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Stefano Dal Bianco

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La prima sorpresa, per chi non conoscesse Ritorno da Planaval (2001), nel leggere Prove di libertà (Mondadori, 2012) di Stefano Dal Bianco, è la vicinanza al parlato, la prosaicità del dire, in contrasto con la raffinatezza del suo filologare sul metro zanzottiano e ariostesco. Distanza reale e apparente, nel contempo. Reale e voluta perché, in effetti, non c'è niente di più insopportabilmente difficile, per un poeta esperto in retorica e stilistica, di sottrarsi alla trappola del mestiere, di mettere in atto strategie immunitarie dalle soluzioni formali assimilate studiando gli autori del grande canone. Operazione inevitabile, tuttavia, se si vuol essere poeti, e che Dal Bianco vaccina, per quanto possibile, lasciandosi parlare da dentro, da quelle voci che vengono prima di ogni rigorizzazione, provandosi nella libertà dallaparola che conta, nella leggerezza del discorso monologante tradotto nella sua fase emersiva. Tuttavia si nasce naif, non si diventa e Dal Bianco lo sa bene: per questa ragione lascia entrare sottotraccia la sua maestria formale, la mette in gioco in modo quasi invisibile oppure, per contrappasso, la esalta sino farsene dominare, forse con una piccola dose di masochismo, in linea con l'inettitudine di chi dice io nel testo.
L'invisibilità, per esempio, la si trova in Diverse guerre: la parola in enjambement che apre il secondo verso, "risoluto", pur riferibile semanticamente al primo, completa metricamente il settenario del terzo, dando così ai tre versi incipitari la misura dell'endecasillabo: "Dal finestrino si vede un gabbiano / risoluto contro fronti di nuvole veloci. / Ma queste facce umane"; verso settenario, quest'ultimo, che, chiedendo concettualmente la prima parola del quinto, "lottano", diventa un novenario sdrucciolo, in falsa rima interna con "gabbiano" del primo verso.

L'evidenza si dà sin dalla lirica incipitaria della sezione "Lontano dagli occhi" (titolo che ricorda la saggezza popolare ma anche – ecco un altro esempio di cultura alta sottotraccia – un notissimo sonetto del poeta cortese Jacopo da Lentini Amor è un desio che ven da core): "Ho toccato la felicità stasera" del primo verso rima baciando "intera" e, poco dopo, va in consonanza con "pensieri" e "lavoro", non prima tuttavia di aver allitterato in "t" nel secondo emistichio del terzo lunghissimo verso: "senza pensare, lo confesso, più di tanto a voi per tutto il tempo" (altro calco del parlar fino della tradizione alta). Per non dire delle citazioni più o meno perfette, dal dantesco "Donne che avete intelletto d'amore" alla zanzottiana "perfezione della neve".
Questo punto va perciò ribadito: Prove di libertà, malgrado l'apparenza, non adotta una scrittura sciatta; se è povera lo è quasi sempre per scelta; ma, visto quanto appena affermato, non si tratta nemmeno soltanto di questo; è semmai povera per via sperimentale, coltamente povera sia per le evidenze già sottolineate e sia  – ideologicamente – per contrapporsi a una tradizione che è stata elitariamente ricca, snobatamente difficile e, soprattutto, scritta. E' nota la forbice tra oralità e scrittura nella trazione italiana, con grave danno, sotto il profilo culturale, per l'unità tra intellettuali e popolo. E questo tema, per quanto assente in quest'ultimo libro, era ben presente in Ritorno a Planaval: penso a Poesia che ha bisogno di un gesto, al suo mettere al centro la relazione tra poeta e pubblico. "Vorrei essere sicuro di non essere frainteso" scrive Dal Bianco in Plavanal; e questa preoccupazione la troviamo fortissima anche in Prove di libertà. E ciò perché la posta è altissima, riguardando la problematicità essenzialmente pubblica, civile nelle conseguenze, del viaggio verso se stessi, che la controfigura poetica di Dal Bianco mette in atto a partire dall'accidia che la pervade interamente, similmente al Francesco del Secretum: come Petrarca essa s'interroga sulle ragioni del vivere e del morire, dell'operare, dello stare in mezzo alla gente, sulla sua lontananza dalla verità, che qui si chiama "luce del creatore". Non si tratta dunque, per Dal Bianco, soltanto di scrivere un libro di poesie, ma di misurarsi con la lingua e il senso delle cose usando proprio quella lingua così inadeguata a indagarle. Essere nel vortice della "nullità paurosa" e da lì chiedersi ragione del proprio esistere, prima di qualsiasi sovrastruttura, "prima che torni ad essere dal bianco" come recita la chiusa ironica di Come ti chiami. Evidente la radice sapienziale del libro, con l'interrogare che fonda la scrittura, che la fa essere domanda su quell'ente capace di APERTURA, AUTOCOSCIENZA e VERITÀ, scritti stampatello maiuscolo così come maiuscolo è irrimediabilmente, avverbio che dice l'impossibilità del ritorno: non c'è rimedio, afferma Dal Bianco, alla vita e al dolore. Nemmeno la poesia salva, essendo "schifosa scappatoia". Semmai "sola medicazione alle offese del mondo"è il tremore di una "piuma di tortora", un dolce naufragare dallo stormir di fronde leopardiano, un frullo leggero come il sonno del figlio Arturo, nella sezione "Lontano dagli occhi", a cui Dal Bianco dedica alcune liriche dal sentire sabiano. Qui la controfigura si ritrae, l'autobiografia si mostra, chiedendo un metro, una misura che faccia da rete di salvataggio, che tenga il dolore entro le scansioni della forma. Ancora Petrarca, ancora la poesia che risorge, malgrado il poeta.


Lungo questa disanima ho lasciato anch'io qualcosa sotto traccia o non bene in vista: la possibilità che qualche volta la materia sia fuggita di mano, quasi che l'ispirazione si sia piegata alla necessità di buttar fuori scorie autobiografiche o pensieri ancora in bozzolo, e l'urgenza delle domande e lo stato emotivo "di debolezza estrema", ma anche l'intenzione gnomica, avessero appesantito il dettato, soltanto un poco, sia chiaro, ma sufficiente a rendere talvolta grigia la lettura, senza quei guizzi che invece tenevano aperta la comunicazione in Ritorno a Planaval. E' per altro difficile citare i versi incriminati perché il loro effetto in minore si produce spesso per accumulazione di piccole stringhe piane, modulate sulla funzione comunicativa e su strategie retoriche non sufficienti a mantenere accesa l'empatia. Il poeta stesso, invero, sembra consapevole di questo;  in Alchimia dei poteri, infatti, ci suggerisce la possibilità che alcune poesie risaltino, per difetto, sulle altre: "mi son trovato / a vomitare una poesia, non certo la presente, / che racconta solamente, / ma un'altra molto più importante, / che parla di vita e di morte e che mi piace / disperdere in un libro di facezie / per lusingare i cercatori d'oro". Sembra un gioco, ma svela molto della posizione del poeta nei confronti della propria scrittura e dice anche la sua distanza ironica dal dibattito sulla poesia italiana contemporanea, che sembra vivo soltanto in rete, pur risultando spesso fanfarone e inconcludente, più legato alla spartizione del potere piuttosto che all'onestà intellettuale.

Qui alcune sue poesie.


Premio Tournament: Giovanni Turra Zan, Nadia Agustoni, Davide Castiglione

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Come indicato sul bando dell'European poetry Tournament, escono su Blanc le poesie di 3 finalisti. Il prossimo mese, altri 3.

Giovanni Turra Zan in Generazionerievoca, fra l'altro, l'eccidio di Granezza (6 settembre 1944), l'incertezza assoluta della Storia, quando incontra l'incertezza delle sue creature. Eppure le donne qui raccontate sono capaci di resistere allo sfaldamento delle cose. Sono le femmine della casa, cerchio del riconoscimento, dell'identità condivisa. Nella prima strofa una di queste, forse staffetta partigiana, prende la parola. Turra Zan ci vieta di familiarizzare con i personaggi di questa storia dolorosa, ci lascia entrare appena, con pudore, in quella soglia contadina. Nella seconda strofa, la voce cambia; il lettore forse ritrova questa donna, ora anziana. L'atmosfera, tuttavia, non è molto cambiata: ancora la fatica e le vecchie abitudini, anche culinarie, danno il ritmo all'esistenza. Giovanni è bravissimo a non cadere nelle retorica, a focalizzare l'attenzione sui dettagli, a tenere accesa l'attenzione con metafore efficaci, con una toponomastica ben riconoscibile per chi vive dalle mie parti. Lo straniamento viene dall'uso di nomi propri anglosassoni, dalle "lettere albanesi", ma non è un mistero che sull'Altopiano di Asiago ci siano cimiteri inglesi e anche del popolo balcanico. L'attrito con quei nomi è prodotto dal dialetto vicentino, in un plurilinguismo misurato, mai dominante.



UNA GENERAZIONE.


Perduravano le incertezze mentre l’ombra scendeva
sui morti e l’isola e la casa venivano occupate.
Avresti preferito nasconderti a Granezza, ma le donne in famiglia
cadevano dal sangue delle generazioni e la madre voleva le figlie
nella cucina con la stufa e la porta sul letamaio.
La poltrona rossa reliquia al focolare, la ricordi nel giorno
del sussurro che vi ammutolì, con tutte le femmine impegnate
al tavolo nel gioco solitario. A Bosco Nero, Loris era caduto tra i germogli
dei carpini; il suo corpo nascondeva le larve della prosperità,
ma non fu più per noi il perdono dell’aria che irritava le porte di casa.
Fu per tutte e sette noi donne quel dissimulare di granito
 che ci ammalò il pianto, salvo che per Mary, che rese vasta.
Quando anche Tom lasciò tutta la prigionia di una vita,
e non più solanacee a ricordargli la nausea del mondo,
come in Germania nel ’43, piangeste di lui i completi di lana
sul cancello di casa, come ultima consegna della cura, della storia
amata come l’erba intorno all’acqua, che riempiva la brocca
en tel làbio ogni santissimo giorno dell’anno.

Siamo a maggio; il colore del pane biscotto uscito dal forno
vi invita alla festa della discendenza,  e la preparazione del rito
avviene come nel romanzo dell’orgoglio. Rivediamo i volti
dei giochi, e la compagine australiana sorta con addosso tutta la salvezza.
Disperavano di ritrovarti ancora viva e tu, gigante odor di mughetto,
ti stagliavi a simbolo della linea di difesa d’ogni onesto racconto di  [resistenza.
Veniamo a testimoniarti gratitudine per il dispiegarsi del libero discorso,
tra la linea del canto, che avviene a salti e ad accenti, e quella di un dire
stanco, forestiero. Sorella delle lungaggini, sapevi i trucchi dei non detti,
delle camicie inamidate nel cesto, di po’enta e fasòi, col brutto naso
che i tedeschi ridevano, lasciandoti portare i foglietti sui monti.
A piedi, spingendo la bici, aprivi il varco a quelli tra noi più liberi, 
e lasciavi che corni di metallo spuntassero dai muri di cinta, a ricordo
dell’esproprio del ferro assassino, sotto cui cadevano
i nomi dei maschi nei boschi (tutti belli, forti, affamati di donne
e di fabbriche). Dov’è nascosto questo futuro chiedi, dove siete amici
sepolti e con voi il passo dopo passo, con le stalattiti di ghiaccio ed il grano?
Restano sole le cose da incartare: due fotografie dell’amata maestra
della scuola elementare, anche della madre, le lettere albanesi di Tom,
due vasi, i cerchi di marmo da cui spuntava una goccia
di roggia, come un pianto vecchio cent’anni e uno; i libri di Mimma e
ancora quella rossa poltrona. Fa freddo. L’inverno mangia i cigli
alle strade, e ora che la casa è stata ritrovata, posso essere
sepolta con le cose declamate alla festa dei cent’anni.


***

Nadia Agustoni, come Turra Zan, ci proietta nella grande storia, per un lungo tratto mostrata per emblemi e a una velocità furtiva, vista da carri trasportatori di corpi, da occhi che vedono frecciare il paesaggio e non capiscono la meta. L'anaforico "Erano già alberi" dà il ritmo al viaggio di avvicinamento ad Auschwitz e a tutti luoghi della disaccoglienza, del rifiuto. Anziché alzare la voce contro il negazionismo, Agustoni mette di fronte l'evidenza degli oggetti, dei corpi raccontati nella loro disarticolazione (mani, denti, capelli, piedi, testa, braccia). Ancora più che in Turra Zan, Agostoni, qui, fa poesia in-re, da dentro la situazione, stando in posizione fenomenologica, così che il suo commento si dipani quale messa in scena di una possibilità costantemente in agguato, fattasi carne nei campi di sterminio e nelle parole ideologicamente sporche di Faurisson, ma ripetibile ancora, all'infinito. 


Commento a Robert Faurisson
                                                                           
                                             a chi è partito  
                                                                           
                                                        “Bisognerà progressivamente ammettere                               
                                                          che nonè esistita ad Auschwitz la minima
                                                          camera agas omicida... “  Robert Faurisson
                                                          19 gennaio 1995 a Radio Islam


Erano già alberi
crescevano fumo e traversine
a lungo sognarono i binari
le case lasciate indietro
erano grandi come mani
a volte facevano con le mani aperte
un silenzio che non credevi:

coi capelli e coi denti
battevano il tempo fermo
e sementi di uomini
vedevano rondini
cercare un campo
credevano che il campo nella neve
li avrebbe raccolti:

erano già alberi  
i fiori li guardavano
come un ciliegio che dal bianco stilli il rosso:
“tu imparami il vento,
con una preghiera chiama
gli uccelli, ascolteranno
la nostra voce, le parole
non siamo più noi”:

la guerra era sul grano
sparavano sopra
come a un cielo
andavano via guardando i paesi
là erano giovani erano il tetto e fondamenta
qui le foglie come gli occhi
la polvere come polvere
il pensiero della lepre:

erano già alberi
li abbattevano, c’erano
nei tronchi i loro petti
sui rami facevano un tavolo
la casa era un quaderno
scrivevano: “noi il buio sappiamo
che esiste”:

era un celeste essere vivi
una notte due notti
un giorno davanti...
pensarono uno alla volta
il figlio il padre
la sorella il bambino
dei vicini che giocava:

erano già alberi
aprile un’aria d’ortiche
sul mondo
erano nei piedi nella testa
nelle braccia
a capire piangevano
come il cuore di un altro:

a dicembre il fumo
coi cavalli, pensavano
dentro le scarpe
a come dovrà piovere tanto
per non soffrire più
verranno coi boschi
le piante col legno
della terra, verranno
carbone.


***

Come i due autori precedenti, Davide Castiglione ci porta dentro la scena, in una zumata d'avvicinamento macroscopica; leggendo, viene subito da chiederci: chi annera i vetrini, in quale spiazzo? E le voci si moltiplicano, e lo spesamento del lettore è sempre più grande. Chi entra, chi si alza? Castiglione procede nella sua descrizione minuziosa, non apre allo sfondo. Però parla di "fuoriusciti", ma da dove? Dall'immagine, dallo Stato tiranno? Quello che sappiamo è che c'è luce e c'è ombra, e c'è un interno e un esterno. Siamo nella vita, forse, o nel viaggio post mortem? Di sicuro non siamo soli. E qualcuno ci guarda, li guarda. Castiglione ha la capacità di sprofondarci dentro l'imbuto, di farci sentire sul collo il fiato dei carnefici, se non fosse che il titolo, Eclissi, ci riporta al quotidiano, alla curiosità testimoniale di chi vuole fissare con gli occhi l'impossibile: quel sole-bene-di-Dio che oramai è soltanto un astro bollente, un fuoco senza teologia. E il nostro viaggio non può che fermarsi all'inferno. 

Eclissi

I

Stanno in uno spiazzo, annerano vetrini. Seguirli
li seguirebbe prepararsi al passaggio, nell’aria educata
a ritornare dalle pale della ventola
entra uno e gli afferma sopra, forza
guardala da fuori: ti do il cambio. Fa per alzarsi,

esita – l’altro
riprende, come si è un secolo in vantaggio, hai tarpato
le tue possibilità non appena lasciavano le tabelle
per la luce, non intuendovi cifre a sostenerla. Quindi

i fuoriusciti si invetrano nel fenomeno,
riparano in estasi per minuti sette.

II

Ha esordito in pieno oscurarsi, con una presunzione
di filigrana – per avere approfondito
il suo stesso corridoio, assottigliandosi all’uscita sino
a una qualche
chiarezza. Gli è simile,
a suo tempo soppesò il nocciolo al bilancino
e così le circostanze, si inscrisse in corsia
per definirsi, capire dove finisse.

Gli tocca la spalla, sovrappone
a quelle schierate sul banco le sue schedature  (l’essere
simili fa proseguire o meno l’ombra
prima ripiegata e sola?).

Tra monitor e porta aperta,
tra sfiorarsi e fare ridondanza.




Carla Bariffi su "Le volpi gridano in giardino"

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Apro la lettura con una parola che si presenta in maniera forte e determinante: congiungimento, unione, affinità: il trovarsi, di due corpi celesti in posizione tale che, visti dalla terra, figurino sullo stesso allineamento.

Nella prima sezione, Canti dell'amore coniugale, si avverte, forte, un luogo femminile, quello dello stare quieto della scapola, dove la donna si fa luogo, rotondità, protezione.

                         

                        Essere uno, essere due

Lo stare quieto della scapola
nel corpo tuo che fascia, tondo
sulla slogatura del prato
mentre si screpola il giorno
al pane nostro fiato
finalmente uno in questa buca
celeste, in questo andare che ruota
e non ha fondo. 

Così sento questo dipanamento del verso, che offre litografie in bianco e nero sotto forma di figure perfette come l'uroboro, il serpente che si morde la coda, unità fondamentale del cosmo, oppure, talvolta, sotto forma di impronte appena accennate, didascaliche.


Perfetta figura


Dici quercia e bacio, aspetti
un cielo digiuno che spiova.

Sdraiata la lingua sulla pietra
scivoli aperta nell'animale
che dorme: pare il cerchio
una figura d'amore, perfetta
se non divora la prole.


Poi segue, in Poesie londinesi, una trasformazione, il dettato si fa frammentato e acuto, ne risultano aforismi sotto forma di esperienza

Non c'è canto, lo so. Però il corpo
talvolta, parla da solo, ama il fango
più della luce e cancellare tracce
darsi malato...

Colpisce anche l’ironia, che in certe poesie, prendo spunto da *vendo monade con vista*, si offre  con trasporto:


Incanto


vendo monade con vista. e occhiali
d'oro per letture preziose. oppure scambio
con piatti chiari e amicizia. cedo
camicia lunga per forza.

[...]

offresi compagnia casta a signora perversa.
regalo topolino bianco sodomita, vera occasione.
cedo parete nord per carezze artiche.
cerco lingua ruvida che solluccheri. no yeti.

Fino a proseguire, nella seconda sezione,  con Paesaggi con poeta, dove troviamo un canto più esteso che presiede l'attesa:

[...]

Io per me vorrei uno sfondo che non decori
ma dilati il senso dello stare, un tavolo di frutta
per esempio, e una figura, che sorrida a morti e vivi
senza strafare. Vorrei narrare, ma con spiacere
di mamme vermiglie nel rione degli infetti e di città
imperfette in cui s'annida l'erosione. E di prigione
vorrei dire, esilio dai prati, dai nomi, dove sognare
non l'ora d'aria, sola, ma il guado, e scrivere di te
di quando sfidi rocce e mulattiere
guardando in valle il torbido che cresce
di te, quieta, presso l'acqua dei nevai.

Per poi esplodere nel bellissimo: *Voglio dire*, così tipico della voce del poeta, quando, consapevole, acquisisce il disincanto del dettato e lo trasmette a fior di pelle in un'esplosione organolettica.

[...]

Però, davvero, ancora mi domando
se questo paravento abbia un senso, se questa messa
in pena valga la cera e quanto o invece
buchi meglio lo scherno l'impiego crudo del vero
con corpi monchi e scalpi o l'allegoria
feroce che fa da linfa alle feste del potere
da Luigi quattordici alle undicimila verghe alle centoventi
di Salò, baionette antiborghesi, anche se poi
tutto rapprende in solida bolla, s'ingloba
in carta buona e lancio editoriale.
Però la borghesia, forse, per quanto
piccola, e il proletariato e l'ospite indesiderato
sono comode figure, semplificazioni che sporcano
di meno. Ideologie, appunto, tare. O almeno, così pare
se è di questo che da Parigi a Casarsa si dice
e non, invece, come credo, della bestia oscena
del maschio disumano lanciato contro la femmina
motrice, chimerache spaura perché più dell'uomo penetra
più di lui domina la scena. Forse di questo stiamo parlando
anche quando cantiamo l'amore o i punti vinti al gioco
quando chiediamo se val bene questo
quello o l'erba in mezzo, come a beato ristoro
poetando.

Come vedi mi cito, mi chioso
con tutto il corpo che posso, scopro la voce, le voci
che come a Giovanna mi sparlano dentro, per liberare
la faglia, così che spiffero e buio e quanto rimane da dire
come da botte larga escano fuori o da bottega
ch'è un fare felice, se campana, per esempio, nasce
da terra ed ingegno, come in un film di Tarkosvkij
o da una poesia di suo padre, dove "l’erba come un flauto
- d'improvviso - cominciava a suonare".

[...]

L'uso delle congiunzioni, l'affermazione di un limite che però diventa risorsa nel momento stesso in cui ci rende consapevoli, sono espressione di uno stile che rende il vissuto partecipe dell'uomo, coinvolge ed ammonisce, si racconta e ci racconta, le tante sfumature esistenziali.

Lascio scivolare le impressioni per poi catturarle nel gesto che suscita ricordi e sensazioni perché è così che avviene la trasposizione della parola poetica  scritta e ricevuta.


34.

se dalla luna, lui, portasse indietro un grammo di ragione
o il suo lume. se studiasse i modi finiti e infiniti di spinoza
e vi scavasse dentro una pozza di vita vera. se insabbiasse
il perno che lo lega alla pancia del denaro. se ogni tanto
si girasse come l'angelo di klee. se inorridisse.


Un corpo che si estende nel pensiero, pur conservando la sembianza delle ali dell'angelo di Klee.

Una poesia sperimentale, quella di Guglielmin, dove forte si avverte il tentativo di ricercare una costruzione che agli occhi del poeta stimoli le connessioni mentali. Un linguaggio difficile a tratti, a tratti anonimo perché non sempre ci è chiaro il soggetto, o il senso, e questo ci spaesa, ci rende nomadi all'interno di un percorso dalle molte ramificazioni.
Penso che la sua voce sia volutamente indiretta, lontana, suggestiva.


Carla Bariffivive a Bellano, sul Lago di Como.
Ha pubblicato“Aria di lago” (LietoColle, 2006) e Rapsodia in rosso (CFR, 2013)

Sue poesie sono presenti in alcune antologie e su riviste e siti on line:
LietoCollelibri :”L’albero degli aforismi “2004 – “Ti bacio in bocca” 2005 – Luce e notte, 2007.
Giulio Perrone Editore “Poeti lombardi” – “Logos poesia” – Aletti Editore: “Poesie italiane”.
“L’impoetico mafioso” CFR ed., a cura di Gianmario Lucini – “Esistenze e resistenze” a cura di letteratura necessaria. La Soldanella è il suo blog.

Franca Mancinelli

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foto di Enrico Chiaretti


La sensazione più forte che provo leggendo Pasta madre (Aragno, 2013) di Franca Mancinelli è quella di toccare un verso dalla pelle sottile eppure robustissima, che avvolge l’energia dirompente della vita come un palloncino argina l’aria compressa e ne determina le fattezze. Ciascuna lirica ha perciò una potenza rara, che lo stile s’incarica di conservare, anzi di amplificare attraverso richiami fonetici interni e altre strategie formali che fungono da tensori abilitati a comprimere ulteriormente la materia. Che non tracima perché integrata con la superficie, sua polpa amica, mai doma, tuttavia; in ebollizione, piuttosto, magmatica, che diviene plasticamente elegante quando l’aria – la pelle del verso – la cristallizza. Molte delle metafore, infatti, hanno la bellezza del vetro di Murano dopo che il mondo l’ha raffreddato con le sue correnti. E sono plasticità dalla natura gestuale, come questa: “La luce si allarga / come una macchia. Qualcuno / urtando ha versato un altro giorno”.
Già il verso d’apertura racchiude questa magia, surreale nella forma, metafisica nella sostanza: “cucchiaio nel sonno, il corpo / raccoglie la notte”; immagine che ci rimanda alle concavità di ogni ventre femminile, biografia mitica della terra che custodisce gli esseri, dunque, ma anche – e per tutto il libro – storia di una rinascita personale, cominciata alzando “sciami / sepolti nel petto” dopo una lunga lotta amoroso-conoscitiva con il sonno: “Mi sono ritrovata, inizialmente, murata in una stanza. Pochi gesti ripetuti all’interno di uno spazio chiuso che si confonde con il mio stesso corpo […] aggrappata al sonno come all’unica porta che si apriva” racconta Mancinelli nell’intervista rilasciata ad Andrea Cati per il blog ”Poetarum Silva” circa un anno fa. Ossia prima che uscisse il libro, a fargli insomma da apripista, a guidarci a una lettura che tenga conto tanto del privato quanto dell’ontologico, del dolore personale per qualcosa che si corrompe ma anche della consapevolezza filosofica che la crepa è cosmica. Non a caso, Pasta madreè disseminata di segnali tellurici: “frantumare”, “infiltrazioni”, “lampi rotti”, “crolli”, “territori ostili” danno ciascuno il collante precario, il fondo insicuro a un io narrante altrettanto fragile, che si muove dentro "una musica / di sbarre e ringhiere" dopo aver tagliato il cordone ombelicale: "padre e madre caduti / frutti che non potevano / marcirmi attaccati". Se in Mala KunaMancinelli tentava di arginare il senso stabile – e per ciò stesso immobile – del proprio essere-al-mondo affinché non fosse maciullato dal non-senso che il tempo diveniente, per la sua natura rapinosa, possiede, ora nulla mantiene stabile coerenza, tutto si metamorfizza, così che la scrittura, come afferma Chiara De Luca nel blog di Rai news 24 (4/06/13), ingloba “l’umano, l’animale, il vegetale, il minerale, scambiandoli, mescolandoli, lasciando che il sangue degli uni scorra nelle vene degli altri, nel reciproco esondare l’uno nell’altro attraverso vasi contigui, comunicanti, dialoganti”. Mancinelli si pone al centro di questo vortice, non più per rappacificarlo, come una Penelope che ripristini gli arcani notturni della casa-rifugio, bensì, intanto, per farsi attraversare sino al midollo, per patirlo con un lungo e ragionato sregolamento dei sensi e farsi così veggente, stando distesa sul letto, come una mistica medioevale tuttavia oramai convinta che il senso ulteriore le chiede di alzarsi, di camminare modernamente sulle ferite della terra, per conoscerle più a fondo e trovarne la necessità che abiliti – lei e noi, suoi fedeli lettori – al viaggio verso “la punta / dell’ultima montagna”.





cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono               
ali. Quanti animali migrano in noi                       
passandoci il cuore, sostando                           
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,                          
non restare impigliati tra i nostri         
contorni di umani.      



***

con un fianco immerso nella siepe
e mani che triturano feroci
andiamo fraterni accarezzando
il torace dei cancelli. Bambini
sgusciati per la strada, una musica
di sbarre e di ringhiere.



***

penzola a vuoto a un lato del letto
i piedi bruciati; 
il pavimento trattiene il suo volto
in vene di marmo. La luce si allarga
come una macchia. Qualcuno
urtando ha versato un altro giorno.
Torneranno a tracciarsi le strade                                   
alle scarpe che vanno
confermando i confini                         
di cose tra cose.



***

ho smesso di reggere i muri   
donandomi ai crolli
          
ricomincio, abbreviata
torno a quello che sono:
una lucertola che si divide
a metà con la morte. 



*** 

torno a immergermi nel corpo
azzurro e buono di una domenica
mattina, fraterna ad altri
senza capelli e occhi, muti
come in un giorno di lavoro                                
per corridoi
con altre ombre accanto.
Ma in questo chiaro di saliva
cloro e seme, abbandonata ognuno
la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo  
bambini con un segno d’acqua in chiesa. 



***

dormivo su una pagina ogni notte
bianca. Il mattino
un’ombra del mio peso, alcune pieghe  
e subito voltava: proseguire
è questo a capo del principio,                            
bocca che passa calore                       
all’aria come potesse svegliarsi                            
essere ancora salvata.


Qui la sua voce in un'intervista di Veronica Tinnirello

Bernardo Pacini

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Bernardo Paciniappartiene a quella schiera di giovani poeti colti che hanno fatta propria la rottamazione dell'aureola, così come aveva insegnato il bisnonno di tutti i poeti sensuali prima che filosofi. Come Baudelaire, infatti, anche Pacini inCos'è il rosso (Edizioni della Meridiana, 2013) mette al centro la percezione sensibile, ma se il primo giocava d'attacco verso i passanti, uscendone vincente, il secondo – sin dal testo d'apertura –  si fa mettere in croce da uno di loro, che gli mette di fronte la non evidenza delle cose, la complessità che si cela dietro le apparenze: cos'è il rosso? Un colore del dovere o del piacere? Un semaforo che ti impone la sosta o due labbra impossibili da dimenticare? Il giovane Pacini (o meglio la sua controfigura lirica) attraversa una Firenze notturna, godereccia ma anche piena da solitudini inconsolabili, con le quali egli si confonde, tra la paura della morte e il vanto di comporre un verso dove un sintagma raro e prezioso (per es. "le braccia insugherite") si mescola al quotidiano grigiore di una "macchina da caffè". Il gioco di miscelare il registro alto e basso, il libro e la strada non può che piacere a un poeta colto come lui, specie se ancora nell'età in cui il vivere precario non ha sulle spalle alcuna altra responsabilità che quella di uscirne vivo. E per fortuna, che così il buio e l'ombra e l'inferno che ogni tanto si impongono in questo libro non mutano in dramma, lasciando invece la voce all'ironia, all'autoironia. Sono "un dante che ha lasciato virgilio / per google": sposalizio felice tra i due motori di ricerca, che strappa il viaggio del suo concittadino medioevale dalla solennità del bene e del male, per una più modesta ricerca di uno spazio abitabile, se non altro virtuale e di natura estetica, che lo faccia sentire "in sezione aurea con l'alba" fiorentina. Eppure Pacini non sta scherzando con il lettore, non gli strizza l'occhio, ma soffre davvero come tutti gli inetti della letteratura novecentesca, e lo si sente quasi ad ogni poesia; lascia segnali, semi inequivocabili: ecco allora la "canicolare solitudine" e lo spaesamento, l'uso della negazione ad ogni piè sospinto ("Non scrivo perché non sono"; oppure: "Non c'è spazio né saliva"). "Niente anestesia", insomma, "ma soffi di sangue", di un rosso che qui sa d'amore non corrisposto, tolto da una Beatrice-Clarissa, non si sa se per vocazione claustrale oppure per disinteresse biografico. Di fatto, scrive il poeta infelice – e stufo tra l'altro di frequentare giovanastri intellettuali, suoi simili eppure nel profondo assai dissimili – "desidero la tua presenza: / come un bambino / appiccicherei il naso / sulla vetrata del tuo viso". Il verso è breve, il gusto paronomasico evidente, la paura di aprirlo alla politica, forte: forse per questo si sente "costretto all'immobilità", ad un'anarchica immobilità rispetto al tempo del progetto, che, nel libro, muta nel suo opposto: in un frenetico andare di sponda in sponda, dentro Firenze e, da lì, a Malaga a Parigi, ma come una foglia, un tronco senza radice. Il poeta lo sa, e ce lo dice: "Non credo che mi alzerò da questo scalino" se non per scrivere; ma cos'altro è la scrittura se non l'accettazione della nostra natura sociale, un tessuto in cui il molteplice si organizza in una casa comune? Un'accettazione tuttavia non ancora diventata carne, pratica quotidiana, e questo porta Pacini a una parola elitaria, che separa anziché offrirsi quale esperienza archetipica del profondo, nella quale si nasconde e gioca invece di sentirla come il meglio che un poeta possa dare alla comunità dei viventi.





la fortezza è uno scatolone chiquita


«Le città invisibili di Calvino?
Mai sentito, non è mai stato ristampato…»
– mi risponde, ma pensa a sua madre morta
l’anima lasciata ad asciugare sul filo
a Napoli –

(E intanto la Fortezza è uno scatolone chiquita:
un ossuto titillare di polpastrelli
su una balena di ceramica
o su una maschera Bwa
intarsiata da Olaitan o da suo nonno Sou
ma destinata all’avv. dott. Arena
I venditori di poche parole
attori bugiardi
riparati dietro paraventi rabberciati
commerciano pezzi minimi del loro corpo
tempestati di chiodi storti di armadi
foto di «donne-fidanzati-fiori-donne-donne-fidanzati»
una forchetta l’unica nella miriade di miriadi
con ancora una crosta di pomodoro
il dattiloscritto quello originale famoso
che recita All work and no play makes Jack a dull boy
una pipa che non fuma più
un Bodini spiegazzato
Plutotostapane
lo scialle della regina Elisabetta)

«… però ne ho molti altri di Calvino
tutti a prezzo economico, non andartene ti prego
non lasciarmi qua da solo…»



in sezione aurea
                        a Paolo Fabrizio I.


Mi sto staccando dalla notte
come scotch nero al sole
ma insiste sulla cartapesta della città
una purea di voci e canne
                                    fumate piano
mentre a media velocità
vedo rastremare Firenze
spogliarsi e sui fianchi mostrare le smagliature
darsi roca a una donna
bloccata sull’arsi del passo

E voi che mi fermate
sapete a chi state
chiedendo aiuto
per far ripartire l’auto?
a un dio, a un dio cieco
a un muto col megafono
a un sordo che scrive sinfonie

a un dante che ha lasciato virgilio
per google

Tenetemi un attimo la bici
non strappate la ragnatela dal campanello
che penda ancora se davvero un ragno l’ha tessuta
al manubrio di Clarissa

Sappiate poi che ora
che mi sono appena staccato
mi lega la notte con altro filo:
che rialza lo specchio
mi allaccia a Firenze
mi mantiene in sezione aurea con l’alba



nei momenti di passaggio
                                    
                              Di rosso vestito per mano alla madre
                              scoprivi le contrade di Firenze
                              Piero Bigongiari

Scagliato tra le vie di Firenze bene
sembro polvere di quarzo
liberata nel deserto:
tutte le strade portano al duomo
anche se forse non è vero

Scopro di essere inelegante
ma non perdo il passo

Le torri e le loro iscrizioni
rovesciano la tradizione sulla gente,
specchi farneticanti su cui tutto il niente
scintillando scivola

Il castigo del sole per noi
è una canicolare
solitudine


insonnie


Il piano urbanistico non aveva previsto certe albe
Qualche solitudine cingolava i suoi passi da nord a sud
sorseggiando la luce da otri di vetro non turati
stringendo in mano un mannello di carciofi da offrire
                                                                        alla vita
che di schiso usciva da loro in frattali
a fiotti intermittenti
quasi una magagna nelle tubature
un incubo conficcato nel sonno
come una scheggia saettata dal legno della staccionata





in fondo alla mina
                        
                                    a Ronda con Clarissa


«Si tratta di un’anatomia basata
sui carbonati azzurri» dicono i rondegni
piangendo un flamenco
sul nostro piatto di gazpacho

Ciò riguarda l’abisso di sole
che piomba sulla groppa del cavallo mascherato
nella plaza de toros
e il dedalo di case bianche
come vene vuote
invase di dissipato clarinetto

Ciò riguarda l’arancia
disfatta sull’asfalto e colata nelle entraglie
di una città ficcata nel passato
come una ciste
dentro un chiostro di sibili
e fantasmi aridi, senz’acqua

Ciondola stanca come i vecchi poeti
Ronda vana e strepitosa
su di un fiume che le bacia i piedi

Ronda peccatrice
carceriera di cigni
schiudimi i tuoi penetrali
dimmi per che sei

E naso in alto o bocca sulla guancia di lei
arrivo in fondo alla mina
                                    del Rey Moro
al bacio dell’acqua azzurra
a imburrare le mie dita
delle umide pareti carsiche
che cingono la tua anima, Ronda
e la mia



in treno a san mommè
                                    
                              a Walter, che mangira

On your marks-set-go
dal traliccio all’acero
in sette secondi
tre decimi spaccati:
sono più veloce del buio
e di Bolt

Il vento sbocca dalle grotte
e coi polpastrelli
smeriglia i miei occhi
assiepati al finestrino


Nessun attimo incontra se stesso
e quindi
s’inceppa la mola dei miei perpetui ritardi:
set-reset-go
a certe velocità
come la maiolica
mi sento rinascere

Qui ora a San Mommè
si incastri la mia voce
tra le braccia di un castagno
ammorbidisca come le pere
si bagni in un’arteria di rugiada
ottenga la perfezione della nocciola

Chiedo solo che torni pur fioca
sul treno di mezzogiorno e ventotto


Bernardo Paciniè nato a Firenze nel 1987. Si occupa di filologia moderna, in particolare della poesia di Dino Buzzati e Carlo Betocchi. Ha diretto per alcuni anni la rivista musicale on-line www.unprogged.com, dedicata al progressive rock.Dopo una plaquette fuori commercio, intitolata Miracolo di Cemento, ha pubblicato Cos’è il rosso per le Edizioni della Meridiana. Ha vinto il premio De Palchi-Raiziss 2012. Collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna e, a Firenze, coordina assieme a Paolo Fabrizio Iacuzzi la rassegna di eventi poetici “M’illumino di un verso”.

Giusi Montali

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Seguire la dialettica luce/notte è il modo migliore per incontrare, sotto il profilo paradigmatico, fotometria(Edizioni Prufrock spa, 2013), di Giusi Montali: pag. 38 ("lei sa / di essere buio venato di luce"); p.41 (la notte "cosparge i polsi di luce"); p. 57 ("notti dalla luce spenta"); p. 61 ( io "sono le stelle disseminate [...] / [...] nel buio che illumino"). Dalla percezione di sé quale sostanza buia attraversata dall'oro della luce, alla forza solare della notte, fino ad entrare nel buio più atroce, per uscirne stella, che risolve parzialmente quel buio. Il buio tuttavia non passa mai completamente, lo si può al massimo indicare con la luce che si è conservata malgrado il lungo travaglio, dargli ragione mostrandolo (e, ma solo in piccola parte, dominandolo). Siamo perciò di fronte a un percorso verso una salvezza fisica mai del tutto compiuta e che, per questa ragione, diventa mentale: "Luce nera" s'intitola l'ultimo paragrafo, il più cupo – mi spiega privatamente la poetessa di Carpi – nel quale "il soggetto è immobile, malato, e il viaggio che si percorre è tutto interiore".

Fotometriaè dunque un libro sulla luce e sulla sua mancanza, ma anche sulla malattia, raccontata per lampi e scarti, a partire da una definizione di campo, che mette a fuoco le coordinate spaziali, da leggersi come materiali di costruzione del libro stesso: "Io preferisco / la scienza dello sguardo / la prossemica infranta / la limatura del corpo / la sospensione dei sensi", si legge nella porta infernale edificata dall'autrice, per illuminare, anche di luce sinistra, la nostra lettura. Ossia ci dice, programmaticamente: il mio campo d'azione sarà il buio e il guardare, saranno i sensi e la loro mancanza, il tatto e la distanza tra i corpi, la loro eccitazione. Eccitazione (che è luce emanata dagli oggetti, fotometria, appunto, ma anche desiderio, luce radiosa dei corpi in amore) e mancanza di eccitazione, scoramento, buio siderale, che cerca compensazione alimentando l'immaginario.

Che cosa sognano i ciechi, si chiedeva Diderot nel vivo di una polemica sul rapporto tra conoscenza e percezione. Giusi Montali, nella seconda parte del libro (le ultime tre sezioni, delle sei che lo compongono) porta all'incandescenza la questione gnoseologica, declinandola in un viaggio febbricitante nella cartografia del corpo, della conoscenza del mondo attraverso il corpo: "Fuggo piano, mi elevo, supero il confine / mi arrampico sulle costole, discendo alla colonna / vertebrale, inverto la salita", sino a deflagrare e così illuminare il buio; oppure, in quell'andare, sprofonda nel "verde intenso / dell'acqua" per ritrovarsi, orribile visione, succhiata da "microrganismi tenaci" o, ancora, si ricompone "nel vuoto, nel bianco di un'ascesi inversa", valere a dire precipitando "sull'orlo di un bianco gelido che perfora / e risveglia", ad attestare che non c'è salvezza in questo lavorio dell'immaginazione per sopperire l'immobilità. Non c'è salvezza e nemmeno speranza: "Dove sei mio cuore disperato" si chiede infatti Montali verso la fine del racconto, come un'eroina ottocentesca (o forse con amara ironia), per subito compensare questo cedimento sentimentale con un lessico freddo, modernissimo: ecco allora che "il faut assassiner / la molecola, il corpuscolo e l'elettrone / costruire viali d'aria, combattere / l'antimateria", anche perché conversare, in quelle condizioni, "è un'azione anarco-insurrezionalista".

Cultura umanistica che incontra quella scientifica, paura del buio e fotometria, voglia di "labbra tremanti" e di particelle elementari: di questo intreccio su nutre quest'opera prima, microcantica infernale di sicuro effetto, nella quale passione e ragione si muovono in sinergia, al fine di coniugare ricerca interiore con quella formale, domanda sull'identità e problematizzazione sulla lingua che la deve in qualche modo lasciar essere nella sua dimensione tendenzialmente strutturata per densità/intensità di luce e ombra, anziché per quantità neutre e concetti.





la lingua assolta. IV.


il sangue si intorbida di saliva:
particella illuminata che si inscena
su questa lingua assolta
                                   
                                        illanguidisco
nell’ora meridiana: visione impressa
plastilina che ruota, ticchettio esploso



cartografia del movimento. IV.


ci scaldiamo dall’inverno
che abbiamo portato distesi
tra i muri, fotografiamo
con gli occhi appoggiati alle pietre
e camminiamo a tastoni
tra serpentina e serpentina
saltiamo tra l’interstizio
delle rette che si susseguono
nello scarto specchiato di giallo
per ritrovarci nel rifugio del vento



amaurosi. II.

nudité-crudité


pulsa l’estate nella mano aperta al viso:
strappi epidermidi, ma il nocciolo
è già esposto alle radiazioni

chiedo asilo e nel vestibolo della luce
mi spoglio: sul prato è la mia cruda
nudità e le palpebre serrano l’alba




la camera. II.


ti si ossifica il cuore
le ossa comprimono
il corpo si infiamma:
disteso, aperto, fragile
io, spiraglio, diagonale
che taglia il disordine
e parla l’altrove inquieto



klesha. éternèbres (III).


siamo persi nel deserto:
ho lasciato il corpo disteso
per raccogliere il chiarore
scricchiolano i passi
si aprono le vertebre
che ruotiamo e ammiriamo
- le articolazioni saranno
il nostro furore

camminiamo nella sabbia
seppellendoci nel sole
divoratore:
                        persi nella tenebra
                        si sfilano le arterie
                        si contrae il sesso
                        rotolano i denti
                        tra la sabbia
                        si dischiudono le gengive

e lascio il corpo a raccogliere
la fosforescenza




klesha. V.


urlano e ridono e non sanno
dell’immortalità del granchio
e ti apri l’addome e lo esponi
e guadagni un rifugio dove
scalzi il piede nella foresta

per riflessi apprendi il salto
lo schianto del petto in punta
di respiro, lo sciogliersi
della glaciazione che lascia
la terra scannerizzata
dalle radiazioni




luce nera. IV.


volatile fumo espanso dalla cassa toracica
raccoglimi negli strati aerei costellati della
gabbia aperta
                        fuggo piano, mi elevo, supero il confine
mi arrampico sulle costole, discendo alla colonna
vertebrale, inverto la salita, risalgo piano
                                                                        eccomi
sono qui tra il plesso solare e una notte corporea esplosa
ecco, sono qui tra le ciglia dischiuse e un fiore lacerato
ecco sono una passeggiata rischiarata da suoni:
sono le stelle disseminate, solamente sole
sicuramente sciolte lente nel buio che illumino




luce nera. IX.


e ho visto il mondo oltre le pareti
la luce sotto la soglia, i corpi
distesi contro i muri, ho visto
l’uomo di Rodez scalciare
le donne aprirsi lo stomaco
il condannato sedersi e piangere
ho visto le mani farsi iridescenti
divenire ali lucide
                               tagliate e allineate


Giusi Montaliè nata a Carpi nel 1986. Nel 2011 si laure in Italianistica presso l'Università di Bologna con una tesi su Amelia Rosselli. Sta svolgendo il dottorato di Ricerca presso l'Università di Pavia sulla poesia di Alfredo Giuliani.



Annelisa Addolorato: La poesia come mandala

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Dodici giorni di poesia in India (prima parte)

In aereo accanto a me è seduto un ragazzo indiano abbastanza in carne, che indossa placidamente una maglietta con sopra il Che Guevara. Dopo qualche silenziosa ora di volo da Instambul verso Mumbai, durante il sontuoso pasto servito dalle hostess della Turkish Airlines, ci auguriamo reciprocamente buon appetito e verso la fine del volo ci rivolgiamo addirittura la parola.
Poco prima che l’aereo atterri parliamo brevemente, e da questa conversazione last-minute scopro qualcosa di molto interessante: il mio viaggio letterario in India inizia sotto il benevolo sguardo di Ganesha, la più importante divinità del pantheon indù, la prima ad essere nominata nelle preghiere dei devoti: sono i giorni della sua festa! Figlio di Shiva, Ganesha è una divinità che ha ereditato dal padre il dono della danza cosmica. È il dio-elefante, dal corpo umano e dalla testa di elefante. Dopo le cerimonie, le processioni della sua festa, le statue che lo ritraggono vengono immerse in un fiume, o in mare, in un lago, o nelle vasche dei templi. È spesso identificato con l’‘om’, mantra della meditazione e si ritiene che l’ispirarsi a lui, aspirando alla sua saggezza, porti a un più naturale e spontaneo allontanamento dal peso dell’ego, considerato (anche nel buddismo, oltre che nell’induismo), un fardello, la peggior zavorra di cui gli esseri senzienti si devono liberare per poter vivere un’esistenza felice e coerente con la propria essenza, con i propri simili, gli altri esseri senzienti e anche con i naturali principi del cosmo. Il mio compagno di volo, che vive in Africa per lavoro, sta tornando in India proprio per la Ganesha Caturti, una delle festività indù più importanti dell’India, e sicuramente la più partecipata nello stato del Maharastra, dove ci stiamo dirigendo. Con sentita emozione e sincero orgoglio, mi dice di far parte di una nutritissima congregazione di giovani della sua città, che trascorreranno le giornate conclusive della festa suonando e cantando per le strade, in onore di Ganesha. Lui torna a casa per questa festa, e per cantare e suonare insieme agli altri nella sua città. Vengo anche invitata a questa festa, ma il mio tragitto è già stabilito da tempo, e non lo posso proprio modificare. Comunque lo ringrazio, accetto e accolgo volentieri, se non altro idealmente, questo invito e il mio viaggio si rivelerà davvero all’insegna di Ganesha, della sua saggia e benevola spensieratezza, della sua capacità nel rimuovere gli ostacoli dal cammino. È infatti per eccellenza la divinità induista ‘abrecaminos’, per dirlo in spagnolo e tradurne il ruolo in una tradizione religiosa caraibica sincretica (quella de los ‘santeros’), agli antipodi dall’India. Devo ammettere che ho una certa familiarità e sicuramente molta simpatia per questa divinità, come per gli elefanti, giganti, saggi animali pacifici e vegetariani. Durante questo viaggio indiano, durante il cammino, incontrerò anche innumerevoli immagini e rappresentazioni - che ho cercato di documentare con moltissimi scatti fotografici - di elefanti (gli animali) e di Ganesha (la divinità).

La prima tappa di questo viaggio di metà settembre 2013 mi porta diritta all’ottava edizione del Kritya International Poetry Festival: il primo Festival annuale di poesia in India, e come spesso ci ha ricordato il poeta e diplomatico indiano Abhay K. Kumar (attualmente di stanza in Nepal, a Kathmandu), anche il più grande dell’Asia meridionale.

Si può seguire ripercorrere idealmente il mio tour poetico indiano di dodici giorni (viaggio incluso), realizzato nel settembre 2013, guardando una mappa dell’India:
prima cercate Mumbai, nello stato del Maharastra, poi lì vicino vedrete Nagpur, la ‘città dei serpenti’, situata esattamente al centro dell'India. Qui - due anni fa, nel maggio del 2012 - mi ero sentita come se fossi una ignara eppure precisissima freccia scoccata per trascorrere i miei primi quattro giorni (poetici!) in India, in un viaggio tanto rapido quanto intenso, in occasione della mia partecipazione alla sesta edizione del Festival Kritya. Questa invece è la prima tappa del viaggio di quest’anno: Wardha. Anche qui ci sono molti serpenti.

Questa volta, a differenza del mio primo solitario viaggio poetico in India, ho condiviso tutto l’itinerario, geografico e letterario con la generosa e vitalissima scrittrice italo-costarricense Zingonia Zingone, poetessa e romanziera che scrive in spagnolo e vive a Roma. È una scrittrice prolifica, con libri pubblicati e tradotti in vari paesi del mondo: qui in India presenta proprio in questa occasione il suo libro Acrobat of the Oblivion, tradotto dalla casa editrice di Mumbai Poetrywala.
Insieme ci siamo avventurate in questo tour indiano, come una tanto minuscola come indipendente delegazione della poesia femminile proveniente dall’Italia. Entrambe - e io per la prima volta - abbiamo anche contribuito all’organizzazione del Festival di quest’anno, avendo l’onore di formare parte integrante del suo International Organizing Committee.

Dal piccolo aeroporto di Nagpur, in una macchina piena di poeti, ci spostiamo verso Wardha. In macchina conosciamo il poeta, cantante, pittore, profondo conoscitore della cultura indiana e studioso di sanscrito e hindi Mathura (M. Lattik, autore, tra gli altri, del libro Sõstrahelmed – Currant Beads), proveniente dall’Estonia; il prolifico scrittore e poeta greco Anastassiss, e il poeta indiano, con il quale avrei poi avuto il piacere di condividere la sessione di reading durante l’ultimo giorno del festival, insieme ad altri  poeti di lingua hindi, e al celebre poeta palestinese Marwan Makhoul.
Arriviamo all'imbrunire al campus della Mahatma Gandhi International University: ora cercate in Googlemaps la località di Wardha. Proprio nei pressi dell’Università che ci ha ospitati, si trova l’ashram dove Gandhi ha vissuto per dodici anni, nell’epoca conclusiva della sua vita. A Wardha si respira la placida e convinta, sorridente e inflessibile sobrietà del Mahatma/Grande anima-Gandhi. Qui per esempio i letti sono dotati di un solo lenzuolo, che copre il materasso (molto duro e confortevole). Un aspetto che personalmente trovo molto civile e mi piace molto è che qui, ma scopro che è una norma governativa, l’alcol non è (viene definita ‘dry zone’) considerato tra i beni di prima necessità, e dunque non è incluso nei pasti, né offerto agli ospiti. Gli ospiti che lo desiderano, lo devono sempre e comunque considerare come un ‘plus’, un bene di lusso a cui - di solito - provvedere privatamente se lo desiderano. Si pensi che il consumo di alcol non è previsto né nella religione buddista, né induista, né musulmana.
Degno di nota anche il dettaglio del nome delle vie del campus, tutte dedicate a poeti indiani.
Il Festival Internazionale di poesia Kritya, diretto da Rati Saxena, poetessa, scrittrice, traduttrice, cattedratica, allieva dello studioso e poeta indiano Ayyappa Paniker, sta per cominciare: quest’anno si celebra la sua ottava edizione itinerante. Una delle peculiarità più accattivanti del festival, che lo rendono unico nel suo genere, e ne rendono ancora più encomiabile la complessa realizzazione, è il fatto che ogni anno, come dall’idea originaria del progetto, si svolge in una zona e città diversa della vastissima India.

Durante la prima serata si apre formalmente il Festival, e i poeti che, come noi, sono già arrivati, vengono accolti dal Rati Saxena dallo staff e dalle autorità universitarie. La mattina dopo il nostro arrivo inizia il Festival: prima dell’inizio delle sessioni dei reading del giorno, l’inaugurazione del festival avviene anche con un rituale e con la musica: ogni poeta apporta la fiammella della poesia: insieme ne accendiamo il fuoco (sacro).

Nel cortile, intanto, alcune studentesse danno vita ad un coloratissimo mandala, anche questo realizzato in occasione della inaugurazione del festival. Come la poesia, un mandala è una rappresentazione condivisa dell’universo, fatta di granelli colorati, che si combinano dando vita a forme geometriche perfette, uniche e anche nuove.

A introdurre la prima mattinata di Kritya, oltre a Rati Saxena, che dirige il Festival, interviene anche il comitato scientifico: Vibhuti Narain Rai e Rakesh Mishra, docente presso il Dipartimento di Non-violenza e Studi sulla Pace della Mahatma Gandhi International University; il Professor A. Arvindakshan, della Mahatma Gandhi Antarrashtriya Hindi Vishwavidyalaya (Wardha).

E così inizia il festival. Ognuna delle tre giornate del Festival include quattro sessioni di readings, in cui poeti indiani e poeti che provengono da altri luoghi del mondo si incontrano e si succedono sul palco, con letture multilingue intervallate da intermezzi musicali o presentazioni di alcuni eventi, riviste, volumi che spesso sanciscono la collaborazione di poeti di diverse culture, sia indiane sia planetarie.

Tutti i poeti leggono le proprie poesie nella propria lingua materna, o almeno in una di esse - dobbiamo pensare alla grande ricchezza linguistica, ecumenica e multiculturale dell’India, con numerosissime lingue, oltre alla lingua nazionale, l’hindi. Durante il Festival Kritya ascoltiamo una decina di diverse lingue indiane: dall’hindi (con poeti di diverse generazioni: Rituraj, Vinod Kumar Sukla, l’acuto e senza tempo Naresh Saxena, Chandrakant Deotale, Dinesh Kumar Shukla, Basant Tripathi, Harpreet Kauur, la stessa Rati Saxena, Pawan Karan, Divik Ramesh, con le sue liriche levigate e dai contorni nitidi, e il giovane poeta, pittore e cantora Amit Kalla, anche lui parte integrante da anni dello staff di Kritya) al kannada, con, oltre alla poetessa di Bangalore Mamta Sagar, anche un esponente di spicco della poesia indiana quale il poeta cantore Hulkuntemath Shivamurthy Sastri Shivaprakash, specialista e studioso di mistica – soprattutto del movimento indiano shivaita dei bhakti, ora Direttore del Centro Tagore di Berlino, e già professore di estetica e Preside di Facoltà presso la prestigiosa School of Arts and Aesthetics della Jawahrlai Nehru University di Nuova Delhi: un vero e proprio mistico d’oggi, devoto alla poesia; dal punjabi (Surjit Patar, e il giovane poeta e cantore Ekam Manuke) al marathi (Prasenjit Gaikwad), dal bengalese (Udaya Narayana Singh, che scrive anche in lingua maithili, Subodh Sarkar) all’odisha (con la poetessa e traduttrice Pravasini Mahakud); dal gujarati (Sitanshu Yashaschandra) al malayalam (con K. Satchidanandan.

Ci sono anche tre poeti indiani di lingua inglese di tre diverse generazioni: K. Satchidanadan, Sudeep Sen (poeta di spicco della sua generazione, riconosciuto a livello internazionale, e - tra gli altri - autore del libro d’artista intitolato Ladakh),  recentemente insignito dal governo indiano tra gli intellettuali e artisti che più valore culturale stanno apportando al proprio paese e Abhay Kumar, giovane diplomatico ora di stanza a Katmandhu, anche molto interessato al tema della pacifica convivenza interculturale e impegnato nella stessa direzione.

Tra i poeti internazionali anche la intensa poetessa estone Triin Soomeset, di rara profondità e insieme rarefazione, i poeti e traduttori turchi Müesser Yeniay (esponente della nuova generazione di poetesse turche) e Metin Cengiz, i poeti finlandesi Helena Sinervo e il giovanissimo e già più che celebre Niillas Holmberg (cantante, musicista e performer sami), la acuta e poetessa e video poeta norvegese Odveig Klyve, i poeti cileni Sergio Reñasco e Sergio Badilla Castillo, e i tre poeti irlandesi Liam Ó Muirthile, Gabriel Rosenstock (specialista in haikus e molto attivo nella diffusione e preservazione della poesia in gaelico) e Marc Granier.

Sotto un immenso tappeto di stelle, da Wardha partiamo all’alba, in un’altra macchina piena di poeti, insieme alla poetessa bilingue francese e occitana Aurelia Lassaque e alla poetessa kannada Mamta Sagar, di Bangalore. 
                                                       foto di Annelisa Addolorato

La poesia come mandala (seconda parte)

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                                                           foto di Annelisa Addolorato

Dodici giorni di poesia in India (seconda parte)

di Annelisa Addolorato




Ora inizia la seconda tappa del viaggio: da Nagpur voliamo a Mumbai, e da lì direttamente a Delhi, dove ci fermeremo due giorni. Delhi la vedo sostanzialmente dall’automobile, scrutando fuori e scattando foto alacremente, per non perdermi un solo secondo di quel che c’è fuori dal finestrino,
A Delhi rincontriamo il poeta e cantore di lingua Kannada Shiva P, specialista in mistica bakti, sufi, orientale è cattedratico e attualmente direttore del Centro Tagore a Berlino.
Alla Sahitya Akademi, ci attendono come ospiti del Literary Forum, per un nostro reading (io leggerò in italiano) e una sessione di dibattito sulla poesia, i simboli e la traduzione. Shivaprakash mi fa il grande onore di leggere la traduzione inglese delle mie poesie, mentre io leggo in italiano.
In questa occasione rivedo la prolifica e pluripremiata scrittrice in lingua Odisha Mona Lisa Jena, che oltre ad avere al suo attivo una ampia serie di volumi di prosa e poesia pubblicati, sta attualmente anche realizzando un importante lavoro di valorizzazione della lingua e della cultura Odisha. Segnalo a questo proposito l’antologia di racconti, di vari autori, in lingua Odisha da lei curata e tradotta in inglese sotto il titolo Dasuram’s Script - New Writing form Odisha (HarperCollins, New Delhi 2013), e che, tra l’altro, restituisce al lettore non indiano un prezioso spaccato della vita locale di oggi.
Il giorno seguente, mi si presenta la opportunità di andare ad Agra e visitare il Taj Mahal, insieme a una delegazione di scrittori e intellettuali croati, che sono in India per uno scambio culturale e per partecipare ad alcuni festival di cinema. Il Taj Mahal, situato ad Agra, nell'India settentrionale, è un mausoleo fatto costruire nel 1632 dall'imperatore moghul Shah Jahan in memoria della moglie preferita Arjumand Banu Begum. È una delle sette meraviglie del mondo. Sperimentiamo anche la foratura di una gomma, poco dopo la partenza da Delhi, nella quasi deserta e nuovissima autostrada dotata di pannellini fotovoltaici: questa sosta imprevista ci permette di fermarci un poco al sole, e anche di essere soccorsi da persone molto cordiali.

Il giorno seguente alla visita al Taj si lascia Delhi e si torna quindi a Mumbai, per l’ultima tappa del viaggio. Qui, pur rimanendo in città, con mio iniziale stupore, cambieremo alloggio dopo due giorni, visitando prima la zona di Colaba, a sud, e poi quella di Juhu. Attraversando il variopinto traffico di Mumbai capisco come mai è stato meglio spostarsi: si tratta di una unica città, ma in effetti è così vasta.

A Mumbai partecipiamo al primo Festival internazionale di poesia organizzato dalla casa editrice Poetrywala, che da dieci anni pubblica testi di poeti indiani e non indiani con grande accuratezza e amorevolezza: a dirigere la casa editrice c’è una coppia d’eccezione, una vera e propria coppia poetica, cioè il poeta e Heimant Divate con la moglie Smruti, che hanno anche ideato e coordinato insieme il festival, anche con il supporto degli entusiasti e giovanissimi figli.
Il festival si svolge nel College di Architettura, nella zona di Colaba, zona sud di Mumbai, e viene inaugurato da una breve commemorazione che si svolge davanti alla casa che fu la residenza indiana dello scrittore Kipling, e che ora è all’interno dei giardini del College.
Qui rincontriamo alcuni poeti che erano con noi al Festival Kritya, e ne conosciamo altri. Ci sono poeti musicisti, come Anand Thakore (che si accoglierà anche a casa sua, per ‘festeggiare il compleanno’ della casa editrice Poetrywala), e poeti drammaturghi, come Vivek Tandon. La giornata è suddivisa in quattro diverse sessioni di readings collettivi, e un discussion panel nel pomeriggio. I poeti, indiani e non indiani, che partecipano al Festival sono: Adil Jussawala, Gieve Patel, Manya Joshi, Madhi, Sarabjeet Garcha, Liam O Muirthile, Varjesh Solanki, Sandesh Dhage, Salil Wagh, Sanjeev Khandekar, Tsippy Byron, Manoj Pathak, R. Raj Rao, Bodhisattva, Prabodh Parikh, Marc Granier, Prakash Holkar, Mustansir Dalvi, Dinkar Manwar, Mangesh Kale, Prabha Ganorkar, Murli, K. Ramesh, Gabriel Rosenstock, Abhay Sardesai, Sanjeev Khandekar, Mitra Parekh, Sachin Ketkar, Hemant Divate (editore e poeta in lingua maharati e inglese, appunto), Zingonia Zingone, Jane Bhandari, Vasant Dahake, Manohar Shetty, Ranjit Hoskote.

Partecipo a una delle due sessioni di reading pomeridiane. Dopo il reading partecipo come al discussion panel su come riportare la poesia al centro del panorama culturale internazionale. Fermo restando che si tratta di un tema che necessiterebbe dell’intera comunità poetica mondiale, per essere anche solo minimante sfiorato, diciamo che raccolgo la sfida, nel mio piccolo, cercando di non perdermi d’animo. Ho preparato sul mio iPad l’intervento e delle note con un breve intervento sulla situazione italiana, e su quel che più conosco. E ho quindi modo di parlare di quello in cui credo e anche che vedo: cioè che la poesia e il linguaggio poetico in realtà sono proprio il genere e il linguaggio del presente, anzi del futuro! Il linguaggio poetico è incisivo, sintetico, condensando sullo spazio della pagina - reale o virtuale, multidimensionale che sia - la sintesi dell’analisi della realtà. È anche un modo di essere, un modo di vita, condiviso da persone di tutte le età, nazionalità, a diversi livelli di scolarità, e si ‘manifesta’ in modalità molto eterogenee: dai reading ‘classici’, alle pubblicazioni cartacee e on-line, alla scrittura collettiva, ai collettivi e gruppi di poeti, agli slammers e alle ‘crew’ che spesso dalla spoken word sfiorano convicono con la parola cantata, alle ‘palestre poetiche’ (mi riferisco per esempio alla attuale modalità del realismo terminale suggerito da Guido Oldani... Insomma, sia guardano alla situazione nel mio paese, sia conoscendo e viaggiando nel mondo poetico indiano e di altri paesi, non mi sentirei proprio di dire che la poesia langue o sta languendo: tutt’altro! Menziono anche altri fenomeni, avvenimenti che in Italia stanno nascendo attualment, e vengono a ‘smuovere’ ulteriormente le acque della poesia. Tra gli altri, la nascente federazione italiana del PoetrySlam, all’interno e per la quale ho attualmente il piacere di collaborare e lavorare. Il Poetry Slam è una ‘disciplina’ poetico-artistica nata negli anni ottanta negli Stati Uniti, e arrivata solo molto più tardi in Italia. È caratterizzata dall’elemento performativo della poesia, esaltando la ‘spoken word’. È anche e soprattutto, tra l’altro, e per questo mi sta appassionando e mi ha avvicinata a sé velocemente, una forma di poesia-gioco collettiva, molto aggregante socialmente. Un’altra caratteristica molto positiva che ha è che riscopre entrambi i lati che rischiano di essere più facilmente, almeno nell’ ‘Occidente’ attuale, omessi o dimenticati: cioè la nascita della poesia come nodo tra voce, canto e parola (parola parlata, ma anche cantata! E questa è una caratteristica della poesia ancora molto attuale molto viva e palese nella poesia inidiana, orientale, araba) e anche il carattere politico, di piazza, nel senso di collettivo, della poesia.

La poesia è nata, sia che la si consideri nata storicamente (cioè con una data di nascita cronologicamente reperibile), o che la si consideri da un punto di vista mitico/mitologico, ma comunque è sempre stata comunicazione, scambio, atto comunicativo condiviso, certo mai lontano da un elemento estetico (legato ai sensi, e quindi non rinchiudibile solamente tra pagine o angoli nascosti, bui!). Ma penso, e dirò anche in questo contesto, di più: credo che al giorno d’oggi la poesia sia un grande, forte e anche flessibile e delicato strumento atto ad aiutare l’evoluzione umana, sia da un punto di vista interiore che ‘pratico’. Permette alle persone di comunicare in un modo migliore e più completo e complesso, rispondendo adeguatamente alla reale natura umana, e arrivando a toccare le parti più sensibili dell’essere. Proprio per queste ragioni ritengo che sia il linguaggio del futuro. La poesia è mediazione condivisa, perpetuo, perenne dialogo: contemporaneamente un dialogo interno e pubblico, che permette, facilita la comune finalità sociale della convivenza, e della convivenza pacifica. 



La poesia è anche l’arte del ricordo… nel video intitolato “Khonsay: una poesia in molte lingue” è possibile identificare il poeta come la persona della società, nella società, e anche la rete dei poeti nelle diverse società, nell’umana tribù (come, tra gli altri, avrebbe detto il poeta-mistico spagnolo, della Generazione degli anni ’50, Valente), come ‘coloro che ricordano’, che hanno memoria della nostra umanità e della nostra storia, ma anche coloro che ‘l’hanno a cuore’. Per questo identificherei oggi il poeta con la rete delle persone che formano parte della società, della tribù allargata, in ogni città, nazione, continente: una rete globale, tutt’altro che spersonalizzata o spersonalizzante, ma anzi consapevole all’ennesima potenza della propria ricchezza culturale e quindi cultuale: del culto dell’umano, e della evoluzione condivisa, dunque, e in armonia tra ricordo, storia e innovazione, evoluzione.  La poesia è e sempre presuppone un incontro culturale e linguistico, persino tra le persone dello stesso paese (si pensi ai dialetti, anche solo in Italia, senza arrivare alla situazione macroscopica indiana di cui abbiamo accennato anteriormente).

Ma la poesia è anche meditazione condivisa: la materia che si incontra e si fonde con l’immateriale. È la sensibilità che incontra le capacità comunicative. Meditando su questo, è trascorso un altro frammento temporale del viaggio, che sta per finire.
Da Colaba, zona sud di Mumbai, accanto al mare, si parte per una gita domenicale tipicamente indiana, e affrontando anche una lunghissima coda, al porto, anch’essa tipicamente indiana, e dove cerco di mimetizzarmi tra le donne indiane, usando anche io il mio piccolo ombrello per ripararmi dal sole, invece che dalla pioggia.
Arriva una bimba e mi stampa sul dorso della mano una bella goccia decorata, tra l’latro identica all’anello che porto proprio su quella mano, con uno stampo di legno intinto nell’henné. Dietro di lei arriva un’altra bimba e senza lasciarmi scelta mi annoda al polso dello stesso braccio un braccialetto di filo in cui sono infilati bellissimi gelsomini freschi: direi che sono pronta per il pellegrinaggio all’isola. Si parte in barca per una visita all'isola di Elephanta, chiamata Elephanta Caves, per le sue grotte sacre, indù e buddiste.
Sono grotte intagliate nella roccia, e la maggior parte ospita statue giganti di varie divinità indù. Ci sono anche grotte di culto buddista. Anche qui vige la convivenza interculturale e interreligiosa, come in tutta l'India che ho conosciuto io. Le grotte si raggiungono dopo molte e altissime rampe di scale di pietra, che ci portano a vedere dall’alto l’isola, dopo aver attraversato un coloratissimo e accogliente bazar e una zona intermedia, più verde e tranquilla.
Arriviamo alle grotte: intere famiglie indiane trascorrono la giornata qui, sotto gli alberi ci sono famiglie che chiacchierano o riposano, bimbi che giocano, altri gruppi impegnati in un pic-nic.
In tutta l’isola ci sono scimmiette, che saltano, camminano, o ci guardano dagli alberi.
Davanti alla grotta più lontana dal porto c’è un grande albero che ospita una grandissima quantità di scimmie: quando si mettono a ‘parlare’ tutte insieme, fanno persino un po’ paura. Con la mia visita a quest’ultima grotta, con in fondo un altare ricoperto di gelsomini bianchi, ha termine questo viaggio.

Il multilinguismo e multiculturalismo indiano ha in sé e apporta una ricchezza culturale immensa a chi visita l’India, a chi la abita e a chi ha avuto, come me, la fortuna di poter iniziare a conoscerla.
Come un mandala, la poesia è un mezzo di condivisione, una rappresentazione esatta della complessità del mondo, con tutte le diverse culture, lingue, religioni: i diversi colori dei simili ma tutti diversi granelli di sabbia che ne fanno parte. La poesia come mezzo di mediazione linguistica e culturale, come ponte che unisce e che conserva o porta la pace, permettendo a tutti quelli che ne accettano sfide, norme, regole - proprio come se la convivenza umana e culturale fosse un gioco condiviso - sia di esprimersi che di conoscere far conoscere e riconoscersi nella propria identità culturale, linguistica.
Sentire leggere, parlare e cantare tutti questi poeti in lingue diverse, vivere insieme e aiutarsi reciprocamente a capirsi, è un segnale forte, che mi fa sentire forte e rinnovato il pacifico messaggio di Gandhi sulla possibilità di un mondo in cui si possa convivere in pace, affondando, tutti insieme, le nostre radici sia nella nostra terra, sia in un cielo condiviso: facendo prosperare entrambe con l’aiuto e la comprensione di tutti.
La poesia è un mandala.

Qui  la prima parte.


Alessandro Polcrì

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Sin dal titolo, Bruciare l’acqua (Edizioni della Meridiana, 2008), Alessandro Polcrì evidenzia la sua postura di credente eretico, che sfida il numinoso, pur temendolo, pur amandolo. Un ossimoro frequente in chi crede per necessità interiore e vive la propria intelligenza come se fosse la leva capace di farlo sprofondare nel nulla in ogni momento. Forse per questo, il  fuoco e l’acqua del titolo vanno letti con tutta l’ambiguità propria ai simboli: il fuoco dell’inquisizione (della violenza) è anche il fuoco della purificazione (della salvezza) e l’acqua della benedizione porta nelle pieghe la morte per diluvio, tanto che potremmo pensarli incrociati come i legni del Cristo sul Golgota, cifra del viaggio narrato in questo libro, viaggio sì dantesco, ma in orizzontale, e non nel deserto dell’espiazione, bensì dentro il recinto della casa, della domus romana, per la precisione, dall’esterno al cuore, dalla zona liminare (Fauces) a quella Exedra, che costituisce la meta ultima in cui la pace, pur parziale, si dà nella conciliazione dialogica fra anima e pensiero, fra eternità e caducità.

In quella porta infernale raccontata nel primo capitolo, Polcrì entra spesato, diviso in corpo che va e coscienza che lo segue, lo interroga, agendo in uno spazio reso vivo dalla luce e dall’ombra, necessarie entrambe a dire del tempo la sua duplice maschera: la seduzione del futuro e l’orrore di cui è fatto il passato; ma anche: la paura del non-ancora e la quieta certezza del già-accaduto e del mai-più. Di nuovo la figura del doppio, degli opposti che si cercano senza annullarsi, emblemi dell’inspiegabile, presenza pervasiva e polimorfa in questo libro.

Lo stile non fa volutamente i conti con l’ombrosa selva esistenziale messa in scena, con le crepe del vivere: l’autore adotta infatti una sintassi alta, tonda, raramente franta da cacofonie (spesso ottenute con inserti di lingue altre: l’inglese, il latino…) o a-capo irregolari. Polcrì insomma crede nella lingua, nella sua alta funzione morale e civile; ma, essendo un moderno, la crepa la mostra lo stesso, anzi ci si incista, dando al messaggio il compito più gravoso: quello appunto di portare le stimmate, di mostrare i chiodi; senza tragicità, piuttosto con ironia. La si vede per esempio nella nominazione di funzioni corporali poco cortesi: “ è come ricondurre / tutto il raro fiato esterrefatto / al naso dopo uno starnuto / o ringhiottire il filamento di uno sputo”  e nell’antisublime di un passaggio come questo, dove all’anima “spetta il lambire, lo struscio, / il tip tap / che s’appropria della superficie”.

Anche il mito non è escluso da questo viaggio; ecco allora l’abbraccio della dea, forse Afrodite amorosa, e Poseidone, dio del mare e dei terremoti: due divinità in cui acqua e fuoco convivono e perciò perfetti per accompagnare l’io tremulo in questo avanzare verso il cuore di tenebra dell’incontro con se stesso, alla fine salvifico, ben lontano perciò dell’inquietudine immedicabile dei moderni senza dio, come Conrad o Beckett, ma non per questo impraticabile, se chi lo intraprende affonda le radici nella tradizione cristiana.



Da Bruciare l’acqua (Edizioni della Meridiana, 2008)


V.

Traccio un cerchio sul bianco
foglio come usavano in antico
i geomanti sulla rena
e butto lì parole e le assedio col pensiero
per dar loro una forma che tenga.
Fuori del segno non c’è
commistione di verbo e di significato
ma solo il guazzo fonico prenatale,
un tempo sì angelico messaggio,
ora solo chiacchiericcio della mente,
occhio che si apre e non guarda,
scarpa slacciata infedele al passo
che si ostina ad avanzare,
labbro leporino che si oppone
al continuum della voce modulata,
incisivo sbriciolatosi
per troppo ingordo morso
su cui la lingua indugia
distratta dal suo vero corso,
albatros che canta,
malgrado l’amo nel suo becco
resto di un pesce sfuggito all’inganno.


umbrifera violenza

Non ti domandare a che valgano
gli spazi scuri tra le zolle della terra
dove mai la luce s’intrattiene di passaggio,
antri voti vote polle che risuonano
strano al cieco colpo del vomere,
si ribaltano e si mischiano vani,
l’acqua li schiva ma li sovrasta la lucertola
protesa al baldo raggio del sole.
Solo il seme seminato vi si lascia vivere
per poi ergersi al di sopra
gettando roco l’ombra che discaccia
il freddosangue viso di quell’ospite
osteso sul vuoto senza forma
che ha generato silenziosa la vita.



Sotto la coperta della terra il corpo
è raggiungibile dal pensiero e dalle lacrime


Cos’è più forte di una perla d’acqua
penetrante tra le spanne del catrame
strame sopra quel carcame ribollente?
Cos’altro può diventare il corpo,
incarnita e debole gerla,
se non, dentro l’urna ancora calda
degli spasimi mondani,
una gorga di sodale umore
dove tutti buoni o cani
diveniamo acque silvestri?
Non tremeremo più sotto la luna
allo scrollarsi al vento d’una canna.



memoria

Si ricorda forse il ramo
del flusso che lo ha attraversato
poi che il vento s’è acquetato?
o la riva del fiume
trattiene ancora tracce
della carezza delle acque?
resta all’abbraccio dell’onda
memoria del taglio perpetrato
dallo scafo passeggero?
e l’asfalto appena penetrato
dallo zoccolo conserva
forse pura quella forma?
e tu, che mi sei compagno,
quando sollevi la tua testa dalla gogna
ti rammenti mai di esser nato schiavo?



passeggiata su una superficie

B

Terra invisibile e confusa
è quella che sottostà del piede
alla pianta che si spande sulla neve:
l’occhio non la penetra
sfugge alla luce che rimbalza briosa
sul clangore del bianco,
ma il sasso vi s’acquatta
coperto dal mantello sensibile alle suole:

io lo fendo e lo imprimo di una traccia
che si scioglierà col primo sole.



from soul to body


Mi auguro di trovarti mansueto al colpo,
di vederti ritto e fiero di fronte all’ondata,
di ascoltare le tue parole d’acciaio
temprate dall’esperienza del dolore;
mi aspetto che tu abbia della corsa
una visione completa
e del macabro rituale una nozione minuta;
non temo che ti scosti dal ciglio della strada
che hai progettato per te medesimo,
né che poi ti perda
nel fitto dei tuoi umori giornalieri;
ti intravedo sulla cima
colpito da furiose libecciate
che neppure a te il tempo risparmia,
a te fermo e industrioso e muto
come le api nella affollata arnia mute.

Se colpo ci deve essere
non temo che tu sia incerto
dove accettarne il vibrato
così che calmo ma esperto
tu opponga a quella atroce insistenza
del tuo fianco il lato
mai veramente stanco.
E quando ti volgerai intorno
a cercare il contatto dei miei occhi
per tentar di condividere la mole
che ti ha reso puro
sarò dove meno te lo aspetti
ombra sul muro
nascosta sulla soglia del sole.



Congedo

Ho cercato di te
tutte le immagini che ho potuto,
sei stata ogni evanescenza:
l’ombra che passa,
l’ultimo smalto di luce
sull’occhio del morituro,
la scritta erosa
sul muro millenario
e la cifra cancellata
sotto le parole vergate
sulla lista della spesa;
l’esile vita di una goccia
che toccando nella pozza
il fondo motoso si disperde
come fiamma invano immersa
a bruciare l’acqua;
ma sei sempre rinata altro,
altrove nascosta,
accennata appena
quando hai voluto concedere
di te un qualche sprazzo
della veste con cui adorni
le tue carni misteriose
che non lasciano orma
o traccia e non segno di passaggio
ma solo un’eco spirituale,
un maestrale di spiriti gentili,
di illuminanti amnesie
e di fiotti di energia
che doni a chi non sa
di ricevere, né può saperlo;
cosa sei e non sei
è tua esclusiva padronanza:
solo il mare possiede vera
la percezione della riva,
chi approda invece è accompagnato
dalla corrente proprio dove
il tocco dell’onda sulla sabbia
è palmare, estesa, sensazione preclusa
al piede che incide e non carezza;
quanto a me posso tagliare il tempo,
non altro, che mi resta con coltelli-parole
lame fendenti nel corpo vuoto del giorno,
ma a te sola spetta il lambire, lo struscio,
                                                                 il tip tap
che s’appropria della superficie
senza mai manometterne
la pura pellicola invisibile.

Alessandro Polcri (Arezzo, 1967). Vive tra New York e Sansepolcro (AR). Si è laureato all’Università di Firenze in Letteratura Italiana del Rinascimento. Ha conseguito un PhD in Letteratura Italiana alla Yale University ed è ora professore associato di Letteratura Italiana alla Fordham University di New York.  È redattore di Interpres (rivista di studi quattrocenteschi) e condirettore della rivista Italian Poetry Review e di Ungarettiana collana di poesia, traduzioni e saggi. Oltre ad avere curato alcuni volumi di saggi e avere pubblicato numerosi contributi di àmbito rinascimentale (tra cui saggi su Pulci, Boiardo, Ficino, Folengo, Cosimo de’ Medici, Martino Filetico, il dibattito sulla Magnificenza a Firenze), è autore del volume Luigi Pulci e la Chimera. Studi sull’allegoria nel “Morgante”, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2010 (menzione speciale al Premio della Modern Language Association Aldo and Jeanne Scaglione Prize for Italian Studies, 2011).  Si occupa attivamente anche di poesia contemporanea: oltre al libro di poesie Bruciare l’acqua (prefazione di Alberto Bertoni, Firenze, Edizioni della Meridiana, 2008, finalista al Premio Mario Luzi 2009) è presente nella antologia Poeti italiani negli States (numero speciale della rivista In forma di parole, XXX,4, 2010). Con una selezione di inediti dal nuovo libro è stato finalista al Premio Bazzanopoesia 2010.

Raffaele Marone

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Scrive Edmond Jabes ne Il libro della sovversione non aspetta: "Accettare il vuoto, il nulla, il bianco. Tutto quel che creiamo è dietro di noi. Oggi io sono, di nuovo, in quel bianco: senza lingua, senza gesti, senza parole". Raffaele Marone - autore inedito, ma già ben formato - condivide questa postura, tanto che in lui il bianco, il silenzio e il vuoto diventano vitalità allo stato puro, potenzialità creatrice, dalla quale attingere per dare vita a immagini materiche o rarefatte, che in quella luce silente si stagliano. Su quel campo di energia, le parole diventano canto per il "cuore / contadino" che le sa coltivare, si fanno sentire e vedere, prendendo così le distanze, ma con rispetto, dai 4'33"di J. Cage, cui è dedicata la poesia 18, dove le note attese, sempre imminenti, si sottraggono al tempo e allo spazio dell'ascolto. Un canto sempre in sordina, tuttavia, trattenuto, franto, che talvolta diventa indignazione per come sono andate le cose nella "terra / desolata". Quando capita, il verso diventa un coltello che non dà scampo. Emblematico, sotto quest'ultimo profilo, è il muro con il manifesto in cui è scritto "niente" della poesia n.10, la cui nudità icastica ci riporta ai monosillabi beckettiani, all'assurdo in cui abita tristemente la contemporaneità.


(Uscito sul numero 57 de "Le Voci della Luna", novembre 2013)



nudo bianco silenzio vuoto
(inediti, 2013)


1

Nello spazio
vuoto è rimasto
vento.

Il paesaggio è
scomparso insieme
all’orizzonte già

niente proprio
niente è
la figura mancante.

Nessun anima
viva a giro oppure
parla nella luce

solo luce

bianca



3

quella volta ho
cominciato a cantare dove
tutto è

silenzio intorno al cuore
contadino e poi
ancora di più

forte per la stanza senza
mura nel silenzio di una
città vuota

canto.



5

ricamiamo
sul nulla perché
sappiamo

solo ricamare



7

ogni muro è
una lontananza in mezzo
ad altri

muri e murazzi nella notte
scompaiono ma albergano
ratti e fantastici

bipedi assonnati prima
del mattino che costruisce
l’alba e muri

nuovi imbiancati e neve
che cade sciogliendosi
bianca

sui muri
nuovi
che scintillano

bianchi



10

hanno attaccato
il manifesto al muro
ieri

con su
scritto NIENTE e ognuno
ha sceso gli occhi

a terra temendo
la risposta in arrivo
al solito

“perché?”



12

io quando
vado al parco ci
passeggio

scricchiolo i sassetti tirando
mollichine ai passeri e alle
poche formiche passeggere

mi inchino ai pesci
rossi nella vasca
grande

e affilo
i denti e i coltelli
per tagliare

a pezzi
il mondo




18
(a J. C.)

bianco silenzio vuoto
che non c’è tra
noi in questa terra

desolata quanto
vuoi eppure mobilmente
viva negli anfratti

segreti di ogni
corpo che vive e fa
rumore pure

piano riempiendo
il vuoto di colore pure
bianco che si marezza

però
ogni quel tanto



19

chi è pavido appartiene
alla razza
degli spettri che camminano

senza toccarsi magari
prendendosi a sprangate
sulla testa

per paura che quell’altro
morda sul collo il ricordo
di tanti anni

fa



22

siamo bambini
che piangono mascherati
anche da orsi

pelosi e lupi e
coccodrilli o anche
serpenti dal veleno

breve a uccidere prima
di tutto
i sogni

come i ratti



25

Siamo sotto una pioggia
di nulla. Infatti
non
piove
non
siamo bagnati.

E pure ogni cosa
è intrisa
di nulla.



26
(a Maria Spelterini)

Non è del tutto
noto a noi il senso
del bilico però
solo a metà.

Il funambolo cammina
lungo il filo teso tra
un qua e un là sopra
il fragore lontano dell’acqua
che cade
sul clangore lontano
della città
gigante.

Se cade muore
sfracellandosi.

Se uno come me
muore cade
nel
vuoto.



27

Dopodiché provi
a parlare e dici
nulla.

Te lo metti sotto
il braccio e te lo porti
a casa.

Apri la porta
ti siedi al tavolo
vuoto.

Che cosa hai portato
a casa?

Nulla.



30

qua tutto
è nudo: una casa
che è una casa una strada che è
una strada

i morti sono morti

capisci adesso
perché amo questa
terra?


Raffaele Marone è nato a Napoli nel 1960



Matteo Bonsante

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Scritto nell'alveo ispirato di Dismisure, anche Simmetrie (CFR 2013) di Matteo Bonsante sperimenta la parola individuale immersa nella luce dell'universale, confermando che la grammatica della lingua può avvicinarsi, per via "aurorale", alla grammatica dell'essere, alla sua fenomenologia. La poesia metafisica dell'autore pugliese vuole insegnare la postura corretta dell'essere umano prima che questa diventi dover-essere. Come, nel Tao, la virtù soccorre soltanto se la Via è perduta, così egli non ci dice che cosa dovremmo fare per ritrovare pace e armonia, bensì quanto è scritto nel corpo del Cosmo, la "cosa in sé", e che noi dobbiamo conoscere affinché la nostra natura –  celeste e terrestre insieme – realizzi le proprie potenzialità. La poesia serve appunto, ci dice, "a riverberare / l'afflato e l'empito / dell'essere". Come scrivevo a proposito di Dismisure, egli abbraccia alcuni dei più importanti pensatori occidentali e non solo, proponendoci una poesia poco praticata in Italia, proprio nella misura in cui non vuole essere di matrice cattolica e/o mistico-mortificatoria, ma semmai sapienzale, come per esempio lo è quella di Tiziano Salari e dell'ultimo Viviani. A fianco di questa visione pacificata sul reale, convive tuttavia la consapevolezza che tra sapere e saper fare esiste una ferita incolmabile ("Ma perché la ferita/ ancora dissipa ancora separa?"), così come tra essere e essenti: la vita di ciascuno, in altre parole, è in quanto alterità che si è rifondata storicamente, cosi lacerando il legame ombelicale con la madre-tutto. Come accennato all'inizio, Bonsante non ci dice come sanare questo strappo (e come potremmo se non rifondando una teofania o una teocrazia), soltanto ci ammonisce affinché, con l'esercizio spirituale, ci liberiamo dall'io egoista che organizza i nostri rapporti di proprietà per riconquistare l'io profondo, un "infinito e / pur finito io" che si fa accogliere dal tutto, ma senza espropriarsi totalmente, senza appunto raggiungere le vette mortificanti del misticismo medioevale: un conosci te stesso forse di radice francescana come lasciano intendere questi versi: "Ed ecco il cammino, dolce e dolente, dell'uomo: / diventare infinito per condividere / le realtà altre che sono al di là del tempo / e oltre la mente. E, / in simmetria, / ecco l'essere che si distacca da se stesso / e diventa finito — in noi umani — per osservare / con occhi azzurri / il suo stesso esistere nel mondo".


 da Simmetrie (CFR Edizioni, 2013, pref. di Raffaele Urraro)


Sono le cinque e due minuti (ora legale)
di una giornate d’estate.
Fra poco il sole sorgerà e colmerà
la terra
             del suo splendente dono.

– Che sapremo fare oggi, noi umani,
di tanta luce
                            di tanta Gloria?



**



Lo spazio è specchio
in cui risplende il logos.
E si dispiega il mondo.

Nel mondo si rispecchia
l’io
       e traspare  Dio.

L’io sguardo simmetrico e 
viandante
                 della divinità.

E sua sezione aurea.


**


Eppure se la mia radice è eterna
e se posso scrostarla dai detriti
e dalle scorie che vi si sono
tenacemente depositate,
allora la mia vera essenza
           lacosa in sé
non è tra ciò che assiepa questo
nostro mondo
(il più delle volte agitato e stinto),
ma nell’essere, fuori dello spazio
e della mente.

In invisibile beatitudine, e amore.



**



Oh energia-logos che mi hai fatto
uomo e a te mi tieni e a me, legato.
Domani sorgeranno nuovi cieli,
nuovi appagamenti, e nuove seduzioni.
E il mio agio, la mia libertà,
sarà di slegarmi e di compararmi
alle tue leggi e risonanze.
E sarò roccia e sarò canto,
sarò l’umile stella che predicando
sorge all’alba per accompagnare il sole
e scomparire in un buio fulgore, 
mentre
un’ossuta favola si affaccerà 
e forgerà vite novelle.

Tra qui e un batter d’ali,
esserci… e in uno schioccar di dita,
svanire.

Affannata e vigile è la forma dell’io.
                 Il suo incompiuto, spesso
 tragico, simulacro.



**



Il più grande dono è essere nato
                          libero.
Libero di slegarmi da me stesso
e di dissolvermi nella tua impervia
infinità,  
            essenza e scopo del tuo/mio
esistere.

Conoscermi e
                         negarmi
all’inquietudine dei venti e della Storia
che non sanno da dove vengono,
né dove vanno.



**



Senza l'ardire dell'io,
senza il suo fermento, tragico e dolente                    
sulla terra,
senza il suo fluire in simmetria
del logos,
non avremmo mai conosciuto
la vastità del cielo,
né la tenuità delle lontane rive        
dove l’essere e il divenire sono
una stessa forma.
                     Una stessa fonte.  




**



Potranno mai le parole essere tanto
audaci e penetranti
da cogliere il più piccolo soffio
della cosa in sé?

Le parole son fervide di vita e di terra.

Possono descrivere e percorrere
l’intero universo
ma non sporgersi sull’altro volto
delle ore
se non per momenti
                                   scossi, aurorali.
                      
       *

Che si onori e si festeggi l’essere 
in simmetria di canti e di lodi.

Al modo degli uccelli.



**


Se l'essere è infinito e senza forma
anche la verità è infinita e senza volto.
Ed ecco il cammino, dolce e dolente,
dell'uomo:
                   diventare infinito per condividere
le realtà altre che sono al di là del tempo
e oltre la mente. E,
                                in simmetria,
ecco l'essere che si distacca da se stesso
ediventa finito — in noi umani — per osservare
con occhi azzurri
         il suo stesso esistere nel mondo:
un bel tramonto, il ciclo stellato,
una bianca e leggera nevicata
e le tante dissimmetrie che caratterizzano
la terrestrità:
i derelitti, i senzatetto, i sanspapiers,
i messincroce, i senzasperanza, gli
emarginati, gli errabondi, gli alienati,
 i disperati, coloro che non credono,
coloro che non vedono....

Volgiamoci ridentemente all'aura
che ci sostenta e ci sospinge verso
un gran domani.



**


Un lampo nell’ardente vela. Si
intravedono lucori in lontananza.
Esplode il cielo, la misura è alta.
Ciò che mi chiama è luce
                                            e solo luce.

Devo varcare me stesso e sigillare l’ora?
O girarmi indietro e rivedere il mondo?

Non c’è nulla da compiere o completare.
Il ricordo e il pegno cercano nuove labbra. 

Il mio scorrere è certo, acqua di fidata polla.
Estremo arcano annidato nella febbre delle ore,
nel fico d’India, sotto casa. E in me,
                                             nella mia voce.



Matteo Bonsante è nato a Polignano a Mare nel 1935. Vive dal 1976 a Bari, dove ha insegnato nella scuola secondaria superiore. Per la poesia ha pubblicato:

Bilico, poesie, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1986
Ziqqurat, poesie, Centro Stampa 2P, Firenze 1996
Sigizie, poesie, Adriatica Editrice, Bari 1998
Poesie 1954 - 2004 (Bilico, Ziqqurat, Sigizie e le raccolte inedite: Esperidi, Nugelle, Prime poesie), Aliante Edizioni, Polignano a Mare (Bari) 2004 
Iridescenze, un diverso possibile sguardo, poesie, Aliante Edizioni 2007
Dismisure, poesie, Manni, 2010
Simmetrie, CFR, 2013


Fabrizio Pittalis

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Uscito postumo nel 2010 a cura di Marika Bortolami per il ilmiolibro.it, Molto spiacenti, Sir di Fabrizio Pittalis ha trovato ampia ospitalità in rete e sicuro consenso. Le poesie più mature evidenziano grande maestria ritmica e immaginativa oltre che la propensione a ricostruire il mondo con sguardo innamorato e materico insieme, che sa cogliere i particolari ("tutto un mondo in piccoli particolari") nella loro massima luminescenza, esattamente l'attimo prima che dirupino e scompaiano. Forse la malattia e di sicuro la sua grande capacità di osservazione hanno fatto di questo poeta un cantore della luce quando corrode le cose e le fa splendidamente mortali; una voce che stempra il tragico di questa verità con un impagabile senso dell'umorismo e una tenerezza che commuove. Pascoli ci troverebbe lo sguardo del fanciullino, ma di un fanciullino che avesse visitato l'inferno e ne fosse uscito "con il corpo di muschio" e "la testa a sonagli": creatura che mai sarebbe riuscita a confondersi con la piazza e destinata perciò a una solitudine esistenziale, forse amplificata dall'indole consumistica del turismo continentale in Sardegna (a questo proposito si veda la poesia intitolata, in un inglese 'parlato', Sammer on a solitari Ailand).
In un appunto inedito del 2003, Pittalis parla della propria immediatezza punk, "figlia della disperazione portorrese" (a conferma di quanto detto sopra), ma anche della sua passione per le parole, per i loro suoni, e questo fa di lui un poeta del significante, moderno, anche se lui non amava lo sperimentalismo della neoavanguardia, forse perché lo avvertiva come il prodotto di una casta intellettuale, lui che si sentiva invece ancorato alla vita, pur sapendo "che si va per tutto il mondo spettinando un po'": è una brezza la vita, che però asciuga e chiede "falsi / allarmi umoristici" e vie d'uscita in cui sia ancora possibile stare insieme, magari dimenticando "calce viva e piedi sporchi". A questo proposito, di lui si potrebbero usare le parole di Pasolini scritte su "Officina" a proposito di Massimo Ferretti: "Il suo sperimentare non è altro che il suo attaccarsi alla vita".
 La ricerca di una comunità degli animi lo portò a fondare il gruppo "Karpòs", al quale aderirono, fra gli altri, Alessandro Ansuini e Silvia Molesini. Gruppo che fece conoscere per primo le sue poesie e sostenne il progetto del libro, assieme alla Biblioteca Clandestina Errabonda di Parma, che ne curò la grafica, l'elaborazione e l'impaginazione. (citare sito). Quanto fossero importanti gli amici ce lo racconta lui stesso, in un capitolo in cui riprende alcuni loro testi, infilando "alterazioni o semplici mescolanze" così da "figliare" nuovi testi, legati agli originali. "Un giochetto – scrive – che mi sta emozionando un mondo". L'ultima sezione di Molto spiacenti, Sirè un racconto dal richiamo psicoanalitico, Invidia del pene, e dal sapore onirico-sperimentale, che ricorda il Pasto nudodi Borroughs, ma pieno di immagini originali e in linea con il sentire delle poesie. Un racconto che meriterebbe maggiore diffusione e riconoscimento, così come queste poesie, fatte conoscere da suo padre Luigi, con la sua semplicità e pazienza.





Dura Jole

Se in ogni modo tieni duro le parole
e dappertutto cadono i capelli

la punta della lancia te la tieni in tasca
e accechi l'angolo dell'occhio

accechi delicata la mancanza d'alleati
triangoli schiacciati senza voglia

sui tuoi cigli ( così diresti, forse in modo
involontario) strade impraticate

per sorprenderti legarti in basso
per risucchiati a strozzo dentro al tubo dello scolo

Jole - sudandoti ti chiamano le pile
i prati da lavare ad aspettar distesi

il sole lì tutte le sere tutte che s'assolve
l'orizzonte divorando e l'imbrunire pure.

Sai bene ( e ciò ti scuoce ) che si va
per tutto il mondo spettinando un po'.

(09 / 01 / 07)


Irreparabile

Mi portavi alla campagna per
un giorno vuoto
veloce e rustico
proprio quello che ci vuole
hai detto.

Io cercavo
nonostante le promesse di star fermo
e con la testa sopra il collo
nelle pietre un bel canguro
una forma da notare di leopardo

mi sentivo come fossi appena partorito

visto e rivisto

straordinariamente vecchio
dentro agli atomi nell'aria
mi guardavo di nascosto.

Godevamo degli sbuffi degli scherzi entrambi

solitari, belli e cristi
dermatologicamente quasi muti

sulla fronte
non avevi niente altro che una piccola eruzione.

Se non fosse stato per la prosa degli occhi
non saresti mai riuscita a scovarmi.
Me l'avrei forse cavata
col bluastro d'un cielo d'inchiostro
un agire da latte e biscotto
tra i ricordi delle elementari

così romantico

con un paio di stampelle sentimentali
avanzando
tra un quiproquo ripetuto di falsi allarmi umoristici
nascondendo ben dentro il cappotto
il mio corpo di muschio
la mia testa a sonagli
con viso da barbapapà
ed un cuore
che a schiacciarlo fa
piii-pò

( 14 / 03 / 2006)




Annusando certe crepe dell'estate



Non fu fuoco sulla faccia

forse solo terra dura

crivellata

sotto il peso della vita 

dell’“Avanti!” dell’erbetta… 

Dolci visi angeli morti

grossi rospi intermittenti

mai del tutto seppelliti tra i tendaggi

-- tutto un mondo in piccoli particolari --

costole di cani

infiniti lunghi spettri

luminosi di corolle e fiori informi

 incagliati per scurire i tuoi ricordi grano e luce in un colore.

(le due cose stanno sempre insieme)

... 

Per aria al mercato…

Un inferno di grucce e stoffe…

Fruttivendoli poco commossi per il calore dei pomodori…

Passeggiavi…

 E sfocava l’avvinghiarsi sessuato delle voci

pietre grosse troppo leste a sbriciolarsi

se il tuo dito se n’andava alla ricerca di qualcosa che piacesse

se s’apriva luminoso il paradiso in un momento principale

e saltava

luccicante

subitanea si squarciava la città. 

... 

Tutt’ignari dei pericoli i volatili ci sembrarono i più vivi

voli viola a capofitto scuri

volteggiando

negli sforzi delle nuvole e nel sole

e col fuoco del fornello dopo acceso azzurro in quel bel giorno

facevamo le scarpette lungo i fondi delle pentole

dimenticando tutti calce viva e piedi sporchi

l’altrui colore sempre più lucente

denti bianchi sani e forti

e un’altra nota non poco importante

il nostro essere incantata inconsapevolezza

il nostro buon funzionamento umano.

 ...

Dovette piovere molto sul clima indorato di quei giorni

ci muovemmo mosche negli occhi

fessi

caldi dentro ad illuminazioni e soli assenti

decapitati nelle intenzioni delle luci

e alcuni giacevano morti

e un morto canticchiava fra sé e sé.

Non si capiva il vespro

l’accecarsi nella luce attonita

il nero invadente sotto gli ombrelli nel sapore dorato dei corpi

dei sogni rubati ad immaginazione dalle menti degli altri

non s’avvertiva che poco quel sale sugli occhi

la vaga sensazione erotica

di madri felici cullando cullando fagotti di figli inesistenti

ma a noi la materialità non importava

la luce falsa

profeti indossammo del tutto anche noi i nostri occhiali fumé

e ancora nel sole altri corpi

cumuli di mani nel sudore nudo dei petti 

agnizioni squarciate di brevi momenti percossi

i figli dei figli dei figli giocavano ai morti

e un cane canticchiava fra sé e sé.

...

Moriva

da lontano

l’abc sulle lavagne sporche…

Nient’altro che improbabili insettini piccoli 

obbligati dall’invidia dei palazzi

perdemmo in pochi giorni il nostro onore

tra i giochi dei quattro cantoni.

Furono grandi risate come tagliole accecanti

e non ci impressionarono i cazzi puzzolenti dei soldati

le nostre donne bionde di menzogne e pastarelle

in ogni via il trionfo della gioventù splendente 

un peso perdifiato come d’allitterazioni collettive

e se n’andava via la grigia marcia eterna

l’esercito raggiante di uomini stracciati nella polvere

così innescammo ancora e quindi l’emozioni nostre

incinte di coriandoli e bombette.

Scontato un mio compare riteneva fossero soltanto favole

e seguitava a noia l’infinito delle trame e le sue ciarle

e a noi non importava niente

e alcuni giacevano morti

e un morto canticchiava fra sé e sé.

(12 / 06 / 2006)



A dialogar se stesso con cuore incompiuto



(Entra
e in un secondo è solo
senz'annuncio
sguardo assente di contegno)
«La mia giornata non è mai un disastro
la mia giornata è una prospettiva in cui regolarmente svengo
come un televisore interrotto
faccia china sulla tavola imbandita
ronzinando contro i miei mulini a vento
bollicine e vino bianco
orde intere di pollame fatto freddo
calze asciutte come paste
i contrasti di mutande
fuselli che danzano come panini nelle forchette
film bianco
film nero in fondo alla notte
cascate di note su note di sonno
completamente inventate.

Non sono mai stato un esteta
Non sono mai stato un asceta
Ma son tetto di campagna.
Mai stato fiero

(per dirla tutta non me ne vanto....)

Avrei voluto esser cielo d'ossa
per tutto quel che mi riguarda
ma una donna senza polpa non mi ha mai attirato
ho un senso dell'amore decisamente pornografico
mi ritrovo dentro a un letto nel disperdersi del dramma di un sospiro
mi ritrovo dentro a un letto a elemosinare un pezzetto di me stesso
che non sia di secco pane azzimo
non ho mai avuto fretta
d'esser crociato di sangue d'agnello
pieno fino alle orecchie del mio dolermi
bello da tagliarmi il collo
ma del resto sono un bugiardo
sono arbusto disinteressato
schiavo di una prospettiva
fughe di strade le mie catene,
simboli
alberi a dipingere il mondo
serie su serie di
-Torna al tuo posto ! -
-Torna al tuo posto ! –

-Torna al tuo posto ! -

Atomi fin dentro il naso.....

La pazzia
è del resto rimasta fino ad oggi un'utopia
probabilmente morta
nella luce trasversale d'uno sguardo
tutto è stato già detto come taciuto

la mia giornata è naturale scontentezza delle cose appena nate
naturale istinto di rifugio e simbolo
è ripiego di non detto
la mia giornata è un ragazzo che parla da solo
distratto.
E' un qualcosa che non mi ricordo....»

(si rannicchia tondo nello stomaco e traviato in un sospiro si rialliscia
svelto,
entra in campo l'altra voce interno corpo
sullo sfondo un cielo storto
un sole piatto)

E allora io qui mi chiedo ma che vuole questo?
Che diavolo richiede il giovinotto caramelle vino e Lexotan camomilla caffè Seropram aspirina
stricnina dritta al fegato di topo, figlia di sapori e sguardo di lupo come cagna spudorata che si gratta malamente il culo in terra......

E abbozzato mi rispondo :

«Da sempre hai sognato la gente che sanguina vermi
non hai mai sopportato il compulsivo dirti
il tuo unico ascoltare è l'ascoltarti
vedo i bruchi salutarmi di pupille tue
mentre
raramente ghiotto
in silenzio
fingo circumnavigazioni del tuo occhio»

ma lui sordo riprendendo:

«Mi ricordo che in un sogno riconobbi Magellano....
Fu pur sempre sfortunata nel suo vano farlo fuori l'isoletta dell'oceano
la sua gente nata morta di sprofondo dentr'agl'occhi
di quegli strani nuovi bipedi
ricaduti all'orizzonte come il mare giù dal cielo

io conobbi un galeone ammutinato
e gli dissi che a tribordo
sarei stato quello stronzo,
col coltello

...ma ora penso che sia inutile deviare

infiocchettare l'argomento

interessarci fintamente del discorso.....

La mia giornata è una cosa confermata senza senso
un'inquieta evanescente lamentela
è quel senso di insoddisfazione in cui cadi come un bimbo in bicicletta
è una smorfia di bambina sulla faccia
un triciclo senza ruota
una macchina distrutta dietro a un muro di campagna
è un pastore ottocentesco che passeggia
lacrimando
per Time Square
una sfilza di parole senza senso
una pagina trascritta in nonsochè.....

Lo sapevo !

Lo sapevo !

Lo sapevo !

( si graffiava la mia voce allora
urlando )

E lui avrebbe continuato
nel girare sempre intorno a quel discorso già trascorso,

risentito
e sarebbe irrimediabilmente stato vano ogni intento e tentativo d'ordinarlo, quando d'amplesso m'avrebbe risposto ( parlando di ragione e del suo dire )

«non ho mai cercato un retro-occhio,
io

l'ho sempre posseduto...»

.....
...
.


 (20 / 12 /2004)


Sammer on a solitari Ailand


Mi son trovato rotto
prezzato a soldo come un prosciutto
trattenendo a lungo il retto
dal disgusto dopo pranzo.

Sai che bello a tetragosto
dopo il male che ti voglio a Luglio
metter piede dritto dritto nel rigetto
voler correre grigio umido ratto
lungo vasca idromassaggio
a Porto Cervo
sui sorrisi a cento denti imbriciolati
sotto l'oro romanaccio
occhi a goccia sguardo massiccio
rosicchiando
eccitato a nominarlo il pecorino
stramagnando
spolverando la villetta
tavolino più amichetta
da vacanxa sexy very imbastita
assoluta
organizzata
con la evvre avvrotolata americana
la pistola di diamanti

la borsetta

il panfilo
con la solita naturalezza da deserto intellettivo
lungo il corso d'una gita quasi selvaggia
con la smorfia seghettata di piacere già pagato

l'espressione da caletta

mentre bevo
come un sorso d'acqua raggia
glugglugglù
cuoricino a carta straccia
con il viso più scolpito d'una roccia
e tua moglie mi s'appoggia con la crema sulla faccia
con la cola sulle labbra e le scarpe gialle gialle
con la zeppa
con il piede che trabocca di sua trippa
sempre troppa
mentre inciampa:

«Te l'avevo detto cara cicci che la strada era sterrata e poi il giovane si sentirà obbligato Dio non voglia a  strapazzarti un boccabocca....»


«O davvero mio ragazzo mi dispero che sul serio
non capisca l'umorismo
e mio marito
lei non sa lui com'è fatto...»
«Si farebbe accarezzare quel bandito?…»

E' pioggia cieca imbastardita e fango
sul selciato dei locali
sulle barche tipo fungo
dove anch'io lunette de soleil mi fingo
alta sul tacco
nel concorso di bellezza da starnazzo
col marito surgelato ch'è  un segugio tutto vizio
rinomato proprietario preterintenzionale
d'un'industria rotonda sul mare
che è un tesoro di disgusto

ma io affitto in prima fila un tavolino
un fiore plastico
ospitando nella vasca il paparazzo col boccaglio
con la maschera
e la foto della dolce metà bischera
mentre ride tutt'ignara sullo sdraio.
Ah! Ti voglio!
cento volte in rima fiore
amore dolore odore d'incenso tutte le sere
con la maglia col bronzetto
per sentirsi conficcare  la  Sardegna fin'all'osso
tutta una cosa aromatizzata  di mirto e deodoranti per il cesso
come nemmeno seppe spiegare il capo animatore del villaggio
svolazzando angolo in angolo
abbronzato
incatenato croce al collo
gambe come un fenicottero
occhi  bianchi scintillanti come due cucchiai d'argento
mentre  belle ragazze spazzavano merda cantando nei bungalow
e  i  tedeschi s'eran persi ricercando l'avventura a su '' Su gorroppu''.
E del resto
le vespe sciamano i bimbi nudi si tuffano
le vespe pungono le vespe odorano di nero e di giallo
hanno colori degni d'un supereroe
E io batto solamente la mia testa contro un muro di ristagno
come un pendolo
gongolo come sul dondolo
cuore malcurato
aggrovigliato
una matassa masticata senza bandolo
nel fonetico cianciare che v'abbindolo

genufletto e mi confesso:

sono piccolo e rosa.


(02/ 08/ 2003)


Fabrizio Pittalis nasce a Sassari, il 25 Dicembre 1980 E' vissuto a Porto Torres dove ha frequentato le scuole primarie e il Liceo Scientifico. Poi la Facoltà di Lingue e Letterature straniere di Sassari e seguito appassionatamente i corsi del Critico Massimo Onofri. Il suo talento letterario (evidenziato fin dalla prima infanzia) lo porta, oltre che a scrivere di suo, a fondare insieme ad altri scrittori il sito Karpòs. Nel gennaio 2007 muore per un Sarcoma di Ewing.


Maurizio Cucchi su Cristina Annino

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Poco prima di notteè la nuova plaquette di Cristina Annino, uscia per le Edizioni L'Arca Felice (collana di arte-poesia diretta da Mario Fresa). Introdotta da Maurizio Cucchi (che qui riporto), contiene una cartolina con un dipinto del'autrice (qui in testa al post).


Già al primo approccio, queste nuove poesie di Cristina Armino sorprendono e coinvolgono per la loro vi­va concretezza, per la fisicità umorale che le attraver­sa dando loro un'energia davvero insolita. È davvero difficile, nel panorama attuale della nostra poesia, trovare esiti testuali di questa felicemente ruvida originalità: un'originalità, tra l'altro, del tutto priva di ricercatezze o di astuzie letterarie, che emerge con naturalezza perché frutto di un modo al­quanto singolare di leggere il reale, di porsi in utile attrito con le co­se.

Cristina Armino, in un certo senso, compone poesie che appaiono come particolari eventi, testi che si offrono al lettore come vicende aperte e chiuse, come episodi autonomi nei quali soffermarsi e muo­versi in perlustrazione attiva nel dettaglio, non tanto in cerca di una ricostruzione logica e lineare dei dati referenziali, naturalmente, quanto per abitarli godendo della loro consistenza pressoché oggettuale, dell'incisività anche aggressiva della parola. Esseri umani e animali popolano questi versi con uguale diritto; si agitano, in sofferenza o gioia, in paesaggi vari; balbettano maldestri la loro vita e la loro condizione; sono personaggi mossi dal poeta che non si manifesta. E infatti, tra i requisiti tipici della poesia di Armino, fin dal suo primo apparire, è proprio la presenza nascosta dell'io, la sua discrezione, la sua capacità di celarsi, di mettersi in disparte o camuffarsi per lasciare più libertà ai personaggi stessi sulla scena. La scena, appunto. Dove la poesia diviene uno spazio come teatrale in cui il poeta allestisce la complessa dinamica dei suoi episodi. Non voglio dilungarmi oltre, proprio perché i testi di Annino pos­siedono un corpo vivo, il quale, più che descritto o commentato, esi­ge di essere conosciuto in presa diretta, creando con l'interlocutore un rapporto personale ogni volta irripetibile.

Una sola cosa voglio aggiungere, necessaria: Cristina Annino è una voce rilevante della nostra poesia, e dunque ricominciamo a leggerla con interesse e ne saremo sicuramente ripagati.

The Tracker 

(guida aborigena)

Per sacrosanta verità
che è d'ognuno,
il mondo avanza
il suo ciclo simbolico.
Lui legge
nella pozzanghera un concetto
di climi, una specie
di territorio. Ha voglia
di crollare punto zero nell'acqua
sporca, perché qualcosa lo sfascia
dentro. Non è muto né sordo, solo
la cottura dei nervi lo tiene
intero.

La storia
che ci han tolto, quant'è? Cerca
impronte; stacca nell'acqua
un braccio di sé col piede, lo pesa
personalmente e ringrazia
la fede, i massacri, la triste
carne e il buon Dio, «è l'Infinito,
dice, il più crudele potere
umano, l'han reso
visibile quanto un uomo,
ma essendo incalcolabile,
non esiste. Nessuno sa
quel che trovo, io sì». Eccolo qui

il suo lampo di chiaroveggenza,
perché lo spirito è grande,
si estende; alla faccia
del mondo gli è bastato
il fango! Ci han ferito
già troppo; non potranno perciò
rifarlo sempre, né ammazzarci
abbastanza.

European poetry Tournament 2013: Calandrone, Pacilio, Racca

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 Ecco altri 3 finalisti dell'European poetry Tournament 2013. Mi sembra evidente la qualità delle opere in concorso. Verso la fine di dicembre gli ultimi 4 finalisti.

Maria Grazia Calandronefa leva sull’efficacia verbale per raccontare quanto sia complessa eppure naturale l’azione massima: amare. E in  © – fossile costruisce la “costellazione” dei gesti che fanno felice chi li riceve. Amore, qui, è una “necessità di natura” concepita come sovrabbondanza, “saggezza inumana” che ci tiene nel suo circolo virtuoso. L’occasione che scatena l’evento è l’incontro casuale con una pietra – fossile, appunto – che ha il copiright, che trattiene in esclusiva tra le sue pieghe un sorriso conosciuto da sempre, un sorriso mai perduto perché inciso nella memoria, al quale chiedere di colmare la ferita, così che il “vuoto anteriore” non lasci tracce. Proprio per questo © – fossile ha una struttura circolare, uterina come la spirale che lo caratterizza e come l’abbraccio della natura, un circolo fuori dal tempo lineare capace di trasformare l’ora in “oro”, e afferma il desiderio dell’io narrante di mantenersi nello stato neonatale, dell’allattamento ideale, di modo che il lutto originario (come Melanie Klein chiama il doloroso distacco dal seno da parte dell’infante) sia tolto e la vita sia sentita come un “favo di luce” prodotto dalla nutrice.


© – fossile


metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi,
colma la soglia di benedizioni, dopo che
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride
come un’ape regale
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato –
hai fatto di me
il tuo favo di luce
                             
una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca
dall’albero del miele

                                   sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura
                                                     
                                                    mentre un vuoto anteriore rimargina
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:
                                                             
                                                              usa la bocca, sfilami dal cuore
il pungiglione d’oro,
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria

dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:

                                                                                                           avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora


24.5.13


Questa poesia di Rita Pacilio affida all’implacabilità della memoria le tracce indelebili di uno stupro. Lo fa senza decori o rancori: ci consegna un fatto crudo, visto da differenti angolazioni, consegnandoci una sequenza cinematografica in cui l’occhio dell’osservatore incontra i corpi e i vapori, i dettagli di una scena che diventa archetipica. Il gesto dominante è il rubare, che diventa atletismo e guerra, condizione disumana del vivere la sottomissione, come quella di tutti gli esseri che patiscono “fame, sete e digiuno”. La specifica violenza raccontata non è tuttavia soltanto un episodio di lotta fra due esistenze, dove l’una soccombe e l’altra gode: rappresenta piuttosto la condizione di ogni relazione in disequilibrio estremo, senza dialettica, dove in gioco è il potere e, per converso, la libertà dal vincolo. Che sia di un singolo o di un popolo poco cambia. È il carnefice che decide i tempi e i luoghi del sacrificio, compiuto a proprio esclusivo interesse; è la vittima che patirà per sempre il ricordo di quella morte simbolica. Che poi, qui, simbolo non significa astrazione, bensì violenza tatuata, memoria indelebile anche olfattiva, uditiva, che tornerà ogni volta che la vita vorrà, per l’alchimia imprevedibile che la caratterizza. Brava la Pacilio a portarci emozioni e ambiente in due quartine senza tempo, grazie ai verbi coniugati all’infinito e all’imperfetto, per poi, nell’ultima quartina, rendere lapidario il commento, raccontandolo al presente. Il “ricorderà” incipitario è la cicatrice indelebile, il tatuaggio, appunto, che nessun futuro potrà cancellare.



Ricorderà il suo peso affaticarsi

Ricorderà il suo peso affaticarsi
il raffreddore uscire dalla casa
quello spigolo di gomito avere
fame, sete e digiuno.

Respirava il sapore della stalla
una tinta più forte della libertà
vorrebbe fare un fischio alla sua cagna
farsi leccare semplicemente.

Quando si ruba la carne di un'altra
si procede in modo veloce
     conserva il fiato, tace, aspetta
il momento buono per smettere il gioco.

(Prima le ginocchia erano strette e la schiena al suo petto era ferma all’indietro. Una mano sulla bocca a tacere l’urlo, l’altra lì a setacciare il nome dall’impalcatura. Pensava fosse così la morte: con le dita d’acciaio, inanimata, senza voce. Le galline nel pollaio lamentavano l’uovo e fremevano al godere disfatto del lattaio delle ore otto. Dai suoi pantaloni sudici di mucca munta lei scendeva taciturna e aperta, come da una tempesta o una vetta). 


Davide Racca introduce la sua poesia con due versi di Paul Celan dove lo spezzare il pane da parte del Signore diventa un gesto di separazione, una ferita tra uomo e Dio. Auschwitz attesta per Celan tale abbandono del divino, così come lo è, per il giovane poeta napoletano, la distruzione vesuviana di Pompei: nell’uomo lasciato solo, il pane smette di essere segno di un patto salvifico, per darsi nella sua matericità deforme, senza teleologia, in cui il senso “resta muto”. Tuttavia, ci ricorda Racca, quel pane mummificato parla ancora, attraverso i suoi solchi, che tengono massimamente vicini eppure inconciliabili, le sue parti: “la parabola del solco unisce / memoria e oblio” recita verso la fine questo asciutto poemetto, che mima ciò che resta del pane sacrificale, dopo che gli dei se ne sono andati e si è perduta anche la ginestra leopardiana. Restano l’immobilità, “lo squarcio della fame”, il forno-vulcano, il forno crematorio, il respiro “di tutti i forni / edificati intorno / a figure umane”. E il dolore per non trovare la via d’uscita da queste macerie. Anche qui la memoria è chiamata in causa, ma non per ricucire una distanza familiare, come nella Calandrone, e nemmeno come condanna imperitura che spetta a chi subisce violenza; nel solco-memoria di Racca ci sta la condizione d’esilio cui siamo consegnati, la storia dell’umanità quale racconto tragico della condizione orfana dei popoli e dei singoli.



PANE
der Herr brach das Brot,
das Brot brach den Herrn.

Paul Celan
             


fermo
il corpo del pane
si deforma

emerge una nuca,
nuda trapela dal fondo
senza fondo
della pietra

e il bolo dell’idea
resta muto

vero pane poi
il nero
lievitato
immobile

al centro
lo squarcio della fame
lavorato ad arte 

questo nutrire
il prima e il dopo
del fenomeno, questo
non mio e non tuo
che cresce informe

(anche per lui pesa
il tempo, la farina sottostante
che crepa il primo gesto)

poi il resto accorda aria al buio e
al proprio fuoco ciò che è abraso
ed arso continuamente
ritorna


ora il principio pare finire:
la parabola del solco unisce
memoria e oblio. ora
la ferita inferta
è nel respiro del forno,
di tutti i forni
edificati intorno
a figure umane


vero pane poi
il nero e il bianco
indivisi
al centro
nel punto di sutura
domandano per noi
l’odore della fame
la fame del dolore

e non rispondono


Il pane cui si fa riferimento in questa poesia è uno dei tanti reperti di “pane carbonizzato” risalenti all’epoca dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e ritrovati a Pompei, Ercolano e nelle aree archeologiche limitrofe.



Dove trovarmi? Alcuni appuntamenti tra settembre e dicembre

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20 settembre a PORDENONELEGGE

ore 17,30 a Palazzo Gregoris
La ricerca della saggezza 
Incontro con Stefano Dal Bianco e Alba Donati.
Modera Stefano Guglielmin

Loggia del Municipio

Letture di Stefano Dal Bianco, Alba Donati, Stefano Guglielmin, Andrej Hočevar, Erik Lindner, Daniele Mencarelli, Christian Sinicco, Giovanni Tuzet, Adam White, Willem M. Roggeman.
Presentano Roberto Cescon e Piero Simon Ostan 

Crossroad of European Literature Project, in collaborazione con Vilenica Literarni Festival e Cùirt Literary Festival



23 settembre Schio. ACCADEMIA POPOLARE DI STUDI STORICO-FILOSOFICI
(tutti i lunedì ore 17,30 –19,00) Istituto Salesiani [il corso prevede l'iscrizione presso la Libreria UBIK, di Schio)
Sei lezioni su Gli albori della poesia italiana contemporanea: 1956-1976
 programma

1)      “Officina” e “il verri”: la critica al neorealismo e all’ermetismo;
2)      I “Novissimi”: Pagliarani, Sanguineti, Giuliani, Balestrini, Porta;
3)      Altre esperienze: Rosselli, Zanzotto;
4)      La poesia e il Sessantotto;
5)      I nuovi poeti della deriva: Cucchi, De Angelis;
6)      Approfondimenti delle questioni emerse: che cos’è la poesia?


19 ottobre, ore 18,30 LIBRERIA MONDADORI (Vicenza, Ponte Pusterla)

 DUE POETI ALLO SPECCHIO. Mara Seveglievich presenta Luigi La Vecchia & Luigi La Vecchia presenta Mara Seveglievich. Introduce l’incontro Ivana Cenci, coordina l’incontro Stefano Guglielmin.


26 ottobre, ore 21,00 SPAZIO NADIR (Vicenza, contrà Santa Caterina)

Stefano Guglielmin Presenta il libro di Giusi Montali, Fotometria (Edizioni Prufrock spa, 2013)


8 novembre, ore 20,45 CROCETTA DEL MONTELLO, Villa Ancillotti
lettura poetica di Stefania Bortoli, Roberto Cogo e Stefano Guglielmin all'interno della mostra di pittura L'anima nel paesaggio nel paesaggio dell'anima, di Graziella da Gioz.


12 novembre, ore 20,45-22,15 LABORATORIO DI LETTURA E SCRITTURA POETICA ARTEMIS(Vicenza, libreria Mondadori, Ponte Pusterla) [il corso prevede l'iscrizione alla seguente mail moderato_cantabile2006@yahoo.it]

10 incontri ogni due settimane, il martedì, tre dei quali dedicati alla lettura e al commento dei testi dei partecipanti. Saranno inoltre studiati i seguenti poeti: Nanni Balestrini, Alessandra Carnaroli, Giulia Rusconi, Guy Gofette, Mia Lecomte, Alba Donati, Enrico Testa.  

17 dicembre, ACCADEMIA FILOSOFICA ITALIANA (sezione Altovicentino)
(Valdagno, sala Marzottini, ore 20.30)

Stefano Guglielmin legge e commenta alcuni passi di M. Heidegger, Sentieri interrotti





Beppe Ratti

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Quando si leggono poeti come Beppe Ratti si capisce che la poesia italiana non è morta e nemmeno vive di arie asfittiche, respirate nel copia-incolla del poetese. Oltretutto, entrare nel suo mondo, ci fa sentire più europei, di quell’Europa della provocazione surrealista e dadaista, della fuga dall’omologazione attraverso l’intelligenza usata con humor sopraffino, e che ha – mi pare – nello sperimentalismo dei giocolieri di Oulipo uno dei referenti principali. E come tutti i patafisici, egli usa la scrittura per salvaguardare l’immaginario, con un’imperturbabilità cara a Raymond Queneau. Perfetta in tempi grami come questi: faccio mie le parole che  Brunella Eruli scrisse a proposito della pittura di Enrico Baj: “La patafisica permette di trovare […] uno spazio di quiete fra le angustie della ragione e il gran guazzabuglio del cuore”. Un’imperturbabilità che non nasce dall’indifferenza, dunque, e che anzi, in Ratti, corrisponde al rigore necessario a lasciar-essere il linguaggio nei suoi sorprendenti cortocircuiti in termini non troppo lontani di quanto fece Henry Michaux secondo la lettura di Alfredo Giuliani: egli, scrive il novissimo una quarantina di anni fa, "ha istituito quel modo di scrivere che consiste essenzialmente nel leggere i significati passanti dentro di sé" . Un’operazione simile, nell'Italia degli anni settanta, l’avevano compiuta sia Cesare Viviani, con L’ostrabismo cara e Piumana, e sia Giulia Niccolai, per esempio scrivendo Greenwich.

Beppe Ratti, in Talavera de la reina(Osteria del tempo ritrovato, 2013) si fa infatti, come i poeti appena nominati, crocevia di differenti reti comunicative e linguistiche, calamita enciclopedica che attira la parola secondo pulsione o sequenza ragionata, al fine di un agglutinare fonetico e/o semantico, di un gioco serissimo dove pancia e anima, cervello e uccello litigano e infine rubano al proprio sistema psichico-corporale un segreto altrimenti innominabile: il profondo di ciascuno di noi, sembra dirci Beppe Ratti, non si coagula in unità di senso compiuto, ma si s-catena in minuscole particelle dense di pulsione inglobate nei singoli fonemi, essi stessi nuclei energetici che non accettano remissione, né annacquamento. L’identità si scioglie in quegli snodi, legati tra loro da forze analogiche che fanno crescere il materiale linguistico dall’interno, in una libertà anarchica dove “tout se tient” secondo il dettato di Ferdiand De Saussure, che Ratti fa proprio ed espropria in un tentativo di scardinamento, così che langue e parole s'intreccino a tal punto da perdere specificità e dove il lettore, se ben disposto a questo sregolamento dei sensi e dei segni, felicemente precipita.

Nella prefazione, anzi nell'Urprefazione, Chiara Daino parla di "cosmogonia eufonica" che "concreta nella memoria e nella bocca tutta l'eredità di Demetrio Stratos, intonando una litania/liturgia propedeutica allo stato di trance, psicofisica e musicale". Parole sante per un poeta che ama l'ombra e probabilmente la taverna e il dado, ma soprattutto (almeno nell’occasione in cui l’ho incrociato: il premio Montano) passare inosservato pur nella sua fisicità inequivocabile, per darsi totalmente nei suoi fuochi verbo-schizoidi, già ben praticati nel foglio atlant idéal catraz edito da sartoria utopia, progetto tutto femminile (Manuela Dago e Francesca Genti) e, direi, genialmente lillipuziano, come lo è L'Osteria del tempo ritrovato (sottotitolo: editore\bevitore), nata nel 2012 per volontà di Camillo Valle, che pubblica "piccoli libri di poesia sperimentali" come si legge in facebook, lavorando 4 ore al giorno, per dedicare il resto del tempo alla vita: poteva Talaverna de la reina trovare un editore più simbiotico?


carnets, staccarne carne,
narcisistico accanirsi in iscariota cartastraccia:
se scrivere è scavare, varicose, sceverare crevasses
e viscere, survécu    




desidero, desidia;
indesinenter impostura proust asintoto
pastura arretra threatens (s’)impastoia
doesn’t tendesi sinderesi il tempo,
scandisce, ri/com-promette, disinnesca
pantomima impotente (mitopoièin)
il supposto -stop- empito prometeico




armoire à memoire, 
i mois-mêmes, iom-iom,
arpagone ripongo.
diario, ora d’aria: iersera persa.
stamani madeleines -lendemains?-,
inutilmente sentimentali.
imprimere rime, cardare ricordi,
ricamare carmi: nella cruna dell’ago
lo spago del s’agapò




ich bin eine bic on a bench of a beach.   
amleto, le mot: anelare arenile isolarsi elsinore.
essere, poussière, paresseuse paperasse:
sperpero dispero pordiosero prosodia rapsodo,
diaspora, disappear     




détresse raison d’être disinteresse des Esseintes;
adamo si domanda all’indomani della nominis
damnatio: nomadismo? no man’s land ?
da-sein in sand, esisterci cosa resta?
crisalide clessidra, lesser, l’essere che desidera       




(el dedo y la duda di dedalo, i dadi “did I”):
abulico belacqua boca abajo allo iabboq,
blasfemo self-abîme, à bout de souffle,
malmostoso salmo I’m almost an old man;
la biro labirinto, refe autoreferente, minotauro
mi rintano e manusturbo lo sturm und drang,                                        
pettegolo poliglotta pappagalletto      




(epithumìa):
riòrdino l’impatto del tempo,
tumefatto pattume, patemi, pitipitumpa,
ricordìno per ricordìno;
riodo l’odor di rossetto dior darsi,
àrritos sorrisetto                  




pietre partout, pretestuose, parentesi spente,
serpente, esperpento, presse-papiers, poesie, prose:
happiness happens à peines su spine (la rosa tea
satori aoristo stardust reste-t-elle delle serate ratées).
désamorcer des mots d’amour, demordere mörder




poiesi, spojasse: sui-jus, ipse-psie;      
pena penna, matita matta.                                
fari safari sfarsi, esotico tic
(fricative, stichi) tricks xtc,
passioni dissipazioni, vizi avvizzii.          
lapis solipsismo spiel:
pastoie scappatoie tespi, teschi,
tant pis.                     
salive, mot-valise, vacarme, carme,
verba bavarder, bava 
(dirimere rime, annoiato:
dittongo tongue e di fiato iato)




la cruna, l’encre en crue, quotidiane inquietudini,
pause epioùsion.
logica - caligo, doute - da’at.
anoche, un cohen dipinse, koan aniconico,
una sinopia di spine.
roveto ardente: tendere a verità 




i titoli tolti, litoti, altolì:
nier dernier, rimozione rimo -
e rimiro mir, abc acabo.          
tantalo: mai, nunca, nunc, maintenant. 
cancello nichil Ancel silence:
oudè en rìma,
ode in rima  


Beppe Ratti (1964), Milano. Ha pubblicato: Alfabeto fallibilità (Gattili), Atlant idéal catraz  (Sartoria utopia), Talaverna de la reina (Osteria del tempo ritrovato, 2013)

Erika Reginato intervista Franco Loi

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 Franco Loi (foto di E. Reginato, 2012)


 Da La traccia Infinita del universo,“El trazo infinito infinito del universo” (28 poeti italiani, Monte Ávila editores latinoamericana, Venezuela, 2013)

“la mia vita è certamente nelle poesie”...


  • Erika: Come nasce l'uso della parola nella propria poesia di Franco Loi?        

Franco Loi: Nasce in tanti modi. Ma non parlare di “uso della parola”, ma del sorgere della parola. Può essere un impulso della memoria, può provenire direttamente del rapporto con le cose e le persone, può provenire direttamente dall'ascolto della parola altrui.
Ma se si riferisce a quanto avviene in me durante la dizione, allora potrei rispondere al modo di tanti altri poeti del passato. Pascoli accenna al “fanciullino dentro di noi”, Dante nel Purgatorio, a chi domanda chi egli sia, risponde: “I' mi son che quando /  dentro di me Amore mi spira, noto, e a quel modo / ch' ei ditta dentro i' vo significando”..., e Marina Cvetaeva scrive: “...quando scrivo poesie è come qualcosa o Qualcuno dentro di me che volesse essere”; e l'irlandese Yeats precisa che in poesia “i suoni sono molto più importanti dei contenuti apparenti”... Posso aggiungere che la mia impressione è proprio quella di “Qualcuno” che - dentro di me, mentre Io recito la mia vita - suggerisca i versi. Tanto è vero che la mia esperienza non esce da me come a me sembrava, ma in modo molto diverso. Essenzialmente la parola della poesia scaturisce dell'essere intero, conscio e inconscio, pur operando attraverso il nostro Ego.
Devo anche premettere che sono arrivato alla parola molto tardi, avevo 35 anni e che per lungo tempo ho scritto narrativa, saggi e teatro.

  • Erika: Perché il poeta preferisce scrivere in dialetto piuttosto che nella lingua italiana più diffusa in Italia?

Franco Loi: Non che abbia preferito “scrivere in dialetto” - sarebbe meglio dire in “lingua popolare”- ma, come ha scritto Franco Brevini, non sono io che ho scelto il milanese o genovese o parmiggiano o le altre lingue della mia esperienza, ma io sono stato scelto dalle lingue. Il che si può anche tradurre con il fatto che, avendo vissuto tanta parte delle mie esperienze in mezzo al popolo che parlava quelle lingue, esse sono entrate in me con le vicende della vita senza che io ne fossi consapevole.
Intendo anche precisare che, nel momento in cui mi sono messo a scrivere versi, avendo avuto un padre sardo, e semmai genovese di crescita, e una madre parmigiana, e avendo imparato l'italiano a scuola, sono sempre stato convinto che la mia lingua fosse l'italiano. Ma in quel lontano 1965, volendo parlare della guerra e della condizione sociale della mia gente, mi parve subito assurdo dover usare l'italiano. Tanto più che allora tutti a Milano parlavano il milanese ed io avevo vissuto le vicende più forti e terribili della mia vita – la guerra, le fucilazioni, il lavoro, le amicizie della prima adolescenza – in lingua popolare. Certo, ci sono stati anche motivi letterari: la consunzione neoclassica dell'italiano e l'impulso ricevuto dalla lettura del romanesco Belli, la coscienza che anche Dante aveva scritto in volgare toscano in epoca colta latina, e che persino Pascoli era stato accusato di scrivere in romagnolo molte delle sue poesie.
Se la sua domanda, poi, si riferisce anche alla sua diffusione, sappiano che essa è più sottoposta a regole politico-giornalistiche che al veicolo linguistico. Non credo che la diffusione di un'opera sia un buon criterio per giudicare il valore dell'opera stessa.
Nell'Italia degli anni '30 erano certi più diffusi Guido da Verona o Pitigrilli che non Ungaretti o Montale o Saba.
D'Altra parte, non è forse vero che, se si vuol capire come viveva la gente del Cinquecento, occorra far ricorso a Teofilo Folengo o piuttosto che all'Ariosto e al Tasso? E se vuoi capire il passaggio culturale dal Sette all' Ottocento e comprendere il Romanticismo italiano siano necessario Carlo Porta e tutti i milanesi a cominciare dal Maggi e il romano Giochino Belli insieme a Giacomo Leopardi.
Non dobbiamo dimenticare che l'italiano è scaturito dall'alta aristocrazia e dalla tradizione petrarchesca ed è stato sancito dagli studiosi Asolani nel Cinquecento, e che ancora nel primo   Novecento soltanto il 2,3% degli italiani parlava quell'italiano, e che è occorso un genocidio scolastico e la congiunzione con la televisione di stato per imporre agli italiani quell'italiano.
Ne vediamo le conseguenze oggi, quando le persone non usano più parlare le loro lingue e però anche “l'italiano” sta scomparendo, non avendo più il serbatoio popolare a cui attingere, mentre già si parla d'imporre l'inglese imperiale.
E se poi parliamo di diffusione nel mondo, non sono forse lo spagnolo e il cinese le lingue più diffuse?


  • Erika: Nella sua poesia emergono l'amore per l'umanità ma anche una fede senza misura. Quali sono i temi di maggior ricorrenza nel suo lavoro poetico?

Franco Loi: Come rispondere? Penso che non ci siano “temi”, che, del resto, presuppongo un approccio intellettuale alla versificazione. C'è la mia vita, e la vita di tanti altri che ho conosciuto nelle mie esperienze in tanti luoghi d'Italia. Inoltre un uomo è attraversato da una infinità di cose: emozioni, sensazioni, pensieri, momenti di coscienza e momenti di sonno, vibrazioni naturali, influssi di astri. Ogni momento della vita vissuto intensamente può essere ragione di una poesia. L'impulso a scrivere, non viene da un “tema” , ma dal bisogno di dire e di dirsi. Così si può parlare dei genitori, del lavoro, di una passeggiata a piedi, di una corsa in auto, del bisogno o esperienza di Dio, di un paesaggio, di paura, di dolore, di gioia, degli amici, dell'amore per una donna, della ricerca di Dio, di un bel tramonto, o della guerra, della morte, dell'ingiustizia sociale o della cattiva politica del governati, del tradimento delle chiese o dei sogni degli uomini. Non c'è limite alla poesia, in nessun senso. Sa cosa risponde Dostoevskij a chi gli chiedeva da che idea partisse nello scrivere 'L'idiota? “io non parto mai da un'idea, ma dalle mie esperienze,dalla gente che ho conosciuto... e, del resto, si tratta sempre del mio unico romanzo e dei miei soliti personaggi”.
Quando, recentemente, è uscita da Garzanti una lunga intervista sulla mia vita e sul mio pensiero, con un DVD con lettura di mie poesia, ho anche detto che “la mia vita è certamente nelle poesie”.
E devo far notare che le mie poesie non hanno titolo appunto perché, come scriveva Eluard, “la poesia è ininterrotta”, appunto come il respiro.

  • Erika: Ci sono suoni, rumori, ripetizioni che ci fanno sentire un certo brivido quando leggiamo la sua poesia. Come avverte la giusta musicalità un poeta? E come fa il poeta a sentire questi suoni, il loro inizio e il termine? Come riesce a fermare i suoni e le voci che si nascondono tra questi suoni, luci e ombra?

Franco Loi: Questa è una domanda la cui risposta necessiterebbe di un libro. Ma è la parola stessa che è fatta di suoni, tanto più in milanese che è lingua consonantica, mentre l'italiano è vocalico.
Penso che la musicalità sia una specie di sintesi tra il sentieri del poeta e l'emozione del rapporto con le cose e le persone o col proprio essere più profondo, o anche con i limiti del nostro abituale Io. Dobbiamo anche tener conto del fatto che tutto nel cosmo vibra e giunge a noi col suo impulso di luce e suono. La poesia è il tentativo di far sentire nel vibrare delle parole quel che suscita in noi ogni nostro rapporto con la vita. Non si tratta di “giustezza” pensata e commisurata, ma di un naturale aderire al vibrare che noi avvertiamo della luce e del suono esperiti. L'inizio è, come ho anticipato con Dante, nel movimento d'amore che suscita in noi il vivere. Quando l'Amore – maiuscolo perché è movimento totale – non è confondibile con altri impulsi amorosi.


Pausa estiva

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Svanezia (Georgia)
Buone vacanze!

Sisifogugl

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In sette anni di attività, Blanc de ta nuque ha messo in circolo internautico più di 300 poeti italiani contemporanei, noti & ignoti, molti dei quali sono presenti anche in altri autorevoli blog. La particolarità di Blancè che quasi tutti li ho recensiti io. L'effetto di tutto questo lavoro si è tradotto in un libro (giunto alla seconda edizione) e in qualche presentazione qui è là. Non molto, in effetti. Nulla da reclamare, tuttavia, se, sotto il profilo psicologico, non mi sentissi un piccolo Sisifo, che non vede fine alla propria fatica e ha una gran voglia di buttare la pietra-libro dall'altro versante del monte e dire ciao poesia, ciao, arrivederci

Mi spiego meglio. Recensire in rete significa ricevere decine di libri l'anno, senza sosta. Dietro a ogni libro c'è un autore con legittime aspettative che chiede ospitalità. E così via, senza fine. Leggi un libro, spesso dialoghi con l'autore, ci scrivi sopra e intanto ti arrivano altri libri e altre mail che aspettano risposta. L'ho già fatto questo discorso, però mai come ora Sisifo lo sento dentro.

La soluzione che mi sembra più ragionevole è alzare la posta, scegliendo meno autori e in modo più oculato. Scrivere di loro. I libri carini, buonanotte. Bene le opere prime, se riuscite. Qualche prefazione di altri se stimo l'autore. Tradotto significa che di 100 libri ricevuti, parlerò di 10 forse. Per gli altri, ringrazio anticipatamente, ma non avrò il tempo di spiegare perché non li ho recensiti. Non ci sto dentro con il tempo e con la testa. Soprattutto con la testa. In concreto: sul tavolo, già selezionati, ci sono circa 50 libri arrivati negli ultimi due anni. Se scriverò 3 recensioni al mese (ne dubito) impiegherò un anno e mezzo a esaurire la scorta. Più facile che siano due. Posto che ne abbia la forza, invito tutti a tenerne conto quando mi si invia un testo. Che è benvenuto, naturalmente.

Giulia Rusconi

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Di Giulia Rusconisi parla in luoghi autorevoli. Nei Nuovi poeti italiani 6 dell'Einaudi, per esempio, Giovanna Rosadini, pur non includendola, la definisce "certamente promettente". E in effetti, I padri (Ladolfi 2012) hanno un'unità d'ispirazione difficile da trovare in un'opera prima, tanto che il libro ha vinto il primo premio Poesia Giovane 2011 di Fiume Veneto e alcuni testi, titolati L'altro padre e prefati da Anna Maria Carpi, sono inclusi nell’antologia La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi Editore, 2011). La Carpi scrive anche la prefazione all'opera prima di Rusconi, riconoscendone un umore di fondo di "forte straniamento verso il grottesco", ma anche uno spaesamento che chiede accoglienza, a partire dall'esergo "Eloi, Eloi, lemà sabactàni?" (Padre mio, Padre mio, perché mi hai abbandonato?). La posizione dunque è quella della croce, del momento in cui la mortalità splende in tutto il suo numinoso orrore e non si trovano ragioni fondanti che giustifichino la postura. In Giulia Rusconi, il tragico cristologico si converte, laicamente, in paura d'invecchiare: sentimento umano, troppo umano, ma certo capace di intristire le notti di chiunque, specie la prima volta che ci assale. Giulia ha quasi trent'anni e ne può quindi parlare con cognizione. C'è una poesia esemplare in questo senso, che coniuga bellezza e fragilità, saggezza e sentimento della caducità. Non chiama in causa un padre specifico, ma costituisce la sintesi di tutti: «Tutti mi dicono che sono una donna / e bella e che ho spalle ampie / gambe robuste di ferro. / "Cammina da sola ora". / Io non cerco che una mano / grande che mi copra tutta la faccia / non mi faccia invecchiare». In alternativa, chiede a differenti padri di riconoscerla, di insegnarle a parlare, di proteggerla, e ci racconta di come Elettra si faccia sedurre dagli innumerevoli fantasmi che suppliscono quanto un padre genetico non potrebbe concedere: leccarle i lobi, soffiarle in bocca il fumo, farsi succhiare le dita. È sempre la bocca, in Rusconi, il luogo del peccato. Anche scrivere poesie parte dalla bocca ma qui la colpa scompare, per lasciare posto invece a un eros autentico, non costruito, nato assieme al verbo. Un eros che mette in scena, in modo ordinato, un recondito inconfessabile, un misto di desiderio e di paura verso il Padre pagano, quel Tempo mortale che consuma e insieme eccita, qui incarnato appunto in un teatrino di padri minori, tutti inadeguati eppure necessari a tenerlo in gioco. La madri invece sono latitanti, controfigure dell'invidia o della debolezza, a volte tenere e spesso proiezione di sé, di un tempo in cui, uscita dal guado del chiedere protezione, intraprenderà la strada del dare protezione. Intanto, la Rusconi continua la sua interrogazione sul proprio bisogno di figure maschili, che edifichino un tempo abitabile, e sull'identità che rifiuta di liberarsi dalla dipendenza: Cura, da poco uscita su "Nuovi argomenti", conferma infatti il registro tematico e stilistico de I Padri, coniugando entrambi gli aspetti (figure maschili e dipendenza) nell'amore coniugale, che si dà quale relazione asimmetrica in cui l'io lirico è sempre sul punto di spezzarsi come una bambola di ceramica: "La miglior cosa che un uomo ha fatto /  per me è stata lavarmi / in acqua tiepida sfregando forte / e rivestirmi con cautela per non spezzarmi / braccia gambe e collo". Un io che sogna d'essere infermo, accudito giorno e notte non più da padri con cui sensualmente interagire, ma da infermieri capaci di mantenerlo nella sua "immensa beatitudine", un nirvana raggiunto con le flebo, anzi, meglio, uno stato prenatale permanente, scandaloso in un'epoca dove indipendenza e libertà costituiscono le leve dell'emancipazione.
C'è tuttavia un altro padre, meno evidente, ma decisivo: è lo stile, che sorveglia l'emozione e assume il discorso comunicativo quale veicolo relazionale; di esso Giulia si fida e si prende cura come una madre premurosa.



da I padri(Ladolfi Editore, 2012)


**


Tutti mi dicono che sono una donna
e bella e che ho spalle ampie
gambe robuste di ferro.
«Cammina da sola ora».
Io non cerco che una mano
grande che mi copra tutta la faccia
non mi faccia invecchiare.



**


Mio padre –il quarto –
mi insegna a scrivere.
Compitiamo poesie e per farlo
lui tiene la sua mano sopra la mia
e scriviamo insieme. La mia
è avvolta nelle sue dita che sono lunghe
hanno i nodi degli anni, sono
forti. Mi fa rileggere a voce alta
e mi si mette dietro
e mi lecca i lobi.



**


Sono col mio settimo padre
il più feroce. Tiene bene
le posate e mi insegna a mangiare.
Labbra piccate occhi in divenire.
Quando ero piccola mangiavo
con mia madre ma il mio settimo padre
mi toglie di mano le posate
mi infila nella bocca un occhio
di rana si fa succhiare le dita.



**


La mia seconda madre non somiglia a nessuno
è tenera di occhi schietta di mano
ci siamo viste tre volte, mi dice
che ha due gatti e un complesso paterno
in digestione perenne.
Non mi insegna niente e mi piace.
Mi guarda con i guizzi di chi ha fatto un patto
mi insegna a prendere posto
a disegnare contorni.



**


Dico le parolacce me le insegna
mio padre numero diciotto.
Mio padre –l’altro- le dice
ma di nascosto nel suo studio.
Uso metafore spinte parlo
di sesso e sadomaso. Mio padre
-il numero diciotto- mi insegna le brutture.
«E tu vuoi imparare a essere cattiva?»
Lo tengo perché è sfortunato, come me
è avido, e malato.



**


Mio padre il numero tredici è bello
è il più vecchio di tutti mi insegna
l’amore. Nemmeno mi sfiora
ma ha occhi di sesso mani di scimmia
labbra che incalzano e tremano.
Il mio padre numero tredici
mi fa venir voglia di fare l’amore
camminiamo a braccetto lo penetro
e afferro con la mia mano.



**

Guardo i miei padri ognuno
nel suo scanno conosco a memoria
le loro crepe i loro tic nervosi.
Ho un padre che non conosco
l’ho visto una volta so come si fa
chiamare so che non parla
quasi mai e che vive in una buca
piena di ossa di lupo
occhi di vetro e angeli maestosi.
Il mio padre sconosciuto è un visionario
mi insegna le allucinazioni
me le fa toccare.



da Cura



La miglior cosa che un uomo ha fatto
per me è stata lavarmi
in acqua tiepida sfregando forte
e rivestirmi con cautela per non spezzarmi
braccia gambe e collo
e cullandomi dirmi che mai più
avrei avuto bisogno di mangiare
io fatta d’aria, io sciolta nell’aria
uno zeffiro dolce pronto ad amare tutto.



**


È solo perché l’amore è buono però
dura quel poco che può.
Ed è tutto un sottrarsi uno stare
in bilico tra menzogna e menzogna.
Quella del fingere una sosta
vera e la vera pace
dei corpi offesi quella
di tornare poi nel mondo incerto
fingere ancora una qualche pacatezza
un’obbedienza cieca.
Comodo invece e eterno
è camminare cauta
e a piedi scalzi nella clinica
bianchissima della mia vera cura.



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Io non mi muovo, ma ormai
non tollero nemmeno l’odore delle lenzuola.
Sogno una clinica o un pronto soccorso
una lettiga inamidata quell’odore
di farmaco e di pulizia. Gli infermieri
entrano e controllano la flebo
io non so più se è notte o giorno.
Che immensa beatitudine, che pace.



Giulia Rusconi è nata nel 1984 a Venezia, dove si è laureata in Lettere Moderne. Sue poesie sono uscite in varie riviste, tra cui «AbsoluteVille», «l’immaginazione» e «clanDestino». La raccolta Distanze ha ottenuto il primo premio Teglio Poesia 2012 per la sezione Under 40 in italiano. Parte de I padri ha vinto il primo premio Poesia Giovane 2011 di Fiume Veneto (Pn) ed è inclusa nell’antologia Lagenerazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi ed., 2011). Questo è il suo primo libro.



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