Con l’antologia La figlia dell’insonnia e grazie all’ottima traduzione di Claudio Cinti, anche in Italia è stato possibile incontrare e attraversare il percorso poetico di Alejandra Pizarnik, interessante poetessa Argentina scomparsa nel 1972 all’età di 36 anni. Apprezzabile l’iniziativa, assunta da Crocetti, di rieditare nel 2015 il volume antologico pubblicato nel 2004, rendendolo così nuovamente disponibile. È indubbio che avvicinarsi alla scrittura della Pizarnik implichi dei rischi; può accadere di essere trasportati in un labirinto dove l’oscurità, il silenzio e il disvelamento di una solitudine quasi preziosa (al punto da essere nutrita?) innescano nel lettore un processo che, sfiorando l’angoscia, porta alla percezione della morte quale elemento coessenziale dell’esistere: “La morte sempre al fianco. / Ascolto il suo dire. / Odo me sola.”. Assistiamo a una sorta di osmosi continua tra la vita e la morte, a un sistema di rimandi sostenuti dall’uso ossessivo di alcune parole quali notte, silenzio, memoria, specchio e numerose altre che, in questo modo, acquisiscono una forza iconica dirompente. Una penetrante sensibilità utilizzata come un sonar, rileva vibrazioni, eco e riverberi nascosti tra le cose, rispetto alle quali, però, l’autrice appare sempre isolata: “E ancora mi azzardo ad amare / il suono della luce in un’ora morta / il colore del tempo in un muro abbandonato. // Nel mio sguardo ho perduto tutto.” Rifugio necessario, e al pari della morte, fulcro centrale nell’opera di Alejandra, è la memoria; scrigno dove alberga l’infanzia, avvertita come luogo dell’appartenenza, verso cui la scrittrice rivolge uno sguardo nel contempo irrequieto e affettuoso, forse, alla ricerca di un equilibrio che appare irraggiungibile: “E la sete, la mia memoria è la sete, io sotto, sul fondo, nel pozzo, io bevevo, ricordo.” Si avverte un dibattersi racchiuso tra ombre e ricordi; un tentativo di ordinare le connessioni all’interno di un sé complesso e ramificato dove trovano ancora vita il passato e il presente, la bambina e diverse figure di donna (si vedano, tra le altre, l’addormentata e la piccola viaggiatrice) al cui servizio vengono forniti specchi e maschere utilizzati come un prisma in grado di mostrare la frammentazione di una natura dalle coordinate irregolari. La maschera è una presenza costante; oggetto che, da una parte consente il nascondimento e dall’altra propone una diversità desiderata. Ancora, durante gli ultimi anni, scriverà: “Avrò tempo per farmi una maschera quando emergerò dall’ombra?”. Una sensazione di claustrofobia costituisce il precipitato ultimo. Dobbiamo prepararci ed essere consapevoli che, lo smarrimento di cui queste pagine sono imbevute, grazie alla potenza rivelatrice dei versi, potrebbe affiorare in noi ogni volta che ci troveremo di fronte a uno specchio o nel silenzio di una stanza dove l’oscurità prevalga sulla luce: “Paura di essere due / sulla via dello specchio: / qualcuno che dorme in me / mi mangia e mi beve.” All’interno dell’antologia, che arriva a toccare praticamente tutto l’arco della produzione poetica della Pizarnik (viene esclusa un’opera giovanile che la stessa autrice ha rinnegato), incontriamo un linguaggio capace di notevoli variazioni; si passa dai frammenti, veri e propri lacerti lirici con i quali la poetessa sembra procedere per impulsi (tratto evidente nell’unico libro riportato integralmente: “Albero di Diana”), a pagine di prosa poetica dove il respiro della scrittura si fa più disteso. Consapevole dell’importanza della poesia, intesa come strumento di interazione con il fuori da sé e di scandaglio della propria complessità, Alejandra ne avverte, però, tutta l’inafferrabilità, al punto da scrivere in una lirica realizzata tra il 1970 e il 1972: “- Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi / e hai preferito l’attesa, / come se tutto ti annunciasse la poesia / (quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile / - sono solo venuta a vedere il giardino -).
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