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Channel: blanc de ta nuque
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Serve leggere ai poeti?

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Nel post precedente si ragionava, en passant, sulla relazione lettura-scrittura. O meglio: sull'importanza della lettura per chi voglia cimentarsi con la poesia. Riprendo l'assunto da un libro di Daniele Barbieri, Il linguaggio della poesia (Bompiani, 2011). In breve: la scelta del linguaggio quotidiano dei Crepuscolari si comprende solamente dal confronto con il preziosismo dannunziano. La bufera dei futuristi apre una terza via, "irriverente" dice Barbieri a pagina 157, che si smarca dalle due precedenti, che le nega, in nome del presente, non più languido, ma energico, elettrizzante. "Ogni passaggio – scrive poco più in là – ha ridefinito la norma". Tesi convincente, che appunto presuppone consapevolezza: scrivere del quotidiano, oggi, non ha infatti la stessa valenza di quando lo faceva Gozzano. Tanto più dopo gli studi francofortesi sul rapporto tra linguaggio e ideologia e la pratica che ne ha fatto la neoavanguardia italiana. La lettura aiuta a capire questa complessità. Insegna a essere prudenti quando usiamo la lingua, e non soltanto per la nota ragione secondo cui è lei, piuttosto che noi, a parlare; dobbiamo essere prudenti perché esiste una tradizione autorevole, un canone, che condiziona il senso di ogni parola che scegliamo (e dalla quale, in parte, siamo scelti). Canone, ossia poesie che sono il meglio che ha prodotto una generazione. E di generazioni, da Dante a oggi, ne sono passate parecchie. Se diciamo "amore" dobbiamo sapere come lo pronuncia Petrarca e Tasso e Leopardi e Foscolo e Pascoli e D'Annunzio eccetera. Un eccetera che arriva a De Angelis e a Mariangela Gualtieri. E a tanti altri, come ben sa chi legge.

Tuttavia la conoscenza non fa nulla di nuovo. La conoscenza mette ordine all'esistente, aiuta a vivere. Fa del lettore, un buon lettore. La poesia buona la scrive invece chi ha talento. Ma chi ha solo talento, al massimo fa i fuochi d'artificio, va a capo con grande intuizione, indovina qualche metafora. Anche chi ha talento deve sapere che la bellezza della lingua è un fatto culturale, che passa per il sublime e l'antisublime, per la rarefazione celeste e l'orrido, per la forma e per l'informe, come ben dice Rimbaud nel 1871. La lettura aiuta a districarci in questo labirinto; il talento a fare il salto nello spazio bianco della pagina per dare vita a qualcosa che vale la pena di leggere.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma chi stabilisce le gerarchie del talento? Rispondo: vogliamo dire che Dante non aveva talento? che Leopardi poteva fare l'idraulico? Che Sanguineti è stato solo un docente coltissimo che ci ha abbindolato con i suoi coup de théâtre? Scommetto che su Sanguineti il dubbio qualcuno lo avanzerà. Anche in quel caso occorreranno parecchi libri per fondare l'obiezione, che dovrà nascere dal confronto con quanto si scriveva alla metà degli anni cinquanta e agli inizi degli anni settanta, due momenti decisivi della storia poetica italiana. La sua scrittura ha senso se contestualizzata con quelle precise tensioni storiche e letterarie. Non si fonda in esse, ma è capace di lasciarle essere nelle sue crepe. In altre parole, ha dovuto immergersi in esse, conoscerle e farne esperienza, prima di prendere la parola. Il talento, poi, ne ha indirizzato la forma, che non è contenitore, non lo è mai, bensì bordo estremo di un sistema tensivo in cui l'autore, ciascun autore, al tempo stesso si riconosce e si disconosce. L'insoddisfazione per la propria opera e il desiderio di riformarla, nascono da qui.



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