il perché lo vengono a cercare.
La caldaia è già sul fuoco; l'acqua bollente servirà ad ammorbidire la pelle
del maiale, così da raderla, non appena sollevato, appeso a testa in giù,quindi
spaccato in due, prima che ogni verbo di speranza, gli venga tatuato sulcostato
quale liturgia dell'insulto e dello strazio.



Gian Ruggero Manzoniè nato nel 1957 a San Lorenzo di Lugo (RA), dove tuttora risiede. Poeta, narratore, pittore, teorico d'arte e drammaturgo, tra il 1982 e il 1983 è redattore della rivista “Cervo Volante” di Roma, diretta da Achille Bonito Oliva ed Edoardo Sanguineti. Insegna poi Storia dell'Arte presso l'Accademia di Belle Arti di Urbino dal 1990 al 1996, quindi, lasciata la cattedra, come contrattista presta docenza presso accademie e università italiane e straniere. Nel 1980 pubblica Pesta duro e vai trànquilo/Dizionario del linguaggio giovanile con Feltrinelli. Nel 1997 dà continuità alla ricerca riguardante i nuovi linguaggi emergenti pubblicando Peso vero sclero/Dizionario del linguaggio giovanile di fine millennio edito da Il Saggiatore. Come teorico d'arte, pittore e poeta partecipa ai lavori della Biennale di Venezia negli anni 1984 e 1986, edizioni dirette da Maurizio Calvesi, curando, assieme all'amico Valerio Magrelli, la Sezione Poesia per Arte allo Specchio. Dal 1986 al 1998 dirige la rivista d'arte e letteratura Origini. Ha al suo attivo oltre 40 pubblicazioni. (dal Giornale di Vicenza 18/10/13)

Nato a Paduli, in provincia di Benevento, Mimmo Paladino passa la sua infanzia a Napoli. ?Muovendo dal clima comune del “concettuale”, la prima fase dell'attività dell'artista s'incentra principalmente sulla fotografia. La sua prima personale si tiene allo Studio Oggetto di Enzo Cannaviello a Caserta, nel 1969. Gli anni a cavallo tra il '78 e l'80 sono da leggersi come un periodo transitorio tra la posizioni concettuali e la rinnovata attenzione per la pittura figurativa. Utilizza anche l'incisione e molte altre tecniche per rappresentare il proprio “mondo interiore”, primordiale e magico, sperimentando diverse tecniche tradizionali: disegno, pittura, scultura, mosaico, incisione, immagine filmica. Ad “Aperto '80”, nell'ambito della Biennale di Venezia, il critico d'arte Achille Bonito Oliva propone la corrente della Transavanguardia, di cui fanno parte Chia, Clemente, Cucchi e lo stesso Paladino. Del 1992 è l'installazione permanente Hortus conclusus nel complesso universitario di San Domenico a Benevento. Negli anni successivi si dedica più intensamente alla stampa d'arte ed esplora altri settori, come quello della ceramica e della terracotta. Nel 2010 Mimmo Paladino ha firmato la scenografia di work in progress, tour che ha visto riunirsi, dopo trent'anni, la coppia Lucio Dalla e Francesco De Gregori.


Sulla "crisi dell'editoria italiana"

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Da qualche tempo, da molto tempo, scrivo in prosa. Due romanzi inediti finalisti al “Premio Calvino” e uno segnalato nel 2013. Pubblicazioni? Zero. Diamo per possibile che ai premi concorrano autori inediti e perciò non necessariamente bravi. Diamo per probabile che io non abbia talento oppure che i poeti, posto che io lo sia, in genere non riescano a scrivere per tutti e nemmeno sappiano organizzare la complessità della scrittura narrativa.  Di questa mia privatissima condizione non voglio tuttavia parlare. Mi limiterò invece a presentare il contesto in cui essa si muove e ad esprimere alcune considerazioni in margine.

Parto dall’innegabile crisi dell’editoria italiana, evidente anche all’ultima “Fiera nazionale della piccola e media editoria”; Giovanni Peresson, responsabile dell’ufficio studi dell’AIE (associazione italiana editori), segnala un calo delle vendite medie, nel periodo 2000/2013, pari al -35,7%. Federico Di Vita (autore di Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria italiana, Effequ edizioni), nel sito “L’inkiesta.it”, conferma i dati:“A fine ottobre si registrava un calo di fatturato annuo del 6,5% – parliamo di circa 65 milioni di euro in meno rispetto al 2012 – flessione che giunge fino al –13,8% nei confronti del 2011)” E ci fornisce il numero di copie vendute in media per ciascun titolo: “Nel 2011 erano 89 (e anche allora erano poche: parliamo di media e nella media c'è anche Gramellini – per intenderci), già nel 2012 scendevano a 82 per arrivare alle appena 76 registrate nel primo quadrimestre del 2013.” A questa caporetto, fanno pendant le cause legali aperte dagli autori per il mancato pagamento delle royalty e degli eventuali anticipi.

A vivere relativamente meglio sono i grandi editori. In un’intervista uscita l’altro giorno su “gliamantideilibri .it” tre editor, pur ammettendo il calo complessivo delle vendite, si dichiarano soddisfatti dei profitti ottenuti. Gianluca Foglia (Feltrinelli) ricorda le 500 mila copie di  Roberto Saviano con ZeroZeroZeroe le 200mila deGli sdraiati di Michele Serra. “Buoni anche Massimo Recalcati, Chiara Gamberale e la coppia Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo.” Si noti tuttavia che questi sono quasi tutti libri non-fiction. Dal canto suo Elisabetta Migliavada (Garzanti), ribadisce che la narrativa non va affatto male:  Clara Sànchez con Entra nella mia vita  e  Il profumo delle foglie di limoneè in classifica da tre anni e vanno bene anche  Andrea Vitali con  Un bel sogno d’amore e  Di Ilde ce n’è una sola. A stare in classifica (e in testa alle vendite Garzanti) sono inoltre Sara Rattaro con Non volare via e Vanessa Roggeri con Il cuore selvatico del ginepro. Addirittura Michele Rossi, editor della Rizzoli, dichiara che “quest’anno è stato piuttosto straordinario perché siamo riusciti a guadagnare molto rispetto alla quota di mercato dell’anno scorso. Noi abbiamo avuto Gianrico Carofiglio, Walter Siti con il premio Strega, Silvia Avallone, Dacia Maraini. La sorpresa è stata la trilogia di Irene Cao.”  

Accidenti, mi viene da dire, ma allora la narrativa italiana non è morta! E, a quanto pare, non bisogna per forza scrivere come Volo o Faletti per vendere. Tra l’altro, Rossi dice una cosa che merita attenzione ossia che nemmeno il romanzo storico è morto, tanto è vero cheDacia Maraini ha scritto un libro su Chiara D’Assisi, “ (che per altro sta andando molto bene) in cui lei, laica, femminista, atea, si confronta con una figura storica. Usciranno poi Giancarlo De Cataldo, che parlerà di Pertini da giovane con Il combattente,[…]  Avremo anche un’esordiente: Sara Loffredi con il romanzo La felicità sta in un altro posto. È un romanzo storico tutto femminile, […] ambientato tra il terremoto a Reggio-Calabria nel 1908 e la Napoli dei bassifondi.”
Se questi sono i dati contestuali, rispetto al mestiere della scrittura occorre aggiungere che una certa omologazione degli stili è comunque in atto da molto tempo in Italia: un’Horcynus Orca(Stefano d’Arrigo) o Ilsorriso dell’ignoto marinaio (Vincenzo Consolo) – siamo negli anni Settanta – oggi non si scrivono perché nessuno li pubblicherebbe (scrittura troppo difficile) e perché, anche chi volesse tentare, ha tempi di consegna troppo stretti, inconciliabili con la progettualità del capolavoro. Meglio allora una scrittura piana, con poche subordinate, un lessico non superiore alle 7000 parole, sentimenti e identità ben riconoscibili e sulla soglia dello stereotipo, storie forti in cui l’immedesimazione con l’eroe o l’antieroe sia garantita. Sotto questo profilo, la responsabilità dell’omologazione è dei grandi editori, che, in tempi di crisi, non vogliono rischiare, preferendo il noir, il poliziesco, il sentimental, l’autobiografia del personaggio noto (purché scritti in un italiano sorprendente ma non spiazzante, vivace ma non libero di crescere a dismisura; per tornare a quanto appena accennato: potrebbe mai uscire, oggi, un romanzo come Vita e opinioni di Tristan Sendy, gentiluomo, di L. Sterne? Oppure, per restare in Italia, il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore?). I piccoli editori seguono a ruota, patendo la concorrenza delle majors e, per supplire la mancanza di capitale e di idee, obbligando gli autori a comprare numerose copie.

Suggerimento: i principali editori (quei cinque o sei che monopolizzano il mercato) potrebbero finanziare i piccoli affinché questi ultimi scoprano nuovi talenti da immettere successivamente sul grande circuito. Anziché rubarsi la stessa fetta di mercato, i piccoli editori assaggiano i gusti e lanciano proposte, anche sperimentali; i grandi editori, poi, le sostengono, dando visibilità maggiore e possibilità ai nuovi autori di formarsi con la calma necessaria, senza bruciarsi nell’opera prima. Su quest’ultimo aspetto concorda anche Michele Rossi nell’intervista già citata: ““A mio avviso la risposta allo stato attuale del mercato sta […] nel non sovraccaricare autori esordienti di responsabilità che non hanno, come invece abbiamo fatto negli ultimi anni, distruggendo un bioma delicatissimo, perché se si promuove ogni titolo lanciandolo come un successo annunciato, quando poi non succede, si finisce con il bruciare degli autori, tagliando una foresta primaria che non ricrescerà più. “  Ripeto: questa foresta nasce in genere sul terreno fertile ma incerto dell’editoria minore, che non ha sufficiente capitale e cultura manageriale per promuovere i libri che stampa.

Esiste infine una responsabilità delle agenzie letterarie, che spesso mancano di incisività e progetto, limitandosi a prendere atto delle condizioni critiche del malato e a proporre le medicine che troveranno uno stomaco già preparato a riceverle. Credo che un agente dovrebbe avere una propria idea sulla letteratura, dovrebbe credere in essa e promuoverla. Se la pentola non ha lo standard di qualità che ti sei prefissato, dico io, non metterla in catalogo. Se ti interessa, difendi la tua scelta con i clienti, convincili a investire. Per fare questo, fuori di metafora, bisogna conoscere benissimo i propri autori. Bisogna averli letti e aver discusso con loro le singole pagine. Bisogna essere convinti che quel romanzo che hai messo in catalogo non è soltanto conforme ai gusti del mercato, ma è, prima di tutto, un romanzo su cui tu scommetti come intellettuale prima che come imprenditore.
Trovare responsabilità degli autori è certo possibile, ma mi sembra evidente che essi siano la parte più debole del processo, un processo produttivo-distributivo che oramai non ha più nulla di artistico, se non per accidente, anche a causa della managerialità dei direttori di collana, ragionieri prima che intellettuali, lontani anni luce da un Vittorini o un Calvino, tanto per citare uomini e soprattutto un’epoca in cui la scrittura aveva il compito di riorganizzare la cultura nuova, antifascista e progressista. Forse oggi, sotto questo profilo, le cose sono molto cambiate? Ricordo quando scrisse Pasolini in Scritti corsari: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. […] Il Centro ha assimilato a sé l’intero paese” ha imposto cioè i modelli ”voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.” Anche l’editoria adotta questa logica, devastante perché annulla la specificità di ciascuna area socio-economica e nega il pensiero antagonista, identificando il bello con il consumabile, e il valore estetico con la valore commerciale. La deriva si argina non scaricando sul mercato la mancanza di idee e di coraggio, ma rifondando la funzione intellettuale della cultura come lo fu l’Einaudi dei “Gettoni” e la Feltrinelli degli anni Sessanta.

Due bandi letterari molto interessanti per la poesia e per la critica

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 Premio pubblicazione libro di poesia
indetto dalle Edizioni CFR


"Sonia Raiziss Giop Charitable Foundation", per iniziativa del poeta Alfredo De Palchi, finanzierà la pubblicazione  di 12 poeti al di sotto di 30 anni. Ciascuna opera sarà individuale e sarà pubblicata dalle Edizioni CFR diGianmario Lucini.
La giuria è composta da 5 critici di indubbia competenza.

Possono partecipare alle selezioni:
a)    Giovani che non abbiano superato i 30 anni al 31.12.2014
b)    Raccolte o poemetti (almeno 4) di almeno 500 versi complessivi, in italiano o in uno dei dialetti nazionali (con traduzione italiana)
c)    Termine per l'invio degli elaborati: 31.05.2014
d)    Pubblicazione degli esiti entro il 15 settembre 2014
e)    Pubblicazione delle opere nei mesi immediatamente seguenti
f)    Agli autori saranno donate 30 copie dell'opera
g)    Le opere edite saranno inviate a 15 fra critici, blog e siti web per eventuali recensioni.
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Le raccolte dovranno essere inviate in formato DOC, RTF o ODF, all'indirizzo mail gianmariolucini@gmail.comcome allegato di posta elettronica, oppure inserite nel corpo del messaggio.
I candidati dovranno compilare anche l'allegata scheda informativa e inviare 10 € per spese organizzative all'IBAN
IT  79  H  05216  83560  000000018953      Banca Credito Valtellinese
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Le selezioni saranno severe e se un quantitativo di 12 opere non raggiungerà lo standard qualitativo richiesto per la pubblicazione (a discrezione della giuria), verranno pubblicate soltanto le opere ritenute idonee e l'anno prossimo sarà costituita un'ulteriore selezione per il numero di opere mancanti, in modo da esaurire l'importo del finanziamento stanziato allo scopo.
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Scheda di partecipazione

(copiare, completare e incollare nel corpo del messaggio con l’invio delle opere, dopo aver sostituito gli spazi sottolineati con le informazioni richieste)
[Cognome e nome] ____________________________________________________________
[Indirizzo (residenza, CAP, Città)] ________________________________________________
[Data di nascita] __/__/____  [Telefono] _________________  [Cell.] ___________________
[Posta elettronica] ____________@______________

Breve curriculum
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 PREMIO PER LA CRITICA
indetto dalla rivista di critica poetica in realtà, la poesia 

BANDO
1.    
 Al concorso si partecipa inviando un saggio o uno studio inediti in lingua italiana di min. 5.000 e max. 10.000 parole. La nozione di “inedito” non si limita alla pubblicazione cartacea (rivista o libro), ma investe anche quella su web.
2.    Il saggio deve pervenire entro e non oltre il 30 giugno 2014 all’indirizzo emailinrealtalapoesia@gmail.com in due copie (formato Word e PDF) nominato come “titolo saggio – nome cognome autore” . È d’obbligo firmarsi con nome e cognome.
3.    Il saggio deve affrontare uno o più autori (italiani o stranieri), temi o forme della poesia. Onde garantire la verificabilità del discorso critico, riportare passaggi testuali dalle opere analizzate è un prerequisito essenziale ed imprescindibile: i saggi che non dovessero rispettarlo saranno esclusi.
4.    Tutti i saggi pervenuti verranno letti alla luce dei seguenti criteri di valutazione:
·         Originalità – ovvero, il contributo dovrà porsi (e porci) domande spesso tralasciate nel dibattito critico o i cui risvolti critici siano rilevanti ed innovativi.
·         Adeguatezza dell’approccio in relazione al tipo di questioni che il saggio affronta con chiarezza espositiva e metodologica.
·         Forza dell’argomentazione delle tesi esposte, che dovranno risultare intrinsecamenteconvincenti e opportunamente argomentate ed integrate all’interno dell’impianto del pensiero espresso in forma chiara, complessa e coesa.
·         Verificabilità del discorso critico, ovvero quanto le tesi esposte risultano estrinsecamenteconvincenti ed oggettivamente verificabili, illuminando i testi sottoposti a critica.
·         Efficacia e appropriatezza del linguaggio utilizzato.
·         Uso critico e non citazionista delle fonti utilizzate.
5.    Non ci sono preclusioni verso approcci o metodologie critiche, purché tutti i punti del presente bando vengano rispettati.
6.    La scelta del materiale poetico criticato e la posizione del critico nei confronti di tale materiale (per es. stroncatura, perplessità, elogio, esemplificativo, ecc.) deve essere esplicitata ed opportunamente motivata attraverso elementi tangibili che consentano la verificabilità del discorso critico.
7.    I saggi finalisti saranno pubblicati sul sito In realtà, la poesia entro la fine dell’anno con cadenza bisettimanale. La giuria si riserva il diritto di pubblicare sul sito lungo l’arco del 2015 a cadenza bisettimanale tutti gli altri saggi se lo riterrà opportuno e previo consenso degli autori.
8.    All’autore del saggio migliore verrà offerto un contratto di pubblicazione con le Edizioni Prufrock spavòlto alla realizzazione di un libro di critica che includa una raccolta di saggi del premiato (vedi Sezione C).
9.    Il concorso sarà ritenuto nullo se il numero di saggi pervenuti sarà inferiore a 15. La giuria si riserva il diritto di non assegnare il premio se nessuno dei contributi pervenuti dovesse rispondere agli standard qualitativi elencati al punto 4.
10.Per ogni ulteriore chiarimento, scrivere a inrealtalapoesia@gmail.com

B – PROCEDURE DI VALUTAZIONE 
1.    La giuria è composta dai coordinatori di In realtà, la poesia Luigi Bosco, Davide Castiglione, Lorenzo Mari, Michele Ortore, e da Luca Rizzatello (Prufrock spa). Nessuno dei membri della giuria potrà partecipare al premio.
2.    In una prima fase (dal 1 al 31 luglio 2014), ciascuno dei giurati leggerà e valuterà i saggi in maniera indipendente, per non essere influenzato nella sua scelta. La valutazione individuale in questa fase consisterà in una breve nota apposta ai saggi ritenuti più meritevoli e a un punteggio numerico (da 1 a 10) da accordare a ciascuno.
3.    In una seconda fase (dal 1 al 31 agosto 2014), i giurati si scambieranno le valutazioni: i saggi che otterranno il maggiore punteggio (media > 7) e/o verranno ritenuti i migliori dopo una discussione collettiva, entreranno nella rosa dei finalisti. Il vincitore verrà deliberato mediante una ulteriore discussione collettiva.
4.    Nella terza fase (dal 1 al 30 settembre 2014), verranno stese le note di motivazione a vincitore e finalisti, e raccolti gli altri riscontri brevi per il resto dei partecipanti che li riceveranno nel corso del mese successivo.
5.    I finalisti e, successivamente, il vincitore riceveranno una notifica via e-mail entro il 30 settembre 2014. Fino a quella data non è ammesso pubblicare o proporre il saggio in questione altrove (salvo un’anticipazione di max. 1/5 del saggio), pena l’esclusione dal premio.

C – CONTRATTO DI PUBBLICAZIONE
Al vincitore, nel rispetto di tutti i punti del presente bando, verrà proposto un contratto di pubblicazione con leEdizioni Prufrock spa, nella forma di n. 100 copie nella collana di saggi “Novità dai fiori”, di cui n. 10 in omaggio. Non è richiesto alcun contributo economico da parte dell’autore. Ulteriori specifiche contrattuali (detenzione dei diritti editoriali, durata del contratto, numero di pagine della pubblicazione, ristampe) saranno concordate con l’autore in fase di stesura del contratto.

Cristiano Poletti

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Qualche volta i bei libri sfuggono, specie quando il poeta preferisce stare nell’ombra. Uno di questi l'ha scritto Cristiano Poletti che, con Porta a ognuno (L’arcolaio, 2012), ci regala una poesia in cui l’occasione, il crudo evento, viene rarefatto, trasfigurato in una cifra metafisica, in un tempo sospeso che deve supplire la fugacità mortale del tempo ordinario, qui incarnato dall’allegoria del “vento”: “Il vento smangia / motivi ore, soffia / via e porta a ognuno / niente e tutto, segni / su segni, tra paese e paesaggio”.  Poletti si muove su queste due temporalità, tra “l’imbuto del giovedì” (bellissima metafora dal sapore deangelisiano) e una luce dechirichiana, che eternizza l’essenza di ciascun accadere, alla ricerca di “una voce / senza crepe”, sine ceradirebbero i latini, così che “la cosa nuda” possa mostrarsi nella sua integra presenza, francescana oserei dire, allorché si convenga che Poletti parte da posizioni cristiane prima che cattoliche, di testimonianza verso la povertà-autenticità dell’anima, prima che dall’istituzione. Anche la sua poesia crede che “l’inizio [sia] un sorriso, sempre” e poi la vita si corrompa, sino a un esilio irrimediabile: “Li rimettiamo al vento i nostri debiti” dice in A futura memoria, dopo aver chiarito, citando I Re 19, 11-13, che “Il Signore non era nel vento”, con ciò ribadendo che è nel tempo della storicità che la perfezione si spezza. All’uomo, anzi al poeta Poletti, spetta di ricrearla attraverso la parola, pur nella consapevolezza dell’inanità dell’impresa.  Egli affida, sì, a essa questo compito, parafrasando la formula rituale (“dire soltanto / una parola, essere salvati”), ma già conosce che camminerà come un Cristo sul Calvario, cadendo, sanguinando: “Mi faccio avanti, poi / passi e cado, sbuccio / le ginocchia all’altare / della poesia”. Questa consapevolezza si traduce immediatamente nel ritmo franto del verso, in un sincopato che sembra nascere da un camminare in salita, quando il fiato manca (un esempio fra i tanti: “Ricordami, se dimentico / questa luce naturale. Entri pure, / mi tocchi se vuole, poi via / dalla mente, e si sbrighi, sul foglio”), come se l’intero, il senza crepe, fosse indicibile e non ci si potesse avvicinare che strisciando, con frasi semplici, ma sempre inadeguate, sulle labbra. È il tempo della caducità – il vento, appunto – a portare a ognuno questo carico quale senso ultimo e salvifico del vivere. “Siamo attesi” a questo ufficio d’inchiostro non per soddisfare vanità, ma, ci dice Cristiano Poletti, per portare a compimento la nostra natura umana, che ha nella parola autentica il suo legame con l’eterno.



Il rifugio

Brucia al sole aperto dagli auspici,
fino alle posizioni del sangue,
la nostra attesa. Ci portiamo
dal meccanismo del rifugio
al labirinto dell’alfabeto.

È qui - qui sopra -
che chiamiamo
qualcosa, qualcuno.
Un grido, un giorno.

Tu intanto leggi
una preghiera. Io la rileggerò
fino a ferirmi
ma niente che sia
una via, un’uscita.

Come le mani, così i pensieri
si aggrovigliano. È vero,
c’è odore di camino.

Il futuro dell’io che brucia
annuncia il freddo.

Al rifugio, certo,
torneremo.



Chiaro il resto

Su per la collina, poi in cima
l’ordine di un disegno, la casa,
pare un cerotto messo al prato.

Confuso, il viso
prestato al paesaggio,
ferito dai giorni, non sa
la trincea di ogni notte -
ogni notte più scura.

Così chiaro il resto,
sul monte appena distante
il valzer nemico
inizia in un momento.

Sì, arrivano, non c’è tempo,
la piastrina smetterà
di ricucire il sangue.

L’uomo è preparato a questo.
È quel che pensavo,
è ciò che amo e lo riconosco.



Solo virgole

Il giorno è leggero, davvero
siamo giudicati, lo siamo già stati,
da un vuoto di tempo. È così,
non pesa più il verbo,
cancellato dai giorni.
Già orfani di frasi,
solo virgole.



Al parcheggio del Castorama

Presto diventerà il Self, mi dicono.
Io non lo trovo il posto, al buio.
Dell’insegna sotto cellofan non sapevo.

Avanti e indietro, niente.
Poi, l’abito della sua voce,
l’annuncio
fino alla febbre e trovarlo
in torace e mani.

Quando finalmente nel parcheggio
per decollare prendiamo fiato
e toccandoci le ali ci diciamo
andremo lontano
mi fa capire
che si respira male. Sì
e oltre l’affanno di due respiri
nessuna intenzione di riprovare
il volo. Così due colombe vanno via
in finta pace con la parola del Signore.



In coro

E mano
nella mano radunate
in questo nostro ininterrotto
ospedale la musica, quella
cresciuta alla fine,
al minuto contato. Vi avvicina
allora un passo da soldato. Presto
troverete intera la materia
del distacco, la materia
insegnatemi.



Sein zum Tode

Non amano il sole,
riescono a splendere
nel cuore di un
buio dopo il buio;

riprendono voce,
si prendono gioco
di noi che restiamo

nel vivo di quanto
prosegue la trama
finita del corpo.

Non metterti contro
i morti. Lo sanno
del fiore che porti
sul muro degli anni

che scrivi perché
li vedi nel vento.

Piangi ancora molto:
i morti lo sanno.



4

È che attraverso in terrore parole
costrette al fiato. Tu invece non vieni
a complicare il profilo del giorno.

Apri la porta al filo del sole
perché ci stenda i panni dei miei anni.
Prendi la sera, la tua ombra
la vedo stesa vicino a me. Sì
dico rimani. Mi fermo, ho voglia
di terminare la notte
e noi sappiamo che serve ripeterlo.



Abbandonato una sera

Una musica lo insegue
dentro il suo sorriso.
Ma non sento né vedo
tra luci accese per la sera quella
che ha forma di parola
nel dirmi: resta.


Cristiano Polettiè nato nel 1976 a Treviglio, in provincia di Bergamo.
Autore delle raccolte: Mari diversi, Book, 2004; Non Nome, Manni, 2007; Porta a ognuno, L’arcolaio, 2012.
Autore del saggio Trovandomi in inviti superfluiin L’attesa e l’ignoto – L’opera multiforme di Dino Buzzati, a cura di Mauro Germani, L’arcolaio, 2012.
Dal 2007 dirige Trevigliopoesia, festival poesia e videopoesia (www.trevigliopoesia.it).
Redattore del blog collettivo Poetarum Silva (http://poetarumsilva.com)
Laureato in Storia all’Università di Padova, è impiegato all’Università di Bergamo.
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